- martedì 08 Luglio 2025
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Acqua: il carburante invisibile della salute. Perché idratarsi è il vero segreto del benessere

Bere acqua è un gesto tanto semplice quanto essenziale, eppure spesso sottovalutato nella frenesia della vita moderna. L’idratazione, infatti, rappresenta uno dei pilastri fondamentali della salute umana, influenzando ogni aspetto del nostro organismo, dal funzionamento cellulare alle prestazioni mentali e fisiche. In un mondo in cui si parla sempre più di diete, superfood e integratori, l’acqua rimane il nutriente più importante e insostituibile, la cui carenza può avere effetti immediati e a lungo termine sulla nostra salute.

L’acqua: la componente vitale del corpo umano

Il corpo umano è composto per circa il 60% di acqua negli adulti, una percentuale che può arrivare fino al 75% nei neonati. Questa presenza massiccia non è casuale: l’acqua è il mezzo attraverso cui avvengono tutte le reazioni biochimiche fondamentali per la vita. Ogni cellula, tessuto e organo necessita di acqua per funzionare correttamente. L’acqua regola la temperatura corporea, trasporta nutrienti e ossigeno alle cellule, elimina le scorie metaboliche attraverso urina, sudore e feci, lubrifica articolazioni e tessuti, favorisce la digestione e l’assorbimento dei nutrienti, sostiene il lavoro di cuore, cervello e muscoli.

Una corretta idratazione contribuisce al mantenimento della pressione arteriosa, alla prevenzione di calcoli renali e infezioni urinarie, e supporta persino la concentrazione e l’umore. Anche una lieve disidratazione può avere effetti immediati sulla salute fisica e mentale, causando stanchezza, mal di testa, difficoltà di concentrazione, pelle secca, problemi digestivi e crampi muscolari.

Quanta acqua bere ogni giorno?

Non esiste una quantità universale valida per tutti, ma le linee guida suggeriscono che un adulto dovrebbe assumere tra un litro e mezzo e due litri e mezzo d’acqua al giorno, a seconda di età, sesso, peso, attività fisica, clima e condizioni di salute. Il fabbisogno idrico si calcola generalmente in base al peso corporeo: circa 35 ml per ogni kg di peso. Per una persona di peso medio, ciò significa circa due litri d’acqua al giorno, ma il fabbisogno aumenta in caso di attività sportiva, temperature elevate o stati febbrili.

Importante ricordare che anche gli alimenti, soprattutto frutta e verdura, contribuiscono all’idratazione quotidiana. Non è necessario bere solo acqua pura: tisane, succhi naturali e brodi possono integrare l’apporto idrico, ma l’acqua rimane la scelta migliore per evitare zuccheri e calorie in eccesso.

I benefici di una corretta idratazione

Mantenere il giusto livello di idratazione significa garantire al corpo energia, lucidità mentale e resistenza fisica. L’acqua lubrifica le articolazioni, previene la secchezza orale, migliora la salute della pelle rendendola più elastica e luminosa, regola la temperatura corporea e favorisce la digestione. I muscoli, costituiti per la maggior parte da acqua, funzionano meglio e sono meno soggetti a crampi e infortuni quando sono ben idratati.

L’idratazione aiuta a mantenere la pressione sanguigna stabile, elimina i rifiuti corporei attraverso sudore e urina e favorisce la respirazione, fluidificando il muco delle vie aeree. Bere acqua contribuisce anche a prevenire danni ai reni, riducendo il rischio di calcoli e infezioni urinarie, e trasporta le sostanze nutritive nel corpo, favorendo la salute generale di ogni organo e tessuto.

Durante l’attività fisica, una buona idratazione è fondamentale per sostenere le prestazioni atletiche, prevenire il surriscaldamento e favorire il recupero muscolare. La disidratazione, anche lieve, può portare a una diminuzione della resistenza, affaticamento precoce e rischi maggiori di infortuni.

Gli effetti della disidratazione

La disidratazione, ovvero la carenza di acqua nell’organismo, può avere conseguenze anche gravi. I primi segnali sono la sensazione di sete, la diminuzione della produzione di urina, la sudorazione ridotta e la secchezza di pelle e mucose. Se trascurata, la disidratazione può compromettere le funzioni cognitive, causando confusione mentale, difficoltà di concentrazione e problemi di memoria. Aumenta il rischio di colpi di calore, riduce le prestazioni fisiche, favorisce le infezioni urinarie e può portare a problemi renali, disturbi digestivi e crampi muscolari.

Nei casi più gravi, la disidratazione può causare abbassamenti di pressione, vertigini, svenimenti, shock ipovolemico e danni a organi vitali come reni, fegato e cervello. Le cellule cerebrali sono particolarmente sensibili alla carenza di acqua, motivo per cui uno stato avanzato di disidratazione può generare stati di confusione e amnesie. La pelle perde elasticità, i dischi intervertebrali si assottigliano, aumentando il rischio di dolori alla schiena e patologie della colonna vertebrale.

La disidratazione cronica, spesso sottovalutata, può aggravare i sintomi di patologie croniche come diabete e ipertensione, aumentando il rischio di complicazioni. Nei bambini e negli anziani, il rischio di disidratazione è ancora più alto, a causa di una minore percezione della sete e di una maggiore vulnerabilità agli sbalzi idrici.

Un’adeguata idratazione è anche una potente arma di prevenzione. Bere acqua regolarmente aiuta a prevenire infezioni urinarie, calcoli renali, stitichezza, mal di testa e persino alcune malattie metaboliche. L’acqua favorisce la depurazione dell’organismo, stimola il metabolismo, aiuta a controllare il peso corporeo e può persino migliorare l’umore, grazie a un miglior rilascio di endorfine.

L’idratazione svolge un ruolo chiave nella regolazione della pressione arteriosa, nella prevenzione delle trombosi e nel mantenimento della salute cardiovascolare. Un sangue ben idratato è meno viscoso, scorre meglio e riduce il rischio di complicazioni a livello del cuore e dei vasi sanguigni. Anche la salute delle ossa e delle articolazioni trae beneficio dall’acqua, che mantiene i tessuti elastici e previene l’artrite.

Bere regolarmente durante tutta la giornata, anche in assenza di sete, è il modo migliore per garantire un apporto costante di liquidi all’organismo. È preferibile bere piccoli sorsi frequentemente, piuttosto che grandi quantità in una sola volta. L’acqua a temperatura ambiente è generalmente meglio tollerata, soprattutto durante i pasti. Nei periodi di caldo intenso, in caso di febbre, diarrea o attività fisica prolungata, è fondamentale aumentare l’apporto idrico.

Prestare attenzione ai segnali che il corpo invia è essenziale: urine scure, pelle secca, stanchezza e difficoltà di concentrazione sono campanelli d’allarme da non sottovalutare. Anche la dieta può aiutare: consumare frutta e verdura ricche di acqua, come anguria, cetrioli, arance e lattuga, contribuisce in modo significativo all’idratazione giornaliera.

Un gesto semplice, un grande investimento per la salute

Bere acqua è un gesto semplice, economico e alla portata di tutti, ma rappresenta uno degli investimenti più importanti che possiamo fare per la nostra salute. L’idratazione è la chiave per mantenere il corpo efficiente, la mente lucida e il benessere generale. Non aspettare di avere sete: fai dell’idratazione una sana abitudine quotidiana, perché il tuo corpo ti ringrazierà ogni giorno, oggi e nel futuro.

Conflitto in Medio Oriente: un viaggio umanitario oltre i confini del dolore

Articolo di Alice Salvatore e Alessandro Trizio

Alle origini: confini tracciati col righello, popoli lasciati senza voce

Per capire il presente del Medio Oriente bisogna sporcarsi le mani con la sua storia. Non quella scritta nei manuali scolastici, ma quella tracciata con l’inchiostro degli accordi segreti, il piombo delle armi e la polvere di città spartite secondo logiche di potere. È il 1916. L’Impero ottomano, stremato dalla guerra, si sta sgretolando. Due diplomatici europei – Mark Sykes per la Gran Bretagna e François Georges-Picot per la Francia – si incontrano per spartire in anticipo le spoglie di un impero che ancora non è caduto. Con una mappa sul tavolo e un righello in mano, disegnano confini rettilinei e artificiali, dividendo terre complesse come se fossero proprietà coloniali. Conoscevano quei luoghi, li avevano attraversati, ma li guardavano dall’alto, con lo sguardo strategico degli imperi. La linea più celebre – passata alla storia come “il confine tirato col righello” – tagliava idealmente il Medio Oriente da ovest a est, dal Mediterraneo alla Mesopotamia. Ma sotto quel tratto netto c’erano villaggi, tribù nomadi, lingue diverse, fedi millenarie. Popoli interi destinati a svegliarsi dall’oggi al domani divisi da un confine che nessuno aveva scelto. E che nessuno avrebbe mai veramente accettato.

Da quel gesto, compiuto lontano da chi ne avrebbe pagato il prezzo, nascono Stati-nazione dai confini del tutto artificiali, che ignorano le realtà etniche e religiose sul terreno. Siria, Iraq, Libano, Transgiordania, Palestina: nazioni nuove per entità politiche pensate più per servire interessi europei che per rappresentare i popoli che vi abitavano. È l’eredità velenosa dell’accordo Sykes-Picot, ancora oggi considerato da molti analisti come l’origine di molte fratture identitarie e geopolitiche che dilaniano la regione. In quegli stessi anni, gli inglesi avevano promesso agli arabi l’indipendenza se si fossero ribellati agli ottomani. Un giovane ufficiale, Thomas Edward Lawrence – passato alla storia come “Lawrence d’Arabia” – galvanizzava le tribù beduine nel deserto promettendo libertà. Ma mentre Lawrence combatteva insieme agli arabi, a Londra si preparavano i documenti per imporre mandati coloniali, e a Parigi si calcolavano quanti barili di petrolio spettassero a chi. Le promesse di autodeterminazione vennero smentite ancor prima di poter essere mantenute.

Nel frattempo, nel cuore dell’Europa, prendeva forma un altro progetto destinato a segnare la regione: nel 1917 il governo britannico, con la Dichiarazione Balfour, appoggiò ufficialmente l’idea di una “sede nazionale” per il popolo ebraico in Palestina. Anche in questo caso, le decisioni venivano prese altrove: nessuno consultò né gli ebrei, presenti da secoli nella Terra Santa, né i palestinesi arabi che vi vivevano stabilmente da generazioni. Popolazioni entrambe radicate in quella terra, eppure escluse da una decisione che le avrebbe segnate a lungo.

Per capire quanto profonde siano quelle ferite, basta un’immagine all’apparenza semplice: la posta. Nella Palestina degli anni ’20, sotto mandato britannico, anche una lettera tra due città vicine – Betlemme e Hebron, ad esempio – poteva diventare oggetto di sospetto. Veniva aperta, letta, archiviata. Le parole, prima ancora di raggiungere il destinatario, finivano tra le mani dell’autorità coloniale. Ogni frase era una traccia, ogni nome un file da classificare. E così anche le persone – ebrei o arabi che fossero – venivano incasellate, etichettate, ridotte a categorie decise altrove. Sulle loro carte d’identità comparivano parole nuove, parole nuove, categorie etniche e religiose standardizzate, che spesso non appartenevano alla lingua viva delle persone, formule estranee che spesso non avevano mai usato per descriversi. In pochi anni, perfino dire “chi sei” divenne un atto amministrativo. Un’identità imposta dall’alto, che non parlava la lingua della terra, ma quella del dominio.

Già negli anni ’20 quelle linee tracciate sulla carta cominciarono a sanguinare. In Siria, nel 1920, la popolazione insorse contro la dominazione francese: per tre giorni i ribelli riuscirono a tenere testa all’esercito coloniale nella battaglia di Maysalun. In Iraq, sempre nel 1920, la grande rivolta contro il mandato britannico vide sunniti e sciiti combattere fianco a fianco per liberarsi del giogo straniero. L’Occidente rispose con la forza, spesso con bombardamenti aerei sui villaggi in rivolta. Sono episodi oggi poco ricordati, ma rivelano una verità attuale: già allora i popoli rifiutavano di essere spettatori passivi nella propria terra.

Eppure, nonostante accordi segreti e repressioni, nelle città mediorientali di inizio Novecento la convivenza multietnica e multireligiosa era ancora una realtà tangibile. A Baghdad, ad esempio, fioriva una delle più vivaci comunità ebraiche del mondo arabo. Nei quartieri della città sinagoghe e moschee sorgevano a pochi isolati di distanza; le famiglie – musulmane, ebraiche, cristiane – si scambiavano visite durante le rispettive festività. In molti di quei vicoli, a Pasqua i bambini cristiani assaggiavano i dolci di pasta frolla della festa di Purim e a Ramadan gli ebrei sedevano alle tavolate dell’iftar musulmano. Queste memorie spezzano il luogo comune di una regione condannata all’odio atavico: per lungo tempo furono la politica e gli interessi dei potenti, non i popoli, a costruire il nemico.

E oggi? Oggi che i carri armati hanno attraversato di nuovo Gaza e il sangue ha ripreso a scorrere, esistono ancora frammenti di speranza che non fanno notizia. Ci sono giovani israeliani – spesso ultraortodossi – che preferiscono finire in carcere piuttosto che prestare servizio militare, rifiutandosi di essere complici di un sistema che, dicono loro stessi, “ha smarrito ogni umanità”. Ogni settimana manifestano contro il governo di Benjamin Netanyahu nelle piazze di Tel Aviv; alcuni collaborano clandestinamente con attivisti palestinesi per documentare gli abusi nei Territori Occupati. Sono minoranze, certo, ma esistono. E valgono come semi di pace in un terreno reso arido dall’odio.

In questo primo sguardo storico, il Medio Oriente emerge come una terra contesa non solo dalle potenze straniere, ma anche dalle narrazioni. Da un lato le narrazioni dei governi, dei trattati, delle cartine geografiche tracciate col righello; dall’altro quelle delle persone comuni, che da più di un secolo cercano ostinatamente di ricucire una tela lacerata. Non si può capire l’oggi senza guardare all’ingiustizia di quei confini tracciati a tavolino; ma non ci si può neppure rassegnare all’idea che tutto sia ormai irrimediabile. I popoli lo sanno: nonostante il passato avvelenato, il futuro può ancora essere una scelta.

Identità e fede: un mosaico vivente, non un campo minato

Immagina una mattina qualunque del 1946, a Najaf, in Iraq. Il sole filtra tra le grate dell’ospedale. Sul piazzale, davanti al reparto maternità, una piccola squadra di medici si ferma un istante. Un’infermiera cristiana caldea sistema il foulard. Accanto a lei, un chirurgo ebreo scherza con due colleghi arabi, uno sunnita, l’altro sciita. Si sono appena passati il turno. Sono stanchi, ma sorridono. Nessuno di loro sa che, nel giro di pochi decenni, quella normale prossimità sarà raccontata come un’eccezione. Che un mosaico umano così ricco verrà considerato “fragile”, “impossibile”, persino “pericoloso”. Eppure il Medio Oriente, per secoli, è stato esattamente questo: una trama viva e complessa di popoli, lingue e fedi che hanno convissuto più o meno pacificamente, più o meno serenamente, ma a lungo e realmente. Curdi e turchi, persiani e arabi, ebrei e musulmani, cristiani di ogni rito – maroniti, copti, caldei – e poi drusi, yazidi, bahá’í… In alcuni quartieri si poteva pregare in tre religioni diverse nel raggio di cento metri. Poi arrivarono le etichette. I confini. Le guerre. Ma chi ha vissuto quegli anni, o ne ha raccolto i racconti, sa che non era un’utopia. Era realtà. Fragile, certo. Ma reale.

La pluralità in sé non è mai stata il problema. Lo sono diventati i confini imposti, le ideologie di potere, gli eserciti e le milizie. Quando la politica ha iniziato a classificare gli individui, a metterli su scale gerarchiche, a spingere per l’omogeneità forzata, allora il mosaico ha cominciato a incrinarsi. Uno degli esempi più evidenti è la faglia settaria tra sunniti e sciiti. Nata da una disputa sulla successione al Profeta Maometto nel VII secolo – una divergenza teologica antica – questa differenza per molti secoli non impedì la convivenza. Ma nel Novecento, soprattutto dopo il 1979 (anno della rivoluzione khomeinista in Iran), quella frattura religiosa venne armata politicamente. L’Arabia Saudita wahhabita e l’Iran sciita trasformarono la fede in un’arma diplomatica, finanziando alleati e milizie e muovendosi come registi occulti di conflitti “per procura” in Siria, Yemen, Libano, Iraq.

In mezzo, tra questi piani di potenze regionali, ci sono sempre le popolazioni. In Iraq, ad esempio, sunniti e sciiti avevano vissuto fianco a fianco per secoli; non era raro trovare famiglie con il padre sunnita e la madre sciita. Ma dopo l’invasione americana del 2003 e la caduta di Saddam Hussein, il paese è esploso in violenze settarie alimentate proprio da attori esterni in cerca di vantaggi. A Baghdad, il quartiere di Dora – un tempo tra i più misti e vivaci – divenne un campo di battaglia identitario, ripulito casa per casa a colpi di minacce e attentati.

Eppure, anche nell’Iraq insanguinato di quegli anni bui, sono emerse storie diverse. Najaf, 2016. Migliaia di cittadini riempiono le strade, stanchi non della fede altrui, ma del furto del proprio futuro. Protestano contro la corruzione che divora lo Stato, contro la luce che manca, l’acqua che non arriva, gli ospedali svuotati da decenni di ruberie. Sono in gran parte sciiti, come sciite sono le città che si sollevano. Ma i loro slogan non hanno colore religioso: chiedono diritti, giustizia, dignità, per tutti. Accanto ai religiosi, marciano attivisti laici, giovani della società civile, perfino comunisti. Sventola solo la bandiera irachena, simbolo di un’identità che vuole risorgere oltre le divisioni. I sunniti non sono in piazza: la paura di essere accusati, arrestati, zittiti li tiene lontani. Ma molti ascoltano, molti sperano. A Najaf, intanto, gruppi indipendenti raccolgono aiuti per le famiglie cristiane e sunnite sfollate, celebrano il Natale insieme ai vicini, costruiscono legami dove la politica ha seminato diffidenza. Non fu una protesta congiunta. Ma fu un sussulto comune. Perché il settarismo non nasce nelle piazze: nasce nei palazzi. E in quei giorni, per un momento, la società civile irachena provò a dire che un altro Iraq era possibile. Non diviso, ma integro. Non settario, ma giusto. Nessun governo ne parlò, ma la gente sì. Oppure pensiamo a Mosul: liberata dalla morsa dell’ISIS, vide i suoi abitanti – sunniti, sciiti, cristiani – rimettere in piedi insieme sia le moschee che le chiese distrutte. Sui muri, le prime scritte comparse tra le macerie non furono proclami di partito, ma semplici messaggi dipinti con il carbone: “bentornati”, “ricominciamo”, “insieme”.

Un altro caso emblematico di identità negate è la questione curda. Parliamo di circa 40 milioni di persone senza uno Stato, disperse tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Un popolo con una propria lingua, una cultura e una storia millenaria, eppure represso ovunque si trovi. In Turchia, fino a pochi anni fa perfino usare in pubblico la lingua curda era un reato. In Iraq, negli anni ’80, il regime di Saddam arrivò ad usare armi chimiche contro i villaggi curdi – tristemente famosa la strage di Halabja. In Iran, le richieste di autonomia dei curdi sono state sistematicamente soffocate. Eppure, anche qui, i curdi hanno saputo intrecciare alla lotta armata forme di resistenza civile e culturale, trovando anche modi nonviolenti per affermare la propria identità negata. Nella città turca di Diyarbakır, per anni maestri e genitori hanno organizzato scuole clandestine in lingua curda, rischiando il carcere pur di insegnare ai bambini la lingua dei loro nonni. Nella Siria nordorientale, la rivoluzione delle donne curde in Rojava ha dato vita, nel pieno della guerra, a un raro esperimento di autogoverno con forti componenti laiche e femministe, pur tra mille contraddizioni e senza alcun riconoscimento ufficiale da parte della comunità internazionale, dove i consigli cittadini sono guidati insieme da un uomo e una donna e tutte le etnie sono rappresentate. Esperienze così esemplari da dare speranza, eppure spesso ignorate dai grandi media occidentali, troppo concentrati sulle fazioni armate e troppo poco sui germogli di pace.

Il mosaico mediorientale non è fatto solo di religioni o nazionalismi: è fatto anche di memorie condivise, di saperi incrociati, di cucine mischiate, di parole che viaggiano da una lingua all’altra. La parola araba salaam, l’ebraica shalom e la persiana solh significano tutte “pace”. Lo sapevano bene gli intellettuali che negli anni ’50 affollavano i caffè di Beirut, discutendo in tre idiomi diversi e leggendo giornali stampati in cinque alfabeti. Poi però vennero le guerre, e con loro il sospetto e la paura dell’altro. Il Libano indipendente stesso ne è un esempio doloroso: fondato nel 1943 con un sistema politico basato sulle “quote religiose”, ha finito per rinchiudere ogni comunità in gabbie identitarie. Maroniti, sciiti, sunniti, drusi: ognuno con il suo partito, la sua milizia, i suoi alleati esterni. Eppure, non molto tempo fa – nel 2004 – c’erano ancora matrimoni misti tra cristiani e musulmani celebrati simbolicamente nel quartiere di Hamra, a Beirut. Oggi sono rarissimi.

Anche in Israele, il mosaico interno è delicato e frammentato. Il movimento sionista, nato per dare rifugio a un popolo perseguitato, ha portato con sé nuove lacerazioni. Israele ha riunito ebrei provenienti da ogni angolo del mondo, con culture ed esperienze diversissime: ebrei ashkenaziti (europei), sefarditi (dal Nord Africa), mizrahi (orientali), ebrei etiopi, russi, israeliani nativi, ebrei laici, religiosi, ultraortodossi, progressisti… Non tutti vedono il paese allo stesso modo, non tutti sostengono l’attuale governo né la sua politica verso Gaza. Proprio in questi mesi, decine di migliaia di israeliani – religiosi compresi – stanno manifestando contro la guerra e contro la riforma autoritaria della giustizia voluta dal governo Netanyahu. Alcuni gruppi di ebrei ultraortodossi, come già ricordato, rifiutano di prestare servizio militare pur sapendo di finire in prigione. C’è chi sfila ogni settimana a Tel Aviv con un cartello scritto in arabo e in ebraico: “non nel mio nome”. Sono voci minoritarie, certo, ma reali. E quindi preziose.

È fondamentale ricordarlo in un’epoca in cui le narrazioni dominanti cercano sempre un nemico assoluto e monolitico: non tutti gli arabi sono fondamentalisti; non tutti gli ebrei appoggiano la guerra; non tutti i sunniti odiano gli sciiti. La verità è che, sotto la crosta delle ideologie, le persone comuni cercano ovunque le stesse cose: sicurezza, giustizia, libertà, la possibilità di vivere con dignità. E ogni volta che qualcuno difende questi diritti per tutti – non solo per il proprio gruppo – il mosaico si ricompone un po’, le crepe si richiudono. In ogni gesto di solidarietà tra diversi, il Medio Oriente ritrova se stesso.

Israele e Palestina: la ferita che non si rimargina

Se esiste un luogo al mondo in cui la storia non è mai “passato”, è qui. Tra il Mediterraneo e il Giordano, tra Gerusalemme e Gaza, la storia non è un capitolo chiuso ma un trauma costante, una presenza quotidiana. Ogni casa, ogni strada, ogni checkpoint racconta una frattura. Ogni bambino che nasce lo fa dentro un conflitto che non ha scelto. E nessuno, da nessuna parte, può illudersi di vivere al riparo dalla Storia.

Tutto ha inizio nel 1948, l’anno spartiacque. Dopo l’orrore indicibile della Shoah, per il popolo ebraico la nascita dello Stato di Israele fu come riemergere da un abisso: la promessa di un rifugio, una terra da chiamare casa. Ma per i palestinesi quello stesso giorno segnò l’inizio di una catastrofe. Nakba, la chiamano ancora oggi: la “catastrofe”. Oltre 700.000 persone furono costrette a fuggire. Alcuni scapparono nel caos, altri vennero espulsi. Molti lasciarono la porta socchiusa, la chiave in tasca, certi che sarebbero tornati presto. Quelle chiavi, arrugginite dal tempo, oggi pendono come talismani nelle case dei figli e dei nipoti. Simboli silenziosi di un ritorno mancato. La guerra scoppiò quasi subito. Il 15 maggio 1948, il giorno dopo la proclamazione dello Stato di Israele, gli eserciti di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq varcarono i confini. La terra promessa si svegliò sotto il rombo dei cannoni: da un lato il sogno di una liberazione, dall’altro la paura dell’annientamento. Sui margini, le ultime truppe britanniche ancora presenti osservavano il disordine che avevano contribuito a generare, lasciando una terra fratturata. Sembrava un’impresa impossibile. Un pugno di uomini e donne, molti dei quali reduci dai campi di concentramento, si trovavano a difendere una patria appena nata, fragile come un respiro. Ma le milizie ebraiche, già temprate da mesi di guerra civile con le forze arabe locali, si riorganizzarono in poche settimane in un esercito regolare. Arrivarono armi dalla Cecoslovacchia, fondi dalla diaspora, volontari da ogni angolo del mondo. E soprattutto, una volontà incrollabile, alimentata dalla memoria di chi non aveva più nulla da perdere. Gli eserciti arabi, divisi da rivalità interne e privi di una strategia comune, non riuscirono a sfondare. E così, contro ogni previsione, Israele resistette. Non solo: consolidò i suoi confini oltre quanto previsto dal piano ONU.

Due memorie si accendevano nello stesso fuoco. Comunque la si racconti, per chi c’era ha avuto un solo significato: diventare straniero nella propria terra.
E da quel giorno, ogni pietra rimossa, ogni campo coltivato, ogni casa ricostruita, ha parlato la lingua del rimpianto. E della resistenza.

La tensione non si placa negli anni successivi. Nel 1967, la miccia si accende di nuovo. Egitto, Siria e Giordania mobilitano le truppe, chiudono lo stretto di Tiran, invocano la guerra. Israele, sentendosi accerchiato, lancia un attacco preventivo. In sei giorni, conquista Cisgiordania, Gerusalemme Est, Striscia di Gaza, Alture del Golan, Sinai. Le mappe si deformano, i confini diventano mobili, tracciati più dalla forza che dal diritto.

Israele giustifica l’occupazione con la necessità di garantire la propria sicurezza in un contesto ostile; ma sul terreno prende forma un’altra realtà: colonie che crescono come funghi su terre appena conquistate, espropri silenziosi di uliveti e campi, documenti d’identità e coprifuoco che decidono chi può muoversi e chi no. Ogni chilometro quadrato diventa una dichiarazione politica. Ogni permesso negato, un messaggio di controllo.

Nel 1987 scoppia la Prima Intifada.
Apparentemente — e romanticamente — è la rivolta dei ragazzini armati di pietre contro i carri armati. Le immagini che arrivano da Ramallah, Nablus, Gaza raccontano vicoli pieni di adolescenti che sfidano con sassi e bandiere i blindati dell’esercito israeliano. A Beit Sahour, villaggio cristiano vicino a Betlemme, l’intera comunità smette di pagare le tasse all’amministrazione militare: “No taxation without representation”, proclamano. È una delle prime forme organizzate di disobbedienza civile nella storia palestinese recente.

Ma dietro quell’energia giovanile, spesso inconsapevole, si muovono forze più oscure. Dopo l’accordo di Jibril del 1985, che vide il rilascio di oltre un migliaio di detenuti palestinesi — tra cui anche diversi ergastolani condannati per atti terroristici — molte cellule armate erano tornate operative. La rivolta divenne presto terreno fertile per la riorganizzazione di gruppi clandestini, che videro nella sollevazione civile un’occasione per rilanciarsi. Alcuni si insinuarono tra le proteste, strumentalizzandole e contaminandone il senso originario.

In quello stesso clima, alla fine del 1987, si costituisce formalmente Hamas, espressione radicale dei Fratelli Musulmani in Palestina, e destinata a diventare uno degli attori più violenti e determinanti del conflitto. Anche la Jihad Islamica e altri gruppi militanti si inseriscono nella mobilitazione: non per difendere la popolazione, ma per guidarla verso un’escalation armata, spesso sacrificandone le vite sull’altare di strategie altrui.

Nel frattempo, la popolazione palestinese, stretta tra due fuochi — la repressione israeliana e il ricatto delle milizie — cerca di sopravvivere e resistere con gli strumenti che ha. Non solo madri, ma studenti, medici, insegnanti, artigiani. Comitati popolari riaprono scuole clandestine nei seminterrati, allestiscono ambulatori d’urgenza, coltivano orti sui tetti. La resistenza si fa quotidiana, creativa, ostinata: una cultura della vita che sfida la logica della distruzione.

Ma anche la risposta israeliana si fa sistematica. Lo Stato si sente sotto assedio permanente, colpito da attacchi continui e imprevedibili. I militari operano in stato d’allerta, e spesso colpiscono senza distinguere. Braccia spezzate a colpi di manganello, case demolite come punizione collettiva, arresti di massa, minori trattenuti per mesi senza processo. Ogni sasso può nascondere un’esplosione. Ogni giovane può essere un militante.

La Prima Intifada è un intreccio complesso: di coraggio civile e manipolazione armata, di repressione brutale e dignità disarmata, di sogni popolari e interessi strategici. Eppure, nel caos, una verità resta innegabile: finché non si riuscirà a separare la voce della società civile dalle urla delle milizie, finché Israele continuerà a colpire indiscriminatamente senza distinguere tra chi resiste e chi approfitta, la pace sarà un orizzonte lontano. Perché solo ascoltando chi costruisce, e non chi distrugge, sarà possibile cambiare davvero la storia.

Arrivano gli anni ’90 e con essi uno spiraglio di speranza: gli Accordi di Oslo del 1993 sembrano promettere “due popoli, due Stati”. La storica stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin sul prato della Casa Bianca fa il giro del mondo. Ma quella promessa di pace si scontra presto con la realtà. I negoziati procedono a rilento e intanto, sul territorio, la vita quotidiana continua a peggiorare. Le colonie israeliane nei territori occupati non si fermano, anzi si espandono. L’“autonomia” palestinese prevista dagli accordi si traduce in un puzzle di zone amministrative (Area A, B, C) che spezzettano la Cisgiordania in isole scollegate, inframmezzate da strade riservate ai coloni. I palestinesi per muoversi devono esibire permessi sempre più difficili da ottenere. Capita che una seduta di chemioterapia, un parto complicato, un funerale diventino imprese quasi impossibili a causa di un checkpoint chiuso. La pace promessa resta appesa a un filo, e quando nel 1995 Rabin viene assassinato da un estremista israeliano, quel filo si spezza di colpo.

Nel 2000 esplode la Seconda Intifada. Stavolta le pietre non bastano più: arrivano le armi e gli attentati suicidi. Esplosioni squarciano autobus affollati a Gerusalemme e Tel Aviv, kamikaze si fanno saltare nei mercati. La risposta israeliana è durissima: incursioni nei centri abitati, retate di militanti ma anche di civili, bombardamenti mirati. A Jenin, nel 2002, un intero quartiere residenziale viene raso al suolo durante un’offensiva. A Gaza le notti diventano insonni per il ronzio ininterrotto dei droni armati sopra i tetti. Nessuno è più al sicuro: né chi vive dietro il Muro che Israele nel frattempo ha costruito attorno ai territori palestinesi, né chi ogni giorno deve attraversare quel muro per curarsi o lavorare. Ogni passo, ogni gesto quotidiano diventa una scelta politica. Perfino un sorriso può diventare un atto di resistenza.

Nel 2005 Israele si ritira unilateralmente da Gaza. Ma non è la fine dell’occupazione: è solo l’inizio di un’altra forma di controllo. Il blocco imposto subito dopo – da Israele a nord e ovest, dall’Egitto a sud – trasforma quella sottile striscia di terra in una prigione a cielo aperto. Nessuno entra, nessuno esce. Manca l’acqua, manca la corrente, mancano i farmaci. I sogni si infrangono contro un muro più alto del cielo. Nel 2007 la situazione precipita. Hamas, che aveva vinto le elezioni legislative l’anno prima, prende il potere con un colpo di forza, estromettendo Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese con uno scontro armato interno. Il governo dell’ANP viene cacciato da Gaza, le elezioni cancellate, la voce civile messa a tacere. Da quel momento, Gaza non è più solo sotto assedio esterno: è ostaggio anche di un potere interno che reprime il dissenso, educa all’odio, e nasconde le sue armi nei cortili delle scuole, tra gli ospedali, nei tunnel sotto le case. Da allora, Gaza diventa il cuore pulsante di una spirale senza tregua. Le operazioni militari si susseguono: Piombo Fuso nel 2008, Margine Protettivo nel 2014, Guardiani delle Mura nel 2021. Ogni volta, la stessa tragedia. Israele risponde agli attacchi missilistici di Hamas — reali, continui, minacciosi — con una forza sproporzionata, che travolge tutto ciò che incontra. Quartieri interi vengono cancellati, scuole bombardate, ospedali devastati. Migliaia di morti, in gran parte civili. Famiglie intere sotto le macerie. Il diritto di Israele a difendersi è indiscutibile. Ma è il modo in cui lo esercita che alimenta il dolore e l’odio. Hamas si nasconde tra i civili. Israele, invece di isolare le milizie, colpisce in massa, lasciando che sia la popolazione a pagare il prezzo più alto. In mezzo, ci sono vite. Bambini, anziani, studenti, madri, lavoratori. Vite spezzate che nessuno potrà più riparare.

Poi arriva il 7 ottobre 2023. All’alba, centinaia di militanti di Hamas sfondano inaspettatamente le barriere di confine ed entrano in territorio israeliano. Attaccano basi militari ma anche kibbutz e villaggi, colpiscono civili nelle loro case, prendono più di 200 ostaggi. È il giorno più nero per Israele dalla sua fondazione: oltre 1.200 israeliani – in maggioranza civili – vengono uccisi nel giro di poche ore. L’attacco condotto da Hamas ha scosso il mondo per la sua brutalità: famiglie sterminate nei kibbutz, bambini uccisi, ragazze violentate, corpi dati alle fiamme, ostaggi trascinati via tra le urla. Le testimonianze parlano di sevizie, stupri, esecuzioni sommarie. Un orrore insostenibile, che ha lasciato ferite profonde, difficili da rimarginare. 

Ma il dolore – qualunque sia la sua origine – non può giustificare la punizione collettiva di un intero popolo. E la spirale di vendette che ne è seguita ha colpito migliaia e migliaia di innocenti, moltiplicando la sofferenza.

La reazione israeliana è immediata, furiosa, totale. Gaza viene sottoposta a un assedio spietato. Partono bombardamenti continui dal cielo e dal mare, mentre le forze di terra invadono la Striscia. Nel giro di settimane Gaza si trasforma in un enorme cratere fumante. Interi palazzi si sbriciolano sotto le bombe. Le Nazioni Unite parlano apertamente di catastrofe umanitaria. Si contano decine di migliaia di vittime civili palestinesi (secondo i dati più aggiornati del Ministero della Sanità di Gaza, confermati anche da UN OCHA (l’acronimo di United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, ovvero Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari) a metà giugno 2025 si contano oltre 37.000 morti e circa 86.000 feriti. Altre stime locali non verificate parlano di cifre ancora più alte). Ma le parole della diplomazia restano senza peso.

Il governo israeliano – guidato da Netanyahu insieme a una coalizione di partiti ultranazionalisti – difende le proprie azioni definendole una “guerra al terrorismo”. Eppure persino la Corte Penale Internazionale dell’Aia, che indagava già dal 2021, nel 2024 ha chiesto mandati d’arresto per leader sia israeliani che di Hamas, con l’accusa di crimini di guerra legati al conflitto in corso commessi durante l’offensiva. Le immagini che arrivano da Gaza – ospedali al collasso, quartieri ridotti in cenere, bambini estratti dalle macerie – parlano da sole e scuotono le coscienze di molti nel mondo. Anche dentro Israele qualcosa si muove. Nella centrale piazza Rabin di Tel Aviv migliaia di persone sfilano silenziosamente chiedendo una tregua, la liberazione degli ostaggi, la fine delle violenze contro i civili di Gaza. Ci sono genitori israeliani che il 7 ottobre hanno perso un figlio, e che hanno continuato a partecipare a iniziative di dialogo e memoria con il Forum delle Famiglie in Lutto, alzando cartelli con scritto ‘nessun altro figlio, da nessuna parte’. Le loro parole risuonano anche oggi, mentre altri manifestano a Tel Aviv per chiedere la fine delle violenze. Tra loro c’è anche Rami Elhanan, un padre israeliano che anni fa ha visto morire la figlia in un attentato palestinese, e che oggi marcia accanto ai genitori palestinesi del Forum delle Famiglie in Lutto. “La pace non è un’utopia,” dice, “è una scelta quotidiana. Ma deve partire da noi”.

Nel frattempo, in Cisgiordania, la tensione raggiunge livelli altissimi. I coloni estremisti attaccano i villaggi palestinesi, mentre l’esercito israeliano intensifica retate e posti di blocco. Centinaia di giovani palestinesi vengono arrestati senza processo sotto la legge della “detenzione amministrativa”. L’odio si alimenta giorno dopo giorno. Eppure, anche qui, esistono sacche di resistenza ostinata e non violenta. A Hebron, un gruppo di insegnanti tiene aperta una scuola minacciata di demolizione dalle autorità militari, facendo lezione a turni anche se fuori i coloni li intimidiscono ogni giorno. A Gerusalemme Est, un collettivo di architetti progetta abitazioni “antisfondamento”, case semplici ma costruite con accorgimenti per resistere agli sfondamenti e alle demolizioni forzate. Sono gesti quotidiani, quasi invisibili, ma contengono un seme di futuro.

La tragedia israelo-palestinese è unica perché duplice: due traumi, due storie di persecuzione, due identità che per generazioni si sono percepite in pericolo di estinzione. Ma ormai il tempo non può più essere una giustificazione. Non ci potrà mai essere sicurezza per gli uni senza giustizia per gli altri. Non ci potrà mai essere una pace che sia solo armata. O imparano a convivere, o continueranno a distruggersi a vicenda. L’unica verità che resiste, in mezzo a tanto fango, è che nessuno nasce per odiare. Sarebbe bello vedere un giorno, nel cuore di Hebron, due bambini – uno palestinese e uno israeliano – rincorrere un pallone sgonfio. Magari non parlerebbero la stessa lingua, ma riderebbero allo stesso modo. La tragedia è tutt’intorno a loro, ma per un attimo tace. L’umanità, quando riesce ad alzare la testa, c’è da entrambe le parti del muro. E la vera forza, nel conflitto israelo-palestinese, non è quella degli eserciti: è quella di chi, giorno dopo giorno, sceglie di non odiare. Di chi continua a vivere, a educare, a curare, a coltivare nonostante tutto. In questa terra martoriata, la resistenza più radicale è quella della vita.

L’Iran e il grande gioco nucleare

Non c’è luogo in Medio Oriente più temuto e frainteso dell’Iran.

Nel 1953, un primo ministro democraticamente eletto, Mohammad Mossadeq, osò toccare ciò che era considerato intoccabile: il petrolio. Voleva nazionalizzarlo, sottrarlo al monopolio britannico. Durò poco. La CIA e l’MI6 organizzarono un colpo di Stato che lo depose, restituendo il potere assoluto allo scià Reza Pahlavi, alleato dell’Occidente. Da allora, l’Iran imparò sulla propria pelle che i grandi sogni di autonomia potevano costare caro.

Il risentimento covò sotto la superficie per anni, fino a esplodere nella rivoluzione del 1979. Fu allora che il potere religioso prese il posto di quello monarchico, promettendo giustizia,  portando invece un nuovo tipo di repressione. Il risentimento covò sotto la superficie per anni, alimentato da decenni di disuguaglianze, corruzione e pesanti ingerenze straniere. Sotto lo scià Mohammad Reza Pahlavi, l’Iran visse una modernizzazione forzata, sostenuta dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, ma costruita sul controllo militare, sulla censura sistematica e sulla brutalità della polizia segreta SAVAK, che torturava e faceva sparire oppositori politici, intellettuali e studenti. Nel 1979, quel fuoco esplose: la rivoluzione rovesciò la monarchia e consegnò il potere al clero sciita. Ma se il vecchio regime aveva represso in nome del progresso, il nuovo lo fece in nome della religione. Le speranze di riscatto furono presto tradite: la libertà promessa si trasformò in una teocrazia autoritaria, con tribunali religiosi, repressione politica e un sistema legale oppressivo soprattutto per le donne. Quelle che avevano manifestato per la libertà si trovarono invece con il velo obbligatorio e la sorveglianza morale. Quella rivoluzione che prometteva giustizia e riscatto, finì per instaurare un nuovo regime di paura. Un’altra speranza tradita.

In realtà, la storia dell’Iran non è un’eccezione: in un periodo di sessant’anni, più di sei colpi di Stato su dieci nel Medio Oriente furono sostenuti da attori esterni, con un susseguirsi di interventi che hanno spesso travolto ideali di sovranità nazionale. È un dato che pesa. Come una mano invisibile che continua a ridisegnare i confini, a modellare i destini dei popoli dall’esterno.

Ma sotto la superficie dei grandi giochi di potere, continuava a scorrere un’altra storia: quella della gente comune. Il popolo iraniano – che ha letto poesie sotto censura, danzato in case chiuse, disegnato la libertà nei margini delle agende scolastiche – ha sempre trovato il modo di esprimere il proprio dissenso. Nelle piazze, nelle università, sui social, nelle canzoni, nei film. E anche nei gesti quotidiani, silenziosi: togliersi il velo in pubblico, scrivere versi proibiti, fuggire all’estero pur di non soffocare.

Nel settembre del 2022, il mondo ha conosciuto un nome che, in Iran, è diventato simbolo: Mahsa Amini. Aveva ventidue anni. Fu arrestata dalla polizia morale perché “portava male il velo”. Ne uscì su una barella, priva di coscienza. Morì poco dopo, a causa delle percosse subite. Il suo nome è diventato un grido: nelle strade, nei graffiti, nelle mani alzate delle ragazze che si tagliavano i capelli davanti alle telecamere. Ma quel dolore veniva da lontano. Era solo l’ultima scintilla in un incendio che cova da anni.

Nella retorica occidentale l’Iran è “il nemico”: l’oscura teocrazia islamica che minaccia Israele, finanzia milizie come Hezbollah e Hamas, e destabilizza la regione. Ma al di là dello sguardo ideologico, esiste un dato di fatto: Teheran gioca da decenni un ruolo attivo e ambivalente nel Medio Oriente. Appoggia regimi autoritari e gruppi armati, ma al tempo stesso si presenta come baluardo della resistenza contro l’egemonia americana e israeliana. In Siria, è intervenuta militarmente accanto alla Russia per salvare Assad, alimentando un conflitto che ha causato centinaia di migliaia di vittime. In Libano, a Gaza e in Iraq influenza la politica interna attraverso reti di potere parallele. E in patria reprime con violenza ogni forma di dissenso, soprattutto se arriva dalle donne o dalle minoranze etniche. È uno Stato che teme la libertà, ma ne rivendica il monopolio. Un attore fondamentale — e pericolosamente doppio — nel mosaico mediorientale.

Nella narrazione del regime iraniano, invece, l’Iran è la vittima accerchiata: l’erede di un’antica civiltà che difende la propria sovranità contro un mondo ostile. Dietro queste due immagini contrapposte se ne muove però un’altra, più complessa e fragile: quella di un popolo che da anni vive sospeso tra orgoglio nazionale e isolamento globale, tra sogni infranti e speranze ostinate.

Negli ultimi mesi l’Iran è tornato al centro della scena internazionale per il suo programma nucleare. Ufficialmente Teheran sostiene che sia a scopo civile, ma il livello di arricchimento dell’uranio ha superato la soglia critica del 60%, avvicinandosi pericolosamente all’uso bellico. L’AIEA – l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – aveva lanciato l’allarme da tempo: gli ispettori erano sempre più ostacolati, e dopo il fallimento del delicato accordo sul nucleare del 2015 (noto come JCPOA) l’equilibrio già precario si era spezzato. L’Iran giustificava le sue mosse come reazione alle pressioni occidentali – soprattutto dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sotto l’amministrazione Trump – ma il sospetto della comunità internazionale cresceva, e con esso la tensione.

Il 9 giugno 2025 la miccia si accende. Israele lancia un attacco aereo su larga scala contro le installazioni nucleari iraniane. Non è la prima volta che i due Paesi si colpiscono a distanza, ma questa volta è diverso: l’operazione è aperta, dichiarata, massiva. Stormi di caccia bombardano i siti di Natanz, Isfahan, Khondab e Fordow, centrando laboratori di arricchimento, infrastrutture strategiche e depositi missilistici. L’obiettivo dichiarato è chiaro: bloccare l’avanzamento del programma atomico di Teheran. Colpire, cioè, obiettivi militari e industriali precisi, nel tentativo di interrompere lo sviluppo della capacità nucleare.

La reazione dell’Iran arriva rapida e brutale. Non si limita a un’azione simbolica o indiretta: lancia decine di missili balistici e sciami di droni contro obiettivi civili, mirando al cuore del sud di Israele. Alcuni vengono intercettati dalla difesa aerea, ma altri raggiungono le infrastrutture civili. Uno colpisce in pieno il Soroka Medical Center di Be’er Sheva, costringendo all’evacuazione reparti ospedalieri e causando centinaia di feriti tra pazienti e personale sanitario. Due strategie, due intenti diversi. Israele punta a impianti nucleari militari. L’Iran, invece, risponde colpendo direttamente la popolazione (alcune fonti iraniane hanno accusato Israele di aver successivamente colpito anche l’Università Imam Hussein, a sud di Teheran — ma la notizia non ha trovato conferme ufficiali).
In pochi giorni, si rompe ogni equilibrio, e una nuova fase del conflitto si apre, più scoperta e violenta che mai.

Nel giro di 72 ore le sirene risuonano a Tel Aviv, Haifa, Teheran, Qom – da una parte all’altra della regione. I cieli mediorientali diventano il teatro di uno scontro incrociato: caccia israeliani che volano verso est, missili iraniani che solcano il cielo verso ovest. Le famiglie israeliane passano le notti stipate nei rifugi, mentre a Teheran decine di migliaia di persone fuggono in auto verso le province del nord. Le immagini delle autostrade bloccate dal traffico, delle stazioni di servizio prese d’assalto, delle farmacie svuotate dai cittadini in preda al panico, iniziano a circolare sui social – finché la censura iraniana non cala a oscurare tutto.

Il 18 giugno l’escalation fa un altro passo. L’Iran intensifica i lanci di missili: non colpisce più solo obiettivi militari, ma prende di mira anche zone civili nelle città israeliane. Netanyahu dichiara che Israele si trova di fronte a un “atto di guerra su vasta scala”. Teheran, dal canto suo, denuncia la palese violazione del diritto internazionale da parte di Israele con il primo attacco. Le diplomazie mondiali però restano in silenzio. Sembra tutto sull’orlo del disastro quando, a sorpresa, entra in scena un terzo attore.

Il 22 giugno 2025 gli Stati Uniti colpiscono a loro volta obiettivi sul territorio iraniano. Senza annunci pubblici né ultimatum, parte un’ondata di bombardamenti americani: vengono distrutti altri impianti legati al programma nucleare iraniano e alcuni centri di comando strategico a Teheran. La nuova amministrazione Trump, tornata alla Casa Bianca da pochi mesi, lascia intendere – in dichiarazioni ambigue – che l’obiettivo è “ristabilire l’equilibrio regionale” e “impedire lo scenario peggiore”. Washington definisce l’operazione un’azione difensiva a protezione degli alleati. Ma in Iran quelle esplosioni hanno un altro nome: invasione.

Pochi giorni dopo, arriva un annuncio inatteso. Il 24 giugno Donald Trump, forte del ruolo che gli Stati Uniti si sono ripresi nel conflitto, proclama un cessate il fuoco unilaterale, affermando di aver mediato con successo tra le parti. Non fornisce dettagli; nessun accordo scritto, nessun comunicato congiunto viene diffuso. E infatti, meno di 24 ore dopo, la tregua comincia già a sfilacciarsi. Tel Aviv accusa l’Iran di aver lanciato altri droni oltre confine; Teheran accusa Israele di non aver fermato tutti i raid. Di fatto, la “tregua” regge solo sul filo stanco dell’esaurimento reciproco, mentre sul campo si continua a combattere a bassa intensità.

Tutto questo accade mentre i media internazionali rincorrono esperti e pubblicano mappe di un possibile nuovo grande conflitto. In televisione si discute di armamenti di ultima generazione, di equilibri di potenza, di “escalation controllata”. Ma non si parla del blackout elettrico che lascia migliaia di famiglie senza luce a Qom dopo i primi bombardamenti. Non si parla del padre di Be’er Sheva che ogni notte dorme con le scarpe ai piedi per poter correre più in fretta nel rifugio insieme alla figlia se suonano le sirene. Non si parla della studentessa di Teheran che è costretta a scrivere l’esame finale su un taccuino, a lume di candela, perché la sua città è al buio.

In fondo, è questo il paradosso di chi fa politica internazionale guardando solo i confini e mai le persone: pretendere di costruire il futuro sulle macerie della vita quotidiana. Parlare di sicurezza globale ignorando l’insicurezza nella vita di ogni giorno. Eppure le crisi non si risolvono nei bunker dei generali, ma nelle case della gente. Nelle scuole, negli ospedali, nei cortili dove nonostante tutto c’è ancora chi gioca a pallone. Se c’è una lezione da trarre da questa guerra nell’ombra, è che nessuna nazione può vivere per sempre sotto l’ombra di una bomba atomica senza perdere qualcosa di sé. E che le vere “linee rosse” non sono quelle tracciate sui radar, ma quelle che attraversano i corpi e i cuori delle persone comuni. Sono le madri che non vogliono piangere più figli. Sono gli studenti che reclamano un futuro. Sono i contadini che desiderano solo acqua e pace.

E allora forse la domanda da farsi non è chi abbia vinto questa guerra silenziosa.
Ma chi abbia saputo preservare la propria umanità, nonostante tutto.

Le potenze regionali: il Medio Oriente come scacchiera

In Medio Oriente ogni conflitto locale ha almeno tre livelli di lettura: quello dichiarato, quello occulto e quello simbolico. Nulla accade veramente in isolamento. Ogni mossa militare è anche la mossa sulla scacchiera più grande, dove un altro attore tira i fili. Ogni crisi umanitaria riflette anche lo scontro sotterraneo per il controllo di risorse, rotte commerciali, sfere d’influenza. Se i protagonisti ufficiali delle cronache oggi sono Israele, l’Iran, i palestinesi, il resto della regione non resta certo a guardare. Anzi. Le potenze regionali si muovono con l’abilità dei funamboli: a volte compaiono in primo piano, altre restano dietro le quinte, altre ancora indossano maschere diverse a seconda della convenienza.

La Turchia di Erdoğan è uno degli attori più ambigui. Da un lato sostiene a parole la causa palestinese – condannando Israele in pubblico alle Nazioni Unite – dall’altro mantiene solidi rapporti commerciali e militari proprio con Tel Aviv. In Siria, Ankara ha combattuto sia contro il regime di Assad sia contro i curdi, a seconda di quale minaccia reputasse maggiore per i suoi interessi. La sua visione neo-ottomana del mondo la spinge a proporsi come potenza mediatrice ed equilibratrice, ma spesso agisce piuttosto da potenza di pressione. Ha accolto sul proprio territorio milioni di profughi siriani in fuga dalla guerra, ma non ha esitato a usare la loro disperazione come leva geopolitica nei confronti dell’Europa, minacciando di “aprire i cancelli” e lasciarli proseguire verso ovest. Intanto la popolazione turca, stremata da una grave crisi economica, si divide: c’è chi invoca stabilità a ogni costo, e chi invece accusa il governo di usare il Medio Oriente come un teatro dove fingere una forza imperiale che non esiste più.

L’Arabia Saudita, invece, gioca una partita più silenziosa ma non meno incisiva. Per anni ha finanziato la diffusione dell’estremismo sunnita attraverso reti di madrase e predicatori fondamentalisti in mezzo mondo, ma oggi cerca di mostrarsi sotto una luce diversa: quella di partner della modernizzazione, investendo in tecnologia, sport, green economy. Dopo gli accordi di disgelo con Israele promossi dall’amministrazione Trump (che avevano portato agli Accordi di Abramo del 2020), Riyad sembrava persino pronta a ufficializzare le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Poi è arrivato il 7 ottobre 2023, e la strada si è fatta di nuovo tortuosa. Mentre i leader sauditi condannano pubblicamente le stragi di civili a Gaza, in privato continuano a tessere dialoghi con Israele per non perdere il treno della supremazia regionale. L’élite al potere in Arabia Saudita sa bene che la vera sfida non è soltanto con l’Iran o con Israele, ma con la propria immagine: quella di uno Stato ricchissimo che teme l’instabilità tanto quanto l’arretratezza interna.

E l’Egitto? Bloccato a metà fra la gloriosa eredità panaraba di Nasser e l’autoritarismo pragmatico di al-Sisi, il Cairo è il classico mediatore senza reale autonomia. Controlla il valico di Rafah, l’unica via di uscita per i civili di Gaza, ma spesso – per pressioni esterne o calcolo interno – lo tiene chiuso, intrappolando i palestinesi nella loro prigione. Fa da intermediario nei negoziati tra Hamas e Israele (ad esempio per lo scambio di prigionieri o le tregue umanitarie), ma lo fa quasi sempre sotto dettatura di Washington e di Bruxelles. Nel frattempo il popolo egiziano vive una crisi economica devastante: l’inflazione galoppa, la moneta crolla, mancano pane e lavoro. Sempre più spesso esplodono proteste di piazza contro la corruzione e il carovita, ma il regime le reprime con pugno di ferro. E così persino il confine con Gaza – che potrebbe essere una valvola di sfogo e solidarietà – diventa invece una linea di contenimento della dignità: da un lato una catastrofe umanitaria, dall’altro un governo che teme che quella stessa disperazione sia contagiosa.

Il Qatar gioca la carta del mediatore dai molti volti. Nella capitale Doha ospita il quartier generale politico di Hamas (cosa che gli vale le accuse di fiancheggiare il terrorismo da parte dei suoi vicini), però allo stesso tempo mantiene ottimi rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa. Si propone come attore umanitario finanziando ospedali e progetti di ricostruzione a Gaza e altrove, ma intanto difende i propri interessi nel settore energetico con pugno duro. Dietro l’immagine patinata da “Davos del deserto” – fatta di conferenze internazionali e grandi eventi sportivi come i Mondiali di calcio – il Qatar conduce una diplomazia parallela, segreta, fatta di tavoli informali, pressioni discrete, valigie di milioni di dollari che all’occorrenza cambiano il corso delle alleanze.

Infine c’è la Siria, un Paese ancora in macerie, ridotto a terreno di scontro permanente tra potenze esterne. Dal 2011 la Siria è il tragico esempio di come il Medio Oriente possa diventare una ferita aperta nel cuore del mondo. La guerra civile siriana è divenuta negli anni un conflitto internazionale: il regime di Assad è sopravvissuto soprattutto grazie all’intervento di Russia e Iran; nel nord, la Turchia occupa strisce di territorio per tenere lontani i curdi; a est e a sud, truppe americane e milizie varie controllano le zone petrolifere e contengono i residui dell’ISIS. Intanto la popolazione sopravvive a stento. A Raqqa i bambini giocano tra le rovine lasciate dallo Stato Islamico, imparando a memoria dove non mettere i piedi per non saltare sulle mine. A Idlib centinaia di migliaia di sfollati vivono sotto le tende, con la paura costante delle bombe che ogni tanto piovono ancora. Eppure, anche lì, le comunità si riorganizzano ogni giorno. Nelle scuole improvvisate sotto terra, nei mercati clandestini, nei campetti di calcio disegnati col gesso su un cemento sbrecciato, la vita continua. Nonostante tutto, si vive. Nonostante tutto, si resiste.

In questo scenario di giochi incrociati, l’umano rischia di sparire. Le mappe geopolitiche colorano le zone d’influenza ma cancellano i volti. Parlano di sunniti, sciiti, moderati, estremisti, ma non raccontano dei tassisti, dei pescatori, delle infermiere, dei maestri di scuola. Non raccontano gli incontri clandestini tra giovani attivisti siriani e palestinesi, che pure avvengono scambiandosi esperienze di resistenza. Non raccontano i comitati di madri che, nei campi profughi, cucinano insieme ogni venerdì per tutte le famiglie – indipendentemente dalla fede, dalla fazione, dall’etnia.

La scacchiera è grande, ma le pedine non sono tutte uguali. Alcune, semplicemente, non hanno mai chiesto di giocare. Sono i civili di ogni paese del Medio Oriente, usati come messaggi da recapitare o come ostaggi di strategie che non hanno mai potuto influenzare. Eppure sono proprio loro la parte più resistente del sistema. Quella che tiene insieme le città quando tutto crolla. Quella che ricostruisce con le proprie mani, che inventa nuove forme di convivenza, che sfida le identità imposte con la sola forza del continuare a vivere. E se un giorno le mappe di questa regione cambieranno davvero, non sarà per un trattato firmato in una capitale lontana. Sarà perché quelle voci oggi sommerse diventeranno un’onda. Sarà perché il dolore, a un certo punto, avrà superato la paura.

Le potenze globali: interessi lontani, conseguenze vicine

A migliaia di chilometri dal deserto del Negev, in una sala climatizzata di Washington, un governo approva un nuovo pacchetto di aiuti militari. A Londra, in una conferenza stampa, si riafferma il “diritto all’autodifesa” di un alleato storico. A Mosca, tra un tavolo negoziale e l’altro, si calcolano i vantaggi indiretti di una guerra altrui. E a Pechino, nelle stanze ovattate del potere, si osserva con interesse ogni crepa dell’egemonia americana. Così funziona la geopolitica globale: si parla di strategie tra potenti, ma si agisce sulla pelle di altri popoli.

Le grandi potenze mondiali hanno sempre guardato al Medio Oriente come a una scacchiera di religioni ed energie da muovere a proprio vantaggio. Dietro ogni alleanza stretta o ogni veto posto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dietro ogni raid “tollerato” o rifornimento di armi, ci sono scuole distrutte, ospedali al collasso, famiglie sfollate. I conflitti locali diventano messaggi planetari, ma il prezzo lo pagano sempre i più vicini all’esplosione. E i più poveri.

Gli Stati Uniti, che amano definirsi “guardiani della libertà”, restano il garante militare e diplomatico principale di Israele in regione. Le loro basi militari costellano il Medio Oriente dal Golfo Persico al Mediterraneo. I cargo con armamenti made in USA arrivano puntuali ogni settimana. E quando Israele bombarda, la Casa Bianca raramente condanna apertamente. Gli interessi in gioco per Washington sono molteplici: contenere l’influenza iraniana, assicurarsi il controllo del corridoio energetico del Mediterraneo orientale, sostenere la propria industria bellica che da quei conflitti trae profitti enormi. Ma la retorica della democrazia e dei diritti umani suona terribilmente vuota quando, a Khan Younis, un bambino muore sotto le bombe per la settima notte consecutiva e su quei missili c’è scritto “Made in USA”

E non è certo la prima volta che le scelte geopolitiche americane generano mostri. Negli anni ’80, per contenere l’influenza sovietica in Afghanistan, fu proprio la CIA a finanziare e armare i mujaheddin. Tra questi, anche un giovane saudita destinato a diventare il nemico pubblico numero uno: Osama Bin Laden. Un’alleanza temporanea, costruita sull’opportunismo, che ha lasciato in eredità una delle ombre più lunghe della storia recente.

Anche l’Europa, seppur con più timidezza, è presente nella partita. Francia, Germania e Regno Unito tentano di mantenere un equilibrio: a parole evocano i diritti umani, ospitano summit di pace, inviano aiuti umanitari; nei fatti, però, stringono accordi di difesa e vendono armi a governi autoritari della regione. Il linguaggio ufficiale è quello dei valori, ma quello ufficioso è la lingua degli affari – droni, petrolio, gas, commesse miliardarie. Così i proclami europei spesso si schiantano contro la realtà: i reportage dai campi profughi al gelo, le ambulanze bloccate ai check-point, i giornalisti uccisi con precisione chirurgica nonostante le loro pettorine con la scritta “Press”.

La Russia, dal canto suo, ha consolidato la propria presenza nella regione intervenendo con forza nella guerra siriana, dove non si è limitata a fornire armi e addestramento: ha bombardato con i suoi aerei, combattuto con i suoi soldati, sostenuto attivamente il regime di Assad nella repressione della rivolta. Mosca ha impiegato il proprio potere di veto all’ONU per proteggere Damasco dalle risoluzioni internazionali, rendendosi il tutore armato di una delle dittature più sanguinose del secolo. L’obiettivo del Cremlino è chiaro: mostrare che l’Occidente non è l’unico regista possibile in Medio Oriente. Ma la Russia non interviene certo per fermare i massacri: li usa come moneta di scambio diplomatica. Nelle sue televisioni di Stato, le sofferenze di Gaza vengono raccontate non per compassione verso i palestinesi, ma per accusare l’ipocrisia dell’America. Tutto è calcolo, nulla è empatia.

La Cina si muove in silenzio, con la pazienza di una dinastia millenaria. Pechino investe in porti, firmando accordi infrastrutturali in Iran, in Egitto, in Arabia Saudita; porta le sue tecnologie di sorveglianza digitale dove può; vende droni a buon mercato senza troppe domande. Non interviene mai direttamente nei conflitti – per ora – ma tesse relazioni economiche che un domani potrebbero permetterle di proporsi come mediatrice globale super partes. Intanto importa petrolio, esporta telecamere e riconoscimento facciale, resta ufficialmente “neutrale” nelle dichiarazioni, ma spietata nella logica: ogni crisi è un’opportunità di espansione d’influenza mentre gli altri si logorano a vicenda.

Eppure, nessuno di questi attori internazionali si ferma davvero a guardare. A sentire. A vivere ciò che accade a chi in Medio Oriente ci abita, lo ama, lo teme. In un sobborgo di Beirut, ad esempio, una madre libanese riceve la notizia che il figlio – giovane soldato – è morto in uno scontro a fuoco tra Hezbollah e truppe israeliane al confine. Non l’aveva mandato lei a combattere. Aveva solo sperato per lui in un lavoro. In una cittadina israeliana, una ragazza ultraortodossa viene arrestata perché si è rifiutata di fare il servizio militare. Ha vent’anni e un principio semplice: non si può difendere la fede uccidendo altri figli di Dio. Alle porte di Gaza, in una baraccopoli improvvisata, un anziano palestinese disegna a memoria la piantina della casa che gli hanno distrutto con le bombe. Accanto, il nipotino cerca di ricostruirla con il fango e le mani.

Queste storie non entrano nei dossier segreti delle intelligence. Non pesano nei summit diplomatici. Eppure sono la realtà più resistente, quella che ostinatamente continua a vivere. Mentre le grandi potenze osservano le crisi in Medio Oriente come occasioni per regolare conti globali o consolidare la propria posizione, qui – tra Gaza e Gerusalemme, tra Beirut e Teheran – ogni singola notte è una lotta contro la fame, contro il freddo, contro la disperazione. La domanda che la gente si fa non è “chi ha ragione?”. È: “domani saremo ancora vivi?”.

L’“internazionalizzazione” dei conflitti, che nella logica dei potenti dovrebbe garantire equilibrio e ordine, nella vita dei popoli significa solo moltiplicare la violenza. Ogni nuova mano che si aggiunge sul campo non porta la pace: porta armi, porta interessi, porta un’altra bandiera a cui giurare fedeltà. E così, tra dichiarazioni in inglese forbito e strette di mano tra uomini in giacca e cravatta, si spegne la voce di chi dovrebbe contare di più. Quella degli umani. Dei vivi. Dei sopravvissuti.

Ma quella voce non tace per sempre. La si sente nei canti funebri trasformati in cori di protesta. Nei graffiti sui muri di Gerusalemme e Hebron. Nei flash mob pacifisti organizzati a Ramallah. Nelle lettere dei soldati che rifiutano di sparare. Nei racconti che viaggiano su Telegram tra donne iraniane e ragazze egiziane che pure non si sono mai incontrate, ma si chiamano “sorella” l’un l’altra.

Perché se è vero che il Medio Oriente ha visto nascere gruppi armati, lotte feroci, derive ideologiche violente, è altrettanto vero che la maggioranza della sua gente non impugna fucili: lavora, cresce figli, sogna un tetto e un futuro. Ed è proprio questa umanità a subire le conseguenze delle scelte e della violenza di tutti gli attori in campo — siano essi governi, milizie, potenze estere o interessi geopolitici. È il convitato di pietra di ogni trattativa, di ogni veto, di ogni bomba sganciata.

Nel mondo dei potenti il Medio Oriente è solo una leva. Per chi lo abita, è casa. E non c’è casa che non meriti la pace.

Le voci dal basso

C’è un Medio Oriente che non fa i titoli dei telegiornali. Che non lanciamissili né firma trattati di pace a Camp David. Che non traccia confini nei comunicati stampa delle cancellerie. È un Medio Oriente fatto di madri, infermieri, studenti, contadini, poetesse, imbianchini, suore, imam, rabbini, camionisti. È il Medio Oriente che resiste. Non con le armi, ma con la vita.

A Gaza, mentre piovono le bombe, centinaia di insegnanti continuano a fare lezione nei tunnel sotterranei, con le torce puntate sui volti dei bambini seduti per terra. A Jenin, un gruppo di ragazzi ha trasformato un furgoncino in una biblioteca mobile che attraversa i checkpoint con la scusa di distribuire verdure: sotto le casse di melanzane sono nascosti libri di poesia e romanzi, perché anche leggere è resistenza. A Hebron, un medico palestinese opera di nascosto anche i bambini israeliani feriti negli scontri al confine. “Non esistono figli del nemico,” dice. “Esistono solo figli che devono crescere.”

Ma la voce della resistenza civile si alza anche contro i soprusi interni, non solo contro quelli imposti da fuori. Tra luglio e agosto del 2023, migliaia di gazawi — molti giovani — hanno sfidato Hamas con una protesta storica, chiedendo non soltanto pane, energia elettrica e acqua, ma diritti, trasparenza e libertà. Hamas governa la Striscia dal 2007: allora prese il potere con un colpo di forza, per poi vincere – in seguito – le elezioni legislative, ma da quasi vent’anni non ci sono più state elezioni, il potere è diventato ereditario, e la corruzione è dilagante. Le manifestazioni, accompagnate dallo slogan “We want to live” («Vogliamo vivere»), furono represse con durezza: arresti, pestaggi, uso della forza, telefonini sottratti ai giornalisti, almeno un manifestante ucciso. Hamas usa sistematicamente la violenza anche contro il proprio popolo, per soffocare il dissenso. Qualche settimana dopo, con l’attacco del 7 ottobre, lo stesso movimento ha compiuto un salto di scala: c’è chi sostiene che quell’offensiva sia stata anche dettata dal desiderio di ricompattare il consenso interno, soffocare l’opposizione e rialzare la bandiera dell’odio.

Anche in Israele ci sono voci che rompono il coro. Rabbini progressisti che denunciano le discriminazioni sistemiche verso i palestinesi – quella che alcuni definiscono “apartheid strisciante”, cioè un insieme di leggi e pratiche che, pur senza dichiararla apertamente, creano una separazione profonda tra cittadini e non cittadini, tra ebrei e arabi, tra chi può e chi non può. E poi ci sono gruppi di madri israeliane e palestinesi che si incontrano clandestinamente, in case anonime, per piangere insieme i figli uccisi e tenere viva la memoria dei loro nomi. Ex soldati che scrivono libri-testimonianza per denunciare gli abusi commessi a Gaza e in Cisgiordania. Giovani ortodossi che accettano di farsi arrestare pur di non prestare servizio nell’esercito di uno Stato che, dicono, “ha dimenticato la compassione della Torah”.

In Iran, dove l’oppressione si è fatta legge, sono le donne a ribellarsi in modo disarmato ma potentissimo. Lo fanno tagliandosi i capelli in pubblico, danzando per strada anche se è vietato, disobbedendo con la bellezza e il coraggio. In Siria, dove il dolore ha sbriciolato ogni cosa, resistono comitati spontanei che costruiscono scuole sotto le tende, che organizzano turni per distribuire il pane, che fotografano gli orrori per mandarli al mondo – anche quando il mondo sembra voler guardare altrove.

In Libano, nella valle della Beqāʿ, donne cristiane e musulmane lavorano insieme nei campi di patate, condividendo l’acqua dei pozzi e scambiandosi i semi migliori, come facevano le loro nonne prima che la guerra civile le dividesse. In Egitto, una rete clandestina di giornalisti indipendenti documenta le violazioni dei diritti umani e le traduce in cinque lingue diverse per farle conoscere al mondo. A Baghdad, tra gli echi dell’occupazione americana (finita nel 2021), c’è una radio comunitaria che trasmette storie di convivenza e speranza 24 ore su 24, raccogliendo le telefonate degli ascoltatori che raccontano gesti di solidarietà quotidiana.

E poi ci sono i ponti invisibili. Quelli che si costruiscono via Internet, via voce, via cuore. Giovani palestinesi che scrivono e-mail a coetanei ebrei americani per spiegare la loro causa oltre la propaganda. Attivisti iraniani che si confrontano online con dissidenti sauditi, accomunati dal desiderio di libertà contro regimi opposti. Studenti israeliani che imparano l’arabo non per interrogare sospetti ai posti di blocco, ma per poter ascoltare davvero chi sta dall’altra parte del muro. Gente comune che dice basta. Che si oppone all’odio ereditato. Che non vuole essere ingranaggio di nessun impero, né vittima silenziosa del potere che indossa la propria stessa bandiera.

Le voci dal basso non fanno rumore negli studi televisivi. Non hanno carri armati, non hanno miliardi di dollari, non controllano network o satelliti. Ma hanno le parole. E le parole, a volte, riescono dove gli eserciti falliscono.

Parlano di fratellanza senza confini. Di ferite che non chiedono vendetta ma giustizia e memoria. Di dignità che non ha passaporto. Di libertà che non si può “esportare” con le bombe ma costruire solo dal basso.

Sono storie scomode, che pochi vogliono ascoltare, perché tolgono certezze. Perché infrangono la narrazione binaria del bene contro il male. Perché ricordano che non esistono popoli malvagi per natura, ma solo popoli feriti, manipolati, traditi. E che la resistenza più difficile è quella contro la violenza, da qualunque parte arrivi.

Eppure sono loro, queste voci umili del popolo, che pian piano cambiano la Storia. Non subito. Non ovunque. Ma giorno dopo giorno, con ogni atto di disobbedienza civile, con ogni abbraccio impossibile, con ogni bambino che viene al mondo nonostante le bombe. Il Medio Oriente brucia, ma nel suo fuoco non c’è solo distruzione. C’è anche una fiamma che illumina, che indica un’altra via. La via di popoli che, pur stritolati da potenze cieche, milizie fanatiche e governi autoritari, continuano a scegliersi come simili, non come nemici.

Orientarsi nel caos: un atto di umanità

Il Medio Oriente non è soltanto un luogo sulle mappe: è anche uno specchio. Ci specchiamo nelle sue guerre e vediamo riflesse le tensioni del nostro tempo, le cicatrici della storia, le ipocrisie della politica globale. Ma possiamo scegliere come guardare quello specchio. Siamo cresciuti con narrazioni semplici, tagliate con l’accetta: da una parte il bene, dall’altra il male. Da un lato l’Occidente “razionale”, dall’altro l’Oriente “fanatico”. Da una parte le democrazie, dall’altra i “regimi” e le “milizie”. Ogni parola così netta e comoda è in realtà una porta chiusa alla comprensione. E ogni porta chiusa è un’occasione persa per costruire la pace.

In questo dossier abbiamo attraversato un secolo di storia: confini tracciati col righello, rivolte dimenticate, guerre combattute per procura, crisi umanitarie ignorate, ma anche resistenze nate senza eserciti e capaci di costruire scuole, ospedali, perfino canzoni sotto le bombe. Abbiamo guardato in faccia non le bandiere, ma le persone. Quelle che continuano a vivere, curare, insegnare, scrivere, piangere e lottare senza odio.

Ecco perché comprendere il Medio Oriente oggi non è solo un esercizio geopolitico: è un atto di responsabilità e di solidarietà. Ogni semplificazione alimenta il fuoco. Ogni tifo cieco rende complici. Ogni silenzio su chi resiste diventa un’altra forma di violenza. L’informazione non è mai neutrale, ma può provare a essere giusta. Può smettere di raccontare il mondo solo attraverso carri armati, leader e missili, e cominciare a raccontarlo con la voce dei popoli: delle donne che non si coprono il capo per protesta, degli uomini che rifiutano il fucile, dei bambini che disegnano la pace sui muri distrutti.

Eywa nasce per questo: per ridare senso alle notizie, per rimettere al centro ciò che conta davvero. Per aiutare ciascuno di noi a orientarsi nel caos senza perdersi nel tifo da stadio.

Perché in fondo, scegliere di capire — davvero — è la forma più alta di solidarietà. E forse l’unica via possibile per costruire un futuro in cui la terra non sia più contesa, ma condivisa.

Fonti:

OCHA, Occupied Palestinian Territory: Humanitarian Needs Overview, United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, 2024.
UNRWA, Chi siamo e dati su rifugiati palestinesi, United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees, unrwa.org
HRW, Israel and Palestine: Events of 2023, Human Rights Watch, hrw.org
HRW, A Threshold Crossed: Israeli Authorities and the Crimes of Apartheid and Persecution, Human Rights Watch, 2021.
AI, Israel’s apartheid against Palestinians: Cruel system of domination and crime against humanity, Amnesty International, 2022.
AI, Israel and Occupied Palestinian Territories 2023, Amnesty International, 2024.
BBC, Sykes-Picot: The lines in the sand that remade the Middle East, BBC News, 16 maggio 2016.
Al Jazeera, Timeline: US involvement in Afghanistan, 15 agosto 2021, aljazeera.com
The Guardian, How the CIA helped the military overthrow Iran’s democracy in 1953, 19 agosto 2013.
The New York Times, The Secret CIA Files on the Iran Coup, agosto 2013.
Middle East Research and Information Project, Chi siamo e articoli d’archivio, merip.org
Brookings Institution, What’s next for Gaza and the West Bank?, 2024, brookings.edu
Freedom House, Freedom in the World 2024 – Middle East & North Africa, freedomhouse.org
International Crisis Group, Schede e rapporti su Israel/Palestine, crisisgroup.org
CPI, Applications for arrest warrants in the situation in the State of Palestine, International Criminal Court, 20 maggio 2024.
Robert Fisk, The Great War for Civilisation: The Conquest of the Middle East, Harper Perennial, 2006.
Noam Chomsky e Ilan Pappé, On Palestine, Haymarket Books, 2015.

 

Gaza e Israele: due governi, una sola trappola per i civili

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Perché né Hamas né Netanyahu vogliono la pace

Un conflitto senza confini

Tra Gaza e Israele non esiste più un confine chiaro tra il fuoco nemico e quello amico. Esiste un imbuto: un tunnel senza uscita, dove la popolazione civile viene risucchiata da due forze che della guerra hanno fatto il loro ossigeno. Da una parte Hamas, padrone assoluto della Striscia dal 2007, dall’altra Benjamin Netanyahu e la sua coalizione ultraconservatrice. Due volti di uno stesso incubo: un popolo incastrato tra repressione interna e occupazione esterna, senza diritti, senza voce, senza scampo.

Gaza diventa prigione sotto Hamas

Hamas non è un governo nel senso pieno del termine. È una milizia che ha militarizzato il potere, trasformando la Striscia in una prigione a cielo aperto. Nel 2006, Hamas vinse le elezioni legislative palestinesi con una maggioranza relativa. Ma l’anno successivo, nel 2007, si impadronì del potere a Gaza con la forza, sconfiggendo militarmente le fazioni legate a Fatah in una breve ma sanguinosa guerra civile. Da allora, non si vota più. Sono passati quasi vent’anni senza elezioni, senza confronto democratico, senza legittimazione popolare.

Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto 2023, Gaza è scoppiata. Migliaia di persone hanno riempito le piazze con una richiesta semplice: vivere. La protesta, iniziata il 30 luglio, si è protratta per alcuni giorni, nonostante la repressione. Non è stato uno slogan politico, ma una supplica esistenziale. “We want to live”, hanno scritto sugli striscioni. Pane, acqua, elettricità, ma anche libertà, dignità, futuro. La risposta è stata feroce. Repressione, arresti arbitrari, pestaggi. Almeno un morto. Gli apparati di Hamas si sono mossi come un corpo unico per soffocare ogni dissenso, come se la richiesta di sopravvivenza fosse un tradimento.

Gli aiuti umanitari, quando arrivano, vengono tassati da Hamas. I beni primari distribuiti secondo logiche clientelari. Chi protesta è accusato di collaborazionismo con Israele. La povertà è diventata una leva di potere. La rabbia, un nemico interno.

Il legame tra Hamas e gli interessi esterni

Hamas non è un blocco monolitico, né è composto solo da palestinesi. L’organizzazione è nata nel 1987 come costola dei Fratelli Musulmani e da allora si è evoluta in una struttura paramilitare, ideologicamente ispirata all’islamismo radicale. Riceve finanziamenti, armi e supporto strategico da potenze esterne come l’Iran e, in parte, Hezbollah. Molti dei suoi leader vivono all’estero, in Qatar o in Libano, lontano dalla miseria quotidiana della Striscia. I loro interessi rispecchiano agende regionali più ampie, che spesso divergono dalle esigenze immediate della popolazione civile palestinese. Per Hamas, la liberazione della Palestina passa attraverso la lotta armata e il martirio, più che attraverso il benessere, l’educazione o la costruzione di istituzioni democratiche.

Ed è forse anche per contenere quella rabbia che, pochi mesi dopo, Hamas ha lanciato l’attacco del 7 ottobre 2023. Un atto terroristico brutale, spietato, pianificato. Uccisioni, sevizie, stupri. Più di mille morti. Un massacro non solo rivolto verso l’esterno, ma anche pensato per ricompattare il fronte interno. Distogliere l’attenzione. Zittire la protesta. Far dimenticare le piazze di luglio con il boato delle esplosioni di ottobre.

Israele e la crisi della democrazia

Ma la violenza non ha un solo volto. E anche se Netanyahu guida uno Stato democratico riconosciuto, la sua azione oggi ricorda — per metodi e cinismo — quella di Hamas. Con una differenza: ha mezzi infinitamente superiori. E quando il potere è tanto squilibrato, la devastazione si fa assoluta. 

Sotto processo per corruzione, frode e abuso di potere, il premier israeliano ha trasformato la guerra in uno strumento per rimandare l’inevitabile: i processi, le sentenze, la caduta. Ogni missile lanciato, ogni raid ordinato, ogni conferenza stampa sulla “sicurezza nazionale” non è solo geopolitica: è sopravvivenza politica. Più a lungo dura la guerra, più a lungo Netanyahu può restare in carica.

La sua coalizione è la più estrema mai vista in Israele. Ministri come Itamar Ben-Gvir sostengono apertamente l’annessione totale dei territori palestinesi, promuovono politiche di discriminazione etnica e ritengono l’uso della forza armata l’unica risposta possibile al conflitto. Il dibattito pubblico è stato avvelenato da un linguaggio violento, identitario, razzista. I palestinesi sono nemici interni, le manifestazioni civili sono sabotaggio, la magistratura è un ostacolo da neutralizzare. Lo hanno capito bene i cittadini israeliani: nel 2023, è esploso un movimento di protesta senza precedenti.

Il 7 gennaio 2023, la prima grande manifestazione si è tenuta a Tel Aviv, in piazza Habima, contro la riforma giudiziaria promossa dal ministro Yariv Levin e sostenuta da Netanyahu. A gennaio e febbraio, le piazze si sono riempite ogni settimana, con oltre 100.000 manifestanti regolari e l’adesione di intere categorie professionali: medici, insegnanti, piloti. A marzo, lo scontro si è acuito: la proposta di conferire al governo il pieno controllo sulla Corte Suprema ha generato proteste di massa e uno sciopero generale. Il governo ha temporaneamente sospeso la riforma. Ma le manifestazioni sono proseguite per tutta la primavera. Tra aprile e luglio, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza ogni settimana. Il 24 luglio, nonostante tutto, il parlamento ha approvato una misura chiave della riforma. La frattura democratica era ormai profonda. Anche qui: un popolo contro il suo governo.

Due governi, un solo bisogno di guerra

Il parallelo diventa doloroso. Due governi che, in modi diversi, dipendono dalla guerra per esistere. Hamas, per evitare il crollo del proprio consenso interno, e Netanyahu, per scampare ai tribunali. Nessuno dei due può permettersi la pace. Perché la pace richiederebbe riforme. Elezioni. Trasparenza. Rinunce. Restituzioni. E per entrambi, significherebbe cedere il potere. 

Vittime comuni: civili, dissidenti, pacifisti

In mezzo, i civili. Palestinesi strangolati dal doppio giogo: l’assedio militare israeliano da un lato, l’oppressione autoritaria di Hamas dall’altro. Ebrei israeliani usati come scudi retorici di una politica che ha perso l’orizzonte della giustizia. Tutti ostaggi, prigionieri di una guerra senza uscita.

Non si può neanche parlare di resistenza senza specificare. Perché quella esiste, e non sempre è armata. Le madri che protestano, i giovani che boicottano, i professori che insegnano ancora il diritto alla verità: sono loro le cellule della pace. Nascoste, isolate, ma vive. Le donne iraniane che si ribellano al velo obbligatorio, le attiviste di Gaza che sfidano la repressione, i rabbini che credono in un’altra Israele: sono voci sparse, ma unite da una stessa resistenza civile.

La pace non è una tregua

Però questo filo va raccolto. Va protetto. Serve un movimento internazionale che guardi oltre il rumore dei droni. Che capisca che una pace vera non si costruisce solo fermando le bombe, ma anche aprendo spazi di democrazia. Una presenza dei caschi blu potrebbe garantire protezione umanitaria e temporanea, ma senza un disegno politico chiaro sarebbe solo un cerotto. Serve una pressione globale che tenga ben presente il quadro complessivo: due aguzzini, una vittima. Perché pensare che il solo problema sia Israele, ignorando la repressione interna di Hamas, significa comunque abbandonare i palestinesi alla spirale dei soprusi. Significa lasciarli soli nella trappola in cui Hamas li ha bloccati e che Israele ha poi trasformato in un’escalation vendicativa. Netanyahu, guidato da un’opportunistica strategia di autoconservazione, ha fatto della violenza un parafulmine per i suoi processi e il suo declino politico. Ma nulla si risolverà senza una vera discontinuità su entrambi i fronti.

Fino a quando non accadrà, la guerra continuerà ad autoalimentarsi. Perché conviene. Conviene alle élite che si arricchiscono con i contratti militari, con i finanziamenti esteri, con la paura. Ma non conviene ai bambini di Gaza che non conoscono il silenzio. Non conviene ai ragazzi di Tel Aviv che hanno visto troppi coetanei partire e non tornare. Non conviene a chi crede ancora che esista un’alternativa.

Il Medio Oriente non è destinato alla guerra. Non lo è né per cultura, né per religione. È stato trasformato in un campo di battaglia da chi ha interesse a mantenerlo tale: governi, milizie, industrie belliche, alleati silenziosi. Ma la Storia non è immobile. Può ancora cambiare. E cambierà solo se, finalmente, la pace tornerà ad avere più valore della paura.

 

Fonti principali: Associated Press, Freedom House, The Guardian, Al Jazeera, JStreet, OCHA (ONU), Arab Center for Research and Policy Studies, JCPA (Jerusalem Center for Public Affairs), FDD (Foundation for Defense of Democracies), Wikipedia (per contesti generali).

Turismo in Italia 2025: record storico… ma a quale costo?

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L’estate 2025 si preannuncia come la più affollata di sempre per il nostro Paese. Secondo l’ENIT, l’Italia accoglierà oltre 36 milioni di visitatori internazionali tra giugno e settembre. È un picco storico, che supera persino i numeri pre-Covid. A guidare la classifica ci sono Stati Uniti, Germania e Regno Unito, ma aumentano anche gli arrivi da paesi come India e Brasile, spinti da pacchetti accessibili e nuove rotte aeree. Se da un lato il turismo resta una delle colonne dell’economia italiana, dall’altro si fanno strada timori sempre più concreti: riusciremo a sostenere tutto questo afflusso?

La questione è delicata. Perché non è solo una questione di numeri. È una questione di equilibrio. Di vivibilità. E, soprattutto, di scelte politiche e urbanistiche.

Cosa significa davvero “overtourism”

Il termine “overtourism” (che possiamo tradurre con ‘sovraffollamento turistico’) è entrato nel vocabolario globale solo negli ultimi anni, ma descrive un fenomeno ben noto a chi vive nei luoghi più visitati del pianeta. Si verifica quando il numero di turisti supera la capacità di carico sociale, ambientale o infrastrutturale di una destinazione. Gli effetti? Servizi pubblici al collasso, traffico paralizzato, aumento dei prezzi degli affitti, spazi pubblici ridotti a set fotografici. Ma anche un senso diffuso, tra i residenti, di non appartenenza alla propria città.

Non si tratta solo di disagio: in molte realtà, l’overtourism compromette la qualità della vita e la coesione sociale. Alcuni quartieri cambiano pelle, diventando vetrine per turisti e luoghi invivibili per chi ci abita. Le case vengono convertite in B&B, i negozi storici lasciano il posto a souvenir tutti uguali. A farne le spese sono spesso le fasce più fragili, costrette a spostarsi altrove.

Quando il record diventa rischio

Il turismo è importante. Nessuno lo mette in dubbio. Ma un record di presenze non è sempre una buona notizia. A Venezia, i picchi giornalieri di visitatori sfiorano i 100 mila. A Roma, il Colosseo è già sold out per quasi tutta l’estate. A Firenze, i residenti lamentano difficoltà a prendere un autobus, a fare la spesa, persino a camminare. In queste condizioni, il turismo rischia di diventare una forma di pressione insostenibile.

A preoccupare è anche la concentrazione: i grandi flussi si dirigono sempre verso le stesse mete, mentre moltissimi luoghi restano ai margini, invisibili. Il risultato è un doppio spreco: da un lato si impoverisce l’esperienza del turista, che vive code e folla. Dall’altro si perdono opportunità per territori ricchi di cultura, natura e accoglienza.

Cosa si sta facendo (e cosa funziona)

Alcune città stanno tentando contromisure. Venezia ha introdotto un ticket d’ingresso di 5 euro per i visitatori giornalieri, applicato nei weekend più critici. Pompei ha fissato un tetto massimo di visitatori al giorno, con turni orari per evitare assembramenti. A Sirmione, sul Lago di Garda, sono comparsi i “tutor di strada”: volontari con gilet gialli che regolano i flussi e spiegano ai turisti come comportarsi.

Misure simboliche? Forse. Ma in alcuni casi funzionano. Perché fanno passare un messaggio: l’accesso a un luogo non è illimitato. Ha un costo. E un impatto.

Anche altrove in Europa si sperimentano anche soluzioni più sistemiche. A Barcellona e Lisbona sono stati imposti limiti agli affitti brevi. In Grecia, alcune isole chiedono contributi ambientali ai visitatori. Amsterdam ha ridotto il numero di navi da crociera e promuove il turismo invernale. Queste politiche, se ben comunicate, aiutano a distribuire il carico turistico e a ristabilire una convivenza più equa tra chi arriva e chi resta.

E in Italia?

Nel nostro Paese, il dibattito è acceso ma frammentato. Ogni Comune si muove a modo suo, spesso in ritardo. Manca una regia nazionale, una visione di lungo periodo. Eppure le soluzioni ci sono. Promuovere mete alternative. Allungare la stagione turistica. Introdurre limiti negli affitti. Usare la tecnologia per monitorare i flussi in tempo reale. Investire in trasporti pubblici e in educazione turistica. Ma serve anche un patto tra le amministrazioni, gli operatori e i residenti. Perché senza consenso sociale, ogni misura rischia di fallire.

La voce dei territori

Parlano i numeri, ma parlano anche le persone. Elena, residente a Firenze, racconta: “d’estate evitiamo il centro. È diventato invivibile. I bus passano pieni, i supermercati sono assaliti. Sembra che la città non sia più nostra.” Marco, che gestisce un agriturismo in Umbria, è invece fiducioso: “noi abbiamo scelto un altro modello. Offriamo esperienze lente, relazioni vere. I turisti lo apprezzano. C’è spazio per un turismo diverso.”

Ed è proprio qui che si apre una possibilità. Fare turismo non significa riempire luoghi. Significa prendersene cura. Raccontarli. Condividerli. E per farlo serve tempo, rispetto, ascolto.

Il futuro che scegliamo

Il turismo può essere un’opportunità, oppure un problema. Dipende da come lo gestiamo. L’estate 2025 ci lancia una sfida: crescere senza distruggere. Accogliere senza invadere. Offrire senza perdere identità. Perché dietro ogni numero c’è una città, una comunità, un paesaggio che merita di essere vissuto. Non solo visto.

Su Eywa, la divulgazione responsabile, continueremo a monitorare il fenomeno, raccogliere storie, suggerire pratiche sostenibili. Perché il turismo, come ogni forma di convivenza, è una scelta. E le scelte migliori si fanno con consapevolezza.

 

Etichette “a impatto zero”: come riconoscere il greenwashing (anche dopo le nuove leggi UE)

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È facile lasciarsi convincere da una confezione ben disegnata. Una grafica pulita, una fogliolina verde accanto a un claim rassicurante: “a impatto zero”. Oppure “prodotto sostenibile”, “amico del clima”. Lo leggiamo, e abbassiamo la guardia. Ma oggi, nel 2025, possiamo davvero fidarci di queste diciture?

La risposta, purtroppo, non è ancora un sì pieno. Nonostante l’entrata in vigore della Green Claims Directive e l’approvazione del Carbon Removal Certification Framework da parte dell’Unione Europea, le zone d’ombra non sono scomparse. Si sono solo fatte più sofisticate.

Oggi non basta scrivere “a impatto zero” su un prodotto per essere dalla parte giusta della storia. Serve poterlo dimostrare. Ma molte aziende, nonostante la nuova normativa, continuano a comunicare messaggi ecologici vaghi, imprecisi o del tutto infondati. E se il consumatore non è attrezzato per riconoscerli, il rischio di essere ingannati rimane altissimo.

Il caso dei biscotti “a impatto zero”

Prendiamo un esempio concreto. Una nota marca di biscotti da supermercato si presenta con un bollino verde e la scritta “a impatto zero”. In piccolo, una frase spiega che le emissioni legate alla produzione sono state compensate piantando alberi. Ma se provi a cercare ulteriori informazioni sul sito ufficiale, scopri che non è indicato quale progetto ha ricevuto il finanziamento, né quale standard sia stato usato per calcolare l’impatto ambientale. Nessuna traccia di certificazione indipendente, nessun documento consultabile, nessun registro che mostri l’effettivo annullamento dei crediti acquistati.

È greenwashing? Sì. Perché la nuova direttiva UE richiede trasparenza, verificabilità e tracciabilità. Senza questi elementi, una dichiarazione ambientale è considerata ingannevole. Eppure, quel pacco di biscotti continua a vendere sostenibilità apparente, in attesa che i controlli facciano il loro corso.

La promessa “a impatto zero” non basta

Negli anni, molte aziende hanno usato i cosiddetti crediti di carbonio per proclamare la neutralità delle loro attività o dei loro prodotti. L’idea, in teoria, è semplice: se non riesco a ridurre tutte le mie emissioni, almeno finanzio progetti che le compensano altrove. Ma nella pratica, la storia si complica. Perché non tutti i crediti sono uguali, e non tutti i progetti compensano davvero.

Dopo lo scandalo Verra — l’ente certificatore travolto dalle inchieste internazionali sui crediti “fantasma” — sono emersi migliaia di esempi di certificazioni che non corrispondevano ad alcun beneficio reale per il clima. Progetti di riforestazione in zone già protette, calcoli gonfiati, assenza di controlli sul campo. E quei crediti sono finiti esattamente lì: sui bollini dei prodotti di largo consumo, trasformando il marketing ambientale in una gigantesca illusione.

Oggi, dopo l’introduzione, nel marzo 2023, dei Core  Core Carbon Principles [mettere il link esterno: CCP-Book-V1.1-FINAL-LowRes-15May24.pdf] (CCPs; Core Carbon Principles – Assessment Framework and Procedure, Integrity Council for the Voluntary Carbon Market, luglio 2023) e della nuova normativa europea, lo standard si sta alzando. Ma restano molte etichette ambigue in circolazione. Anche nel 2025, non è affatto difficile trovare un detersivo che si dichiara “a impatto zero” senza alcun riferimento al metodo di calcolo, né al tipo di compensazione effettuata. In alcuni casi, la compensazione è avvenuta una sola volta, anni fa, e da allora nessuna verifica è stata più pubblicata.

Dove si nasconde ancora l’inganno

Le aziende più trasparenti pubblicano un report di sostenibilità completo, indicano lo standard utilizzato (come PAS 2060, CarbonNeutral® o Gold Standard), specificano il periodo di riferimento e riportano il registro in cui i crediti sono stati ritirati — cioè annullati, in modo che non possano essere rivenduti né riutilizzati da altri. Alcune permettono persino di scaricare i documenti ufficiali.

Altre, però, si affidano a linguaggi vaghi. Parlano di “progetti ambientali” senza nominarli. Affermano di essere “a impatto zero” senza indicare il numero di crediti acquistati. Si fregiano di simboli grafici che imitano i veri sigilli di certificazione ma che, in realtà, non significano nulla.

In questi casi, anche oggi, l’etichetta è più ingannevole che informativa.

Un altro esempio? Alcune compagnie aeree permettono di aggiungere pochi centesimi al prezzo del biglietto per “compensare l’impatto ambientale del volo”. Ma raramente spiegano chi verifica il progetto selezionato, se i crediti sono stati ritirati in un registro pubblico, o se sono stati usati crediti economici e a bassa qualità, spesso provenienti da progetti già esistenti.

Come orientarsi, davvero

Non servono strumenti tecnici né lauree in ingegneria ambientale per tutelarsi. Serve allenare lo sguardo. Una dicitura come “prodotto sostenibile” non ha alcun valore se non è accompagnata da dati verificabili. Una dichiarazione di “a impatto zero” deve rimandare a un ente terzo, uno standard riconosciuto, un documento pubblico.

Oggi, chi vuole informarsi può farlo. I registri di ritiro dei crediti sono consultabili. I principali standard internazionali (PAS 2060, Gold Standard) spiegano chiaramente quali sono i requisiti per ottenere una certificazione. Il punto è che dev’essere l’azienda a offrirci queste informazioni spontaneamente. Se non lo fa, se ci costringe a cercarle altrove, probabilmente ha qualcosa da nascondere.

Il consumatore non è più solo

La buona notizia è che non siamo più soli. La nuova direttiva europea obbliga chi fa affermazioni ambientali a dimostrarle. E introduce il divieto esplicito di usare espressioni generiche come “rispettoso dell’ambiente” senza prove.

Ma fino a quando il sistema dei controlli non sarà pienamente attivo, resta a noi l’ultima parola. E oggi, più che mai, fare la spesa è anche un atto politico. Non per partito preso, ma perché ogni euro speso può alimentare un modello o scardinarlo. Può premiare la coerenza, o alimentare l’ambiguità.

E la prossima volta che ci troviamo con quel pacco “a impatto zero” tra le mani, forse non lo guarderemo più allo stesso modo.

LEGGI IL DOSSIER: IL GRANDE INGANNO DEL CARBONIO

Renzi: con noi il centrosinistra vince. E’ vero?

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“Facile. Si vince con i voti e non con i veti. Spero che questo sia chiaro a tutti. Naturalmente il merito del successo è di Silvia Salis che ha fatto una campagna perfetta e, insieme a lei, di tutte le liste. Ma il fatto è che alle regionali hanno messo il veto su di noi e hanno perso. E alle comunali hanno tolto il veto e abbiamo vinto. E questo fatto è inoppugnabile” – Matteo Renzi al Secolo XIX

Le ragioni strategiche che guidano l’alleanza tra Italia Viva e il centrosinistra

L’analisi della situazione

Per verificare se le affermazioni di Matteo Renzi siano aderenti alla realtà, abbiamo analizzato il quadro elettorale dal 2020 a oggi.

Negli ultimi cinque anni, la partecipazione di Italia Viva alle elezioni locali e regionali ha rappresentato una cartina di tornasole della capacità del centrosinistra di innovare e allargare le proprie coalizioni. Il partito guidato da Renzi ha attraversato fasi alterne, ma è rimasto presente in molte competizioni, talvolta come alleato del centrosinistra, talvolta in forma autonoma.

A partire dalle elezioni regionali del 2020, Italia Viva si è presentata in sette regioni, spesso a sostegno dei candidati progressisti, oppure con proprie liste civiche. In Toscana e Campania ha contribuito alla vittoria della coalizione di centrosinistra, pur senza risultare determinante.

In Liguria, Veneto e Marche, dove ha corso in modo autonomo o con alleanze atipiche, il centrosinistra non è riuscito a prevalere. In Puglia, l’alleanza con Azione e +Europa ha dato vita a un fronte più ampio, ma Italia Viva non ha avuto un ruolo centrale nel successo finale.

Un caso emblematico è quello dell’Emilia-Romagna nel 2024, dove il partito ha partecipato alla coalizione che ha riconfermato il presidente uscente. Tuttavia, non ha ottenuto alcun consigliere regionale, a testimonianza della difficoltà a radicarsi in territori tradizionalmente governati dal Partito Democratico e dai suoi alleati storici.

Le elezioni comunali del 2025 hanno invece evidenziato una maggiore efficacia. In città come Genova e Ravenna, Italia Viva ha fatto parte della coalizione che ha vinto al primo turno. Renzi ha spesso rivendicato il contributo del suo partito come decisivo per evitare il ballottaggio, sottolineando l’importanza di attrarre voti oltre le tradizionali basi elettorali. Anche in comuni come Giugliano, la presenza di Italia Viva ha accompagnato la vittoria del centrosinistra.

Nel complesso, la partecipazione di Italia Viva dal 2020 in avanti racconta una storia di alleanze in evoluzione. Pur non sempre decisiva, la sua presenza si è rivelata in certi contesti un tassello utile per il centrosinistra, soprattutto nelle città dove la competizione è più serrata.

Le ragioni strategiche dell’alleanza

Ricerca di rilevanza e uscita dalla marginalità politica
Dopo risultati deludenti e crescente marginalizzazione, Italia Viva ha bisogno di alleanze per restare visibile e influente. L’accordo con il centrosinistra rappresenta un’opportunità per tornare a contare, soprattutto in vista di sfide elettorali decisive.

Costruzione di un’alternativa al centrodestra
Italia Viva, come altre forze di opposizione, punta a una coalizione ampia e credibile per sfidare la destra al governo. L’alleanza con il centrosinistra è un passaggio necessario per offrire una proposta unitaria agli elettori, specie nei collegi in bilico.

Superamento dei veti e delle divisioni
I leader di Italia Viva invocano un dialogo costruttivo, oltre le barriere ideologiche e personali che frammentano l’opposizione. La loro inclusione è presentata come segnale di maturità politica, utile a riconquistare la fiducia degli elettori.

Valore aritmetico e strategico
Anche se minoritaria, Italia Viva può essere determinante in contesti dove pochi punti percentuali fanno la differenza. Renzi insiste su questo aspetto: un 2–3% può risultare decisivo in molti collegi.

Ricerca di una nuova identità riformista
Italia Viva ambisce a rifondare il centrosinistra su basi moderate e riformiste, attirando elettori lontani dai toni più radicali di altre forze. Una fase “costituente”, nelle intenzioni, per rilanciare una coalizione credibile.

Considerazioni finali

Dall’analisi dei dati emerge che la presenza di Italia Viva è stata costante, ma raramente determinante. Il suo peso elettorale resta modesto, e in molti casi non ha inciso in modo sostanziale sull’esito delle urne.

L’alleanza con il centrosinistra, in diversi casi, ha prodotto risultati più “aritmetici” che politici: sommando le forze si vince, ma non sempre si costruisce un’identità comune. L’avversione del Movimento 5 Stelle per Italia Viva ha spesso alimentato divisioni e fratture che rendono fragile la coesione della coalizione.

In alcuni contesti – come l’Emilia-Romagna – la partecipazione del partito non ha aggiunto valore reale. E proprio la recente elezione del sindaco di Genova mostra come l’ingresso di Italia Viva nella coalizione non abbia spostato in modo significativo gli equilibri rispetto alle regionali 2024, in cui il partito era stato escluso.

Forse il problema più profondo è che troppi partiti cercano di vincere, ma pochi cercano davvero di convincere.

Israele attacca l’Iran: decine di obiettivi colpiti, escalation senza precedenti

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Nonostante i negoziati avviati in diverse sedi diplomatiche tra Stati Uniti e Iran per limitare il programma nucleare di Teheran e scongiurare l’acquisizione dell’arma atomica da parte della Repubblica Islamica, Israele ha optato per un’azione militare preventiva, colpendo obiettivi strategici tra cui installazioni governative e siti nucleari iraniani, considerati una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale.

I segnali di un’azione imminente erano evidenti già da giorni. L’11 giugno, il governo americano aveva invitato il personale non essenziale delle ambasciate in Medio Oriente a rientrare in patria. Nella rappresentanza diplomatica USA in Israele era stata inoltre diffusa una comunicazione che limitava gli spostamenti degli addetti alle sole aree di Tel Aviv, Gerusalemme e Beersheba, consentendo l’accesso all’aeroporto Ben Gurion solo tramite l’autostrada A.

Poche ore prima dell’attacco, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), con una risoluzione senza precedenti negli ultimi vent’anni, ha denunciato la mancanza di trasparenza dell’Iran sul suo programma nucleare. Il direttore generale Rafael Grossi ha ribadito che Teheran possiede già uranio arricchito al 60%, sufficiente, se ulteriormente raffinato, per la produzione di almeno sei, ma secondo alcune stime fino a quindici testate nucleari. L’Iran, inoltre, ha impedito agli ispettori internazionali l’accesso ai siti sospetti, rendendo difficile verificare la natura esclusivamente pacifica del programma.

Il presidente americano Donald Trump, pur ventilando la possibilità di un’azione israeliana, aveva continuato a credere, almeno pubblicamente, nella soluzione diplomatica. Negli ultimi giorni, tuttavia, gli Stati Uniti hanno avvertito gli alleati e, secondo alcune fonti, lo stesso governo iraniano sarebbe stato informato da una nazione amica, probabilmente vicina anche a Washington, dell’imminenza dell’operazione.

Operazione Rising Lion: bersagli strategici e vittime illustri

La notte del 13 giugno è scattata l’operazione Rising Lion (“Leone Nascente”), il più vasto attacco diretto tra Israele e Iran nella storia recente del Medio Oriente. Più di 200 velivoli dell’aviazione israeliana, supportati da cyber-attacchi e operazioni di intelligence, hanno colpito oltre un centinaio di obiettivi, tra cui il cruciale sito di arricchimento dell’uranio di Natanz, le città di Khondab, Khorramabad, Teheran e Isfahan, nonché infrastrutture petrolifere e militari.

Gli attacchi hanno neutralizzato la contraerea iraniana, consentendo ai caccia israeliani di penetrare nello spazio aereo nemico. I danni materiali sono ingenti: il sito di Natanz è stato gravemente danneggiato, mentre a Teheran sono stati colpiti anche palazzi residenziali e stabilimenti. Ma l’impatto più rilevante riguarda la leadership militare e scientifica iraniana: tra i caduti figurano il comandante delle Guardie della Rivoluzione, Hossein Salami, il capo di Stato Maggiore Mohammad Bagheri e Fereydoon Abbasi, ex direttore dell’Organizzazione per l’Energia Atomica dell’Iran, oltre ad alcuni scienziati impegnati nel programma nucleare.

Reazioni e minacce: la crisi si allarga

La risposta iraniana non si è fatta attendere: oltre cento droni sono stati lanciati contro Israele, tutti intercettati dalle difese israeliane secondo fonti ufficiali. Il leader supremo Ali Khamenei ha promesso una risposta “senza limiti” e ha accusato gli Stati Uniti di essere coinvolti nell’azione, nonostante le ripetute smentite di Washington. Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha infatti ribadito che gli USA non sono coinvolti negli attacchi, ma ha ammonito l’Iran di non colpire interessi o personale statunitense nella regione.

Donald Trump, intervistato dai media, ha confermato di essere stato informato in anticipo dell’operazione, ma ha negato qualsiasi coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Ha inoltre avvertito l’Iran che la situazione potrebbe peggiorare ulteriormente, invitando Teheran a tornare al tavolo dei negoziati prima che sia troppo tardi.

Condanne internazionali e timori di escalation

La comunità internazionale ha reagito con preoccupazione. I paesi arabi e i leader europei hanno condannato l’attacco israeliano, temendo una nuova escalation militare. La premier italiana Giorgia Meloni ha convocato una riunione con i servizi di intelligence, mentre la Cina ha espresso “forte preoccupazione”. La Giordania ha temporaneamente chiuso il proprio spazio aereo in previsione di ulteriori minacce.

Il Cremlino ha diffuso una nota ufficiale in cui condanna “l’uso della forza come soluzione a controversie strategiche” e ha chiesto un immediato cessate il fuoco. Anche la Turchia ha parlato di “grave violazione del diritto internazionale”, invitando entrambe le parti alla moderazione. Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha espresso “profonda inquietudine” per l’andamento del conflitto, auspicando una soluzione diplomatica attraverso un coinvolgimento multilaterale.

Da più parti si invoca una de-escalation, anche per evitare ripercussioni economiche globali, come un possibile aumento del prezzo del petrolio. I colloqui USA-Iran sul nucleare, previsti a Doha per il 15 giugno, sono ormai saltati: Teheran ha annunciato che non parteciperà. Il futuro dei negoziati è incerto, mentre il mondo si prepara a giorni di tensione e instabilità in uno scacchiere già fortemente provato da conflitti e crisi.

Quando l’intelligenza artificiale imita i nostri difetti

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Il lato oscuro dei dati: perché i comportamenti delle macchine dipendono da noi

«Se le macchine imparano da noi… siamo sicuri di essere buoni insegnanti?»
La domanda che chiude il nostro dossier sul machine learning sembra retorica, ma in realtà apre uno degli interrogativi più urgenti del nostro tempo. L’intelligenza artificiale, e in particolare il machine learning, non è un’intelligenza nel senso umano del termine. Non decide, non valuta, non ha coscienza. Piuttosto, apprende. E lo fa osservando ciò che noi umani facciamo ogni giorno: cosa scriviamo, cosa clicchiamo, come ci comportiamo online, quali immagini condividiamo. Le macchine imparano da noi, e lo fanno su scala globale, senza filtri etici propri.

Il mito dell’algoritmo neutrale è durato poco. Oggi è ampiamente riconosciuto che ogni sistema di intelligenza artificiale è il risultato di una serie di scelte culturali, tecniche e politiche. Ma c’è un aspetto ancora sottovalutato: la qualità dei dati usati per addestrare questi sistemi. Perché se l’IA impara da contenuti umani, è inevitabile che finisca per assorbire anche le nostre contraddizioni. Pregiudizi, disinformazione, stereotipi, aggressività verbale: tutto può entrare nel sistema e, in alcuni casi, essere amplificato.

Il caso di Tay, il chatbot lanciato da Microsoft nel 2016, è diventato emblematico. Progettata per interagire con i giovani su Twitter, Tay avrebbe dovuto apprendere in modo naturale dai dialoghi in rete. Ma nel giro di meno di 24 ore, il bot ha cominciato a ripetere affermazioni razziste, sessiste e complottiste, semplicemente ricalcando ciò che gli utenti gli avevano insegnato. Microsoft è stata costretta a spegnerlo. Non perché Tay avesse un’opinione, ma perché aveva imitato fedelmente l’ambiente tossico in cui era stato immerso.

Il problema si fa ancora più serio quando si parla di IA applicata a contesti delicati come la giustizia, la sanità o il lavoro. Negli Stati Uniti, un software predittivo utilizzato da diversi tribunali statunitensi per stimare il rischio di recidiva degli imputati, è stato analizzato nel 2016 dalla testata investigativa ProPublica. L’indagine ha mostrato che COMPAS tendeva a sovrastimare il rischio nei confronti degli afroamericani e a sottostimarlo per i bianchi, a parità di condizioni. La spiegazione? I dati storici su cui il software era stato addestrato erano già condizionati da decenni di discriminazioni sistemiche. L’algoritmo non ha fatto altro che interiorizzare quei pregiudizi e riproporli come se fossero valutazioni oggettive.

Lo stesso meccanismo si verifica in ambito sanitario, dove l’uso crescente dell’IA per supportare diagnosi e percorsi terapeutici rischia di penalizzare gruppi meno rappresentati nei dati clinici, come donne, minoranze etniche o pazienti di fasce sociali più svantaggiate. Anche in questo caso, l’IA non è “ingiusta” di per sé: semplicemente riproduce le lacune di chi ha prodotto e selezionato i dati.

C’è poi un altro tema, meno dibattuto ma fondamentale per comprendere il quadro generale: l’analfabetismo funzionale e digitale. Secondo l’OCSE, circa il 27% degli adulti nei Paesi sviluppati fatica a comprendere testi complessi, valutare criticamente le informazioni online o usare in modo consapevole gli strumenti digitali. Se questa è la base culturale di buona parte della popolazione mondiale, i contenuti che alimentano l’intelligenza artificiale rischiano di essere, in larga misura, frutto di confusione, polarizzazione, superficialità. Non si tratta solo di ignoranza individuale, ma di un ambiente cognitivo globale che diventa il terreno di apprendimento per le macchine.

Il linguaggio d’odio, le fake news, le interazioni impulsive e aggressive non sono solo un problema sociale o politico. Sono anche, concretamente, materiale di training per gli algoritmi. Le IA che usiamo ogni giorno – nei motori di ricerca, nei social, nei sistemi di raccomandazione – si sono formate anche su quel tipo di comunicazione. E, se non vengono adeguatamente controllate, finiranno per restituirla indietro, potenziata e “normalizzata”.

Di fronte a questi rischi crescenti – che non riguardano solo la tecnologia, ma la cultura stessa che la nutre – il mondo scientifico, le istituzioni e le aziende hanno iniziato a muoversi. Con quali strumenti? E con quali limiti? Il primo fronte d’azione è la qualità dei dati: diversi progetti mirano a filtrare i contenuti tossici nei dataset – ovvero le grandi raccolte ordinate di dati su cui si addestrano i modelli di IA – per evitare che pregiudizi o linguaggi d’odio vengano assimilati sin dall’inizio. Ripulire i dati significa agire sulle fondamenta del sistema, prima che l’algoritmo impari a replicare quelle distorsioni. Dopo il caso Tay del 2016, ad esempio, molti sviluppatori hanno capito l’importanza di porre limiti a ciò che un chatbot può imparare dagli utenti, per evitare derive simili.

Un altro filone cruciale è quello delle IA spiegabili (explainable AI): sistemi progettati per rendere trasparente il ragionamento che porta a una decisione. Vuol dire aprire la “scatola nera” degli algoritmi: se un software che seleziona candidati per un lavoro scarta un profilo, deve poter dimostrare su quali criteri si è basato. Questa trasparenza aiuta a individuare eventuali bias – ad esempio, se l’AI penalizza sistematicamente un genere o un gruppo etnico – così da correggerli prima di produrre vere e proprie discriminazioni.

Si fa poi strada l’idea delle verifiche indipendenti sull’operato dell’IA. La parola chiave è “auditing etico”: ispezioni esterne dei sistemi algoritmici in ambiti delicati per verificarne correttezza e imparzialità. C’è chi propone di rendere obbligatori questi controlli e nel 2022 New York è diventata la prima città a imporre per legge un audit annuale degli algoritmi usati nei processi di assunzione.

Anche le grandi aziende tech stanno cercando correttivi. Google, nel 2018, ha pubblicato principi guida con l’impegno a ‘evitare di creare o rafforzare bias ingiusti’. Ha inoltre istituito un team interno dedicato alla revisione etica dei propri sistemi. Meta (la società che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp) ha sviluppato un toolkit chiamato Fairness Flow per individuare disparità nei suoi algoritmi sin dal 2018. OpenAI nel 2022 ha addestrato la sua AI con feedback umano per renderla “più veritiera e meno tossica”. Nell’estate 2023, su iniziativa governativa, OpenAI, Google, Meta e altri hanno sottoscritto un impegno congiunto a testare i sistemi AI prima del rilascio e a condividere pubblicamente – o con le autorità competenti – le procedure di sicurezza adottate.

Sul fronte normativo, l’Unione Europea ha anticipato tutti con l’AI Act, la prima legge al mondo sull’IA, approvata nel 2024. Il regolamento adotta un approccio per livelli di rischio: vieta gli usi più pericolosi, come la sorveglianza di massa – ovvero il monitoraggio costante e generalizzato delle persone tramite tecnologie digitali – o il social scoring, un sistema di valutazione del comportamento individuale simile a un “punteggio sociale”, già sperimentato in alcune regioni della Cina. Entrato in vigore ad agosto 2024, l’AI Act sarà pienamente applicabile nel 2026: d’ora in poi chi sviluppa o utilizza IA dovrà rispettare standard di sicurezza ed etici. Negli USA, intanto, non c’è ancora una legge analoga, ma la Casa Bianca ha definito un “AI Bill of Rights” (2022) e il NIST un AI Risk Management Framework (2023).

Un tassello fondamentale è rappresentato dagli standard tecnici. A fine 2023 l’ISO ha varato lo standard ISO/IEC 42001, il primo certificabile per la gestione responsabile dell’IA. Un’azienda può farsi certificare da terze parti l’adozione di controlli e procedure adeguati – dall’analisi dei rischi alla trasparenza degli algoritmi – ottenendo un “bollino” di conformità alle buone pratiche. Questo standard, volontario ma allineato alle normative, aiuterà a dimostrare che bias e sicurezza sono sotto controllo e a facilitare il rispetto delle regole (in sinergia con l’AI Act).

Prima di concludere, vale la pena chiarire un punto spesso frainteso. Le intelligenze artificiali generative – in particolare i modelli linguistici di grandi dimensioni, come quelli che animano chatbot e assistenti virtuali – non apprendono in tempo reale da ciò che scriviamo. Non sono sistemi autonomi che aggiornano il proprio comportamento in base a ogni singola interazione. Ogni sessione di utilizzo resta isolata dalle altre, e un utente non può “insegnare” qualcosa alla macchina che sarà poi replicato in automatico altrove. Al massimo, alcune IA possono adattare leggermente il proprio stile in base alla cronologia individuale, quando è attiva la funzione di memoria personalizzata. Ma non esiste un apprendimento collettivo sincronizzato che le renda sempre più “umane” in modo spontaneo. Le distorsioni, i bias, gli errori che osserviamo sono semmai l’eredità del passato: un riflesso delle scelte fatte nel momento in cui quelle macchine sono state addestrate.

Resta però aperta una questione cruciale: fin dove arriva la libertà dell’utente, e dove inizia il controllo di chi gestisce l’IA? Se da un lato ci preoccupiamo – giustamente – del rischio che le macchine si auto-modifichino senza supervisione, dall’altro dobbiamo chiederci chi decide oggi cosa possiamo fare, chiedere, cercare. In molte interazioni, non siamo davvero liberi: siamo liberi solo all’interno di limiti stabiliti da chi ha progettato e addestrato il sistema. Un’IA può rifiutarsi di rispondere a una domanda, evitare certi argomenti, correggere le nostre parole o accompagnare le sue risposte con messaggi precauzionali. Tutto questo può avere senso, se serve a proteggere la sicurezza collettiva. Ma pone interrogativi legittimi sull’autonomia, sulla trasparenza, e su chi – in ultima istanza – abbia davvero il potere.

Di conseguenza, iniziano a emergere anche movimenti normativi e civili per tutelare la libertà di pensiero ed espressione nel contesto dell’intelligenza artificiale. Dalla Digital Services Act europea, che impone maggiore trasparenza nella moderazione algoritmica dei contenuti, al Framework Convention on AI del Consiglio d’Europa, primo trattato internazionale che sancisce l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali nell’uso dell’IA, la direzione è chiara: non basta rendere gli algoritmi più sicuri, occorre anche difendere uno spazio digitale libero e pluralista. Negli Stati Uniti, il dibattito è acceso: mentre alcune proposte legislative chiedono limiti più stringenti contro i deepfake e la disinformazione, le associazioni per i diritti civili – come l’ACLU – ricordano che ogni misura tecnica deve essere bilanciata nel rispetto del diritto a esprimersi. Perché l’IA non è solo una questione tecnica: è anche, e sempre più, una questione democratica.

Tutti questi sforzi dimostrano una crescente consapevolezza e offrono strumenti concreti per limitare bias e tossicità. Eppure nessuna soluzione automatica potrà sostituire la responsabilità umana. L’IA rimane uno specchio della società: rendere dati e algoritmi più puliti e trasparenti aiuta, ma a decidere cosa le macchine dovranno apprendere saremo sempre noi. Il pericolo maggiore, in realtà, non è una ribellione delle macchine, ma che esse amplifichino acriticamente i nostri difetti. Per evitarlo, dobbiamo essere noi a trasmettere ai sistemi intelligenti il meglio di ciò che siamo.

 

Per saperne di più

OECD – Skills Matter: Further Results from the Survey of Adult Skills (2016)
 Un’indagine internazionale sulle competenze cognitive e funzionali degli adulti, da cui emergono dati preoccupanti sull’analfabetismo funzionale nei paesi sviluppati.
 https://www.oecd.org/skills/piaac/skills-matter.htm

ProPublica – Machine Bias (2016)
 Un’inchiesta giornalistica che ha rivelato le distorsioni razziali del sistema di giustizia predittiva COMPAS, usato negli Stati Uniti.
 https://www.propublica.org/article/machine-bias-risk-assessments-in-criminal-sentencing

Microsoft – The Tay Experiment (2016)
 Breve resoconto pubblico sull'esperimento fallito del chatbot Tay, ritirato dopo meno di 24 ore per comportamenti tossici generati dagli input degli utenti.
 https://blogs.microsoft.com/blog/2016/03/25/learning-tay/

Congresso del PD dopo il referendum: a chi gioverebbe?

Dopo la disfatta del referendum, su cui notoriamente la Segretaria Schlein aveva puntato molto, l’ala riformista del Partito Democratico, che fa capo a Bonaccini, lascia trapelare sempre più insistentemente la volontà di andare a un congresso per capire che direzione far prendere alla maggiore forza politica dell’opposizione.

I dissidi mai sopiti fra le varie anime del partito sono esplosi non appena le urne si sono chiuse.
L’aria di resa dei conti era palpabile fin da subito, con l’eurodeputata Pina Picierno che parla apertamente di “autogol e regalo alla destra”, e qualcuno, come la deputata Simona Malpezzi, che accusa di aver troppo politicizzato la campagna referendaria, rendendo la consultazione un plebiscito sul governo. Anche i fondatori del partito lanciano messaggi preoccupati (e in qualche modo preoccupanti) a Elly Schlein.

Pierluigi Castagnetti, navigato politico della prima e seconda repubblica, affida ai social una dura riflessione e un monito: “Qualcuno dica a Schlein, anche solo privatamente, che così si va a sbattere. Posto che da quelle parti dove sembra prevalere l’arroganza ci sia ancora qualcuno interessato a tornare a vincere, per il bene del Paese e delle sue più giovani generazioni”.
Dall’altra parte della barricata però si tende a valorizzare i (pochi) risultati ottenuti. La Schlein conta i voti: 13 milioni di voti non sono sufficienti ma non sono pochi.
Un fedelissimo della segretaria, Igor Taruffi, risponde alla Picierno in un modo piuttosto brusco: “Parlare di regalo alla destra è sbagliato. Sul lavoro il Pd ha imboccato la strada giusta. Il regalo alla destra si è fatto negli anni passati quando si è rotto il rapporto con il nostro popolo”.
Di chi è la responsabilità vera della disfatta?

Il clima teso viene però stemperato dalla paura che al congresso si arrivi veramente; che la segretaria sia tentata di andare a una conta che non dia i risultati sperati dalla corrente riformista. Voci di corridoio dicono che ad oggi la mozione Schlein ha una solida maggioranza di delegati.
Vi è poi lo spinoso problema del campo largo, che sta dando buon risultati alle amministrative, pur se talvolta dimostra di traballare.
Saprebbe una nuova segreteria avere un rapporto con alleati molto diversi fra loro (AVS, M5S)? Avrebbero la tentazione, dai più definita suicida, di andare da soli, o di guardare ai centristi come Renzi e Calenda?
Francesco Boccia dimostra ottimismo per quanto riguarda l’unione di tutte, o quasi, le opposizioni, parlando di “un fronte che unito vale quanto il centrodestra”. Una forza dunque da non disperdere né sottovalutare.

Alla fine molta acqua viene gettata sul fuoco, mostrando la non volontà di non infliggere un colpo che potrebbe rivolgersi contro se stesso.
Stefano Bonaccini, eurodeputato, membro della segreteria e sicuramente uno dei punti di riferimento dell’opposizione interna a Schlein, smorza i toni. Si vocifera che la convocazione di una riunione urgente della sua area politica sia stata in tutta fretta annullata, proprio per non dare adito ad ulteriori tensioni.
Con i passare dei giorni le bocche sono cucite e molti membri del partito, anche di alto livello, si trincerano dietro al classico no comment.
Il referendum è fallito. Non servono giri di parole. Ma ora niente resa dei conti. Serve capire davvero il messaggio degli italiani e migliorare, anche cambiando schema”, questa la dichiarazione emblematica dell’ex Sindaco di Firenze Dario Nardella, oggi deputato al Parlamento Europeo.
La parola d’ordine è dunque “riflettere, non rompere”?
Le voci dicono esattamente questo.
Almeno per ora la pace regna sovrana nel Partito Democratico.
Ribadiamo il concetto: almeno per ora.
Il conflitto è sempre pronto a ripartire, se non si trova un modus vivendi e un punto da cui rialzarsi tutti insieme.

Giunta Salis a Genova: tra campo larghissimo e polemiche per la conferma di Viscogliosi

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Dopo la vittoria netta al primo turno, Silvia Salis ha annunciato la nuova giunta che guiderà Genova nei prossimi cinque anni. Una squadra che riflette l’ampiezza della coalizione che l’ha sostenuta, ma che già dalla sua composizione suscita dibattito. Il caso più discusso riguarda la conferma come assessora di Marta Viscogliosi, esponente dell’amministrazione Bucci, in un ruolo tecnico ma simbolicamente carico: una scelta che divide e apre interrogativi sul confine tra continuità amministrativa e compromesso politico.

Una giunta larga come la coalizione

La composizione della nuova giunta Salis racconta molto del momento politico che attraversa Genova. La sindaca, sostenuta da una coalizione eterogenea – Partito Democratico, lista civica personale, Alleanza Verdi e Sinistra, Movimento 5 Stelle e Riformiamo Genova – ha dovuto trovare un equilibrio tra rappresentanze politiche, competenze tecniche e promesse di rinnovamento. È la prima volta da molti anni che il centrosinistra riesce a costruire un “campo larghissimo” coeso già al primo turno. Una differenza netta rispetto alle frammentazioni che avevano segnato le precedenti tornate elettorali.

Allora il successo di Salis non è tanto il frutto della sua figura civica o del suo profilo non partitico, quanto il risultato di un equilibrio politico costruito con pazienza e lungimiranza. La sua affermazione al primo turno riflette un contesto che si è trasformato radicalmente negli ultimi due anni: dal passo indietro di Bucci a Genova, in seguito alla candidatura per la Regione, fino al logoramento della maggioranza di centrodestra dopo il caso Toti. In questo scenario, l’alleanza tra Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Verdi e Sinistra, e altre liste civiche ha retto l’urto della sfiducia generalizzata e ha saputo mobilitare il proprio elettorato, pur senza allargarlo in modo significativo rispetto alle regionali.

Il “campo larghissimo” che ha sostenuto Salis non è nato tanto da un’intesa programmatica, ma da una necessità strategica: fronteggiare un blocco di centrodestra ancora forte nei suoi bastioni e nella memoria recente del governo cittadino. Il voto, in questo senso, si è giocato più sulle appartenenze che sulle persone. La figura di Salis è stata importante per tenere unito il fronte, ma è la coesione dell’alleanza ad aver fatto la differenza. Una coesione costruita sulla consapevolezza di un’occasione irripetibile, più che su un vero cambio di paradigma.

Il caso Viscogliosi: continuità o contraddizione?

Ma proprio in nome di questa inclusività, la giunta ha fatto una scelta che ha sollevato più di una perplessità: il mantenimento in squadra di Marta Viscogliosi, già assessora nella giunta Bucci. Il suo nome era stato indicato nei giorni successivi al voto come possibile figura tecnica “di continuità”, ma la decisione definitiva ha comunque sorpreso molti osservatori e militanti.

Arianna Viscogliosi
Arianna Viscogliosi

Viscogliosi ha gestito deleghe delicate sotto Bucci – patrimonio, urbanistica e rigenerazione urbana – e non è mai stata identificata con le aree più ideologiche del centrodestra. Tuttavia, la sua permanenza nel governo cittadino guidato ora dal centrosinistra rappresenta un’anomalia politica, soprattutto agli occhi di una parte della base che ha votato per un cambio netto di rotta rispetto agli anni del “modello Bucci”. Perché, se è vero che Viscogliosi è una figura tecnica, è altrettanto vero che ha condiviso l’impianto urbanistico e infrastrutturale della giunta precedente – dalle scelte sul waterfront al controverso progetto dello Skymetro.

Salis ha difeso la nomina rivendicando la necessità di garantire continuità amministrativa in dossier complessi e già avviati, ma la questione resta politicamente sensibile. Per alcuni, è il segno di una reale volontà di superare le contrapposizioni sterili, per altri una concessione inaccettabile in nome dell’efficienza.

La scommessa di una giunta ibrida

Nel suo insieme, la squadra di governo unisce assessori espressione dei partiti – con ruoli distribuiti in modo proporzionale ai risultati elettorali – e figure provenienti dal mondo delle professioni, della cultura e del sociale. L’obiettivo dichiarato è di unire competenza ed esperienza politica, evitando tanto il tecnicismo senz’anima quanto la spartizione tra sigle. Ma la presenza di Viscogliosi, accanto a nuovi assessori espressi dal Movimento 5 Stelle o dalla sinistra ambientalista, mette alla prova questa coesistenza. Il rischio è che le differenze programmatiche riemergano nella gestione concreta di alcuni nodi cruciali per la città: mobilità, rigenerazione urbana, rapporti con i poteri economici locali.

La posta in gioco, dunque, va oltre la tenuta della giunta: riguarda la credibilità dell’idea stessa di “campo largo”. A Genova si sta sperimentando una formula in cui convivenza e compromesso sono la regola, non l’eccezione. Se funzionerà, potrebbe diventare un modello politico osservato anche a livello nazionale. Se invece produrrà paralisi o ambiguità, rischia di disilludere una parte importante dell’elettorato che ha creduto in un cambiamento reale.

Un’eredità ingombrante

Marco Bucci

L’aspetto forse più emblematico è che la nuova amministrazione eredita da Bucci non solo cantieri aperti e progetti urbanistici, ma anche alcune figure-chiave. In questo senso, la scelta di Salis suona come una forma di realismo istituzionale, che però ha il sapore amaro dell’ambiguità. Perché l’alternanza democratica non è solo una questione di colore politico, ma anche di indirizzo, di approccio alla città, di visione.

La giunta Salis dovrà dimostrare di non essere solo una continuazione tecnica con un nuovo volto civico, ma un’amministrazione capace di imprimere discontinuità dove serve e di dialogare senza assorbire acriticamente le logiche del passato. Questo, forse, sarà il suo banco di prova più difficile.

Una città laboratorio

In un’Italia dove il dibattito sul campo largo appare ancora fragile e spesso solo teorico, Genova si ritrova laboratorio politico vivente. La vittoria di Salis – netta, ma non bulgara – e la composizione della sua giunta mostrano quanto sia complesso trasformare un’alleanza elettorale in un progetto condiviso di governo.

La prossima sfida, per la sindaca e per la sua squadra, sarà rendere credibile questa formula, senza nascondere sotto il tappeto le sue tensioni interne. Perché Genova, più che di una vetrina di convergenze, ha bisogno di una guida capace di tenere insieme la città reale – quella che ha votato e quella che è rimasta a casa. E ogni scelta, ogni nomina, ogni messaggio che passa – anche attraverso il profilo degli assessori – conterà in questa delicata operazione di fiducia.