Articolo di Alice Salvatore e Alessandro Trizio
Alle origini: confini tracciati col righello, popoli lasciati senza voce
Per capire il presente del Medio Oriente bisogna sporcarsi le mani con la sua storia. Non quella scritta nei manuali scolastici, ma quella tracciata con l’inchiostro degli accordi segreti, il piombo delle armi e la polvere di città spartite secondo logiche di potere. È il 1916. L’Impero ottomano, stremato dalla guerra, si sta sgretolando. Due diplomatici europei – Mark Sykes per la Gran Bretagna e François Georges-Picot per la Francia – si incontrano per spartire in anticipo le spoglie di un impero che ancora non è caduto. Con una mappa sul tavolo e un righello in mano, disegnano confini rettilinei e artificiali, dividendo terre complesse come se fossero proprietà coloniali. Conoscevano quei luoghi, li avevano attraversati, ma li guardavano dall’alto, con lo sguardo strategico degli imperi. La linea più celebre – passata alla storia come “il confine tirato col righello” – tagliava idealmente il Medio Oriente da ovest a est, dal Mediterraneo alla Mesopotamia. Ma sotto quel tratto netto c’erano villaggi, tribù nomadi, lingue diverse, fedi millenarie. Popoli interi destinati a svegliarsi dall’oggi al domani divisi da un confine che nessuno aveva scelto. E che nessuno avrebbe mai veramente accettato.
Da quel gesto, compiuto lontano da chi ne avrebbe pagato il prezzo, nascono Stati-nazione dai confini del tutto artificiali, che ignorano le realtà etniche e religiose sul terreno. Siria, Iraq, Libano, Transgiordania, Palestina: nazioni nuove per entità politiche pensate più per servire interessi europei che per rappresentare i popoli che vi abitavano. È l’eredità velenosa dell’accordo Sykes-Picot, ancora oggi considerato da molti analisti come l’origine di molte fratture identitarie e geopolitiche che dilaniano la regione. In quegli stessi anni, gli inglesi avevano promesso agli arabi l’indipendenza se si fossero ribellati agli ottomani. Un giovane ufficiale, Thomas Edward Lawrence – passato alla storia come “Lawrence d’Arabia” – galvanizzava le tribù beduine nel deserto promettendo libertà. Ma mentre Lawrence combatteva insieme agli arabi, a Londra si preparavano i documenti per imporre mandati coloniali, e a Parigi si calcolavano quanti barili di petrolio spettassero a chi. Le promesse di autodeterminazione vennero smentite ancor prima di poter essere mantenute.
Nel frattempo, nel cuore dell’Europa, prendeva forma un altro progetto destinato a segnare la regione: nel 1917 il governo britannico, con la Dichiarazione Balfour, appoggiò ufficialmente l’idea di una “sede nazionale” per il popolo ebraico in Palestina. Anche in questo caso, le decisioni venivano prese altrove: nessuno consultò né gli ebrei, presenti da secoli nella Terra Santa, né i palestinesi arabi che vi vivevano stabilmente da generazioni. Popolazioni entrambe radicate in quella terra, eppure escluse da una decisione che le avrebbe segnate a lungo.
Per capire quanto profonde siano quelle ferite, basta un’immagine all’apparenza semplice: la posta. Nella Palestina degli anni ’20, sotto mandato britannico, anche una lettera tra due città vicine – Betlemme e Hebron, ad esempio – poteva diventare oggetto di sospetto. Veniva aperta, letta, archiviata. Le parole, prima ancora di raggiungere il destinatario, finivano tra le mani dell’autorità coloniale. Ogni frase era una traccia, ogni nome un file da classificare. E così anche le persone – ebrei o arabi che fossero – venivano incasellate, etichettate, ridotte a categorie decise altrove. Sulle loro carte d’identità comparivano parole nuove, parole nuove, categorie etniche e religiose standardizzate, che spesso non appartenevano alla lingua viva delle persone, formule estranee che spesso non avevano mai usato per descriversi. In pochi anni, perfino dire “chi sei” divenne un atto amministrativo. Un’identità imposta dall’alto, che non parlava la lingua della terra, ma quella del dominio.
Già negli anni ’20 quelle linee tracciate sulla carta cominciarono a sanguinare. In Siria, nel 1920, la popolazione insorse contro la dominazione francese: per tre giorni i ribelli riuscirono a tenere testa all’esercito coloniale nella battaglia di Maysalun. In Iraq, sempre nel 1920, la grande rivolta contro il mandato britannico vide sunniti e sciiti combattere fianco a fianco per liberarsi del giogo straniero. L’Occidente rispose con la forza, spesso con bombardamenti aerei sui villaggi in rivolta. Sono episodi oggi poco ricordati, ma rivelano una verità attuale: già allora i popoli rifiutavano di essere spettatori passivi nella propria terra.
Eppure, nonostante accordi segreti e repressioni, nelle città mediorientali di inizio Novecento la convivenza multietnica e multireligiosa era ancora una realtà tangibile. A Baghdad, ad esempio, fioriva una delle più vivaci comunità ebraiche del mondo arabo. Nei quartieri della città sinagoghe e moschee sorgevano a pochi isolati di distanza; le famiglie – musulmane, ebraiche, cristiane – si scambiavano visite durante le rispettive festività. In molti di quei vicoli, a Pasqua i bambini cristiani assaggiavano i dolci di pasta frolla della festa di Purim e a Ramadan gli ebrei sedevano alle tavolate dell’iftar musulmano. Queste memorie spezzano il luogo comune di una regione condannata all’odio atavico: per lungo tempo furono la politica e gli interessi dei potenti, non i popoli, a costruire il nemico.
E oggi? Oggi che i carri armati hanno attraversato di nuovo Gaza e il sangue ha ripreso a scorrere, esistono ancora frammenti di speranza che non fanno notizia. Ci sono giovani israeliani – spesso ultraortodossi – che preferiscono finire in carcere piuttosto che prestare servizio militare, rifiutandosi di essere complici di un sistema che, dicono loro stessi, “ha smarrito ogni umanità”. Ogni settimana manifestano contro il governo di Benjamin Netanyahu nelle piazze di Tel Aviv; alcuni collaborano clandestinamente con attivisti palestinesi per documentare gli abusi nei Territori Occupati. Sono minoranze, certo, ma esistono. E valgono come semi di pace in un terreno reso arido dall’odio.
In questo primo sguardo storico, il Medio Oriente emerge come una terra contesa non solo dalle potenze straniere, ma anche dalle narrazioni. Da un lato le narrazioni dei governi, dei trattati, delle cartine geografiche tracciate col righello; dall’altro quelle delle persone comuni, che da più di un secolo cercano ostinatamente di ricucire una tela lacerata. Non si può capire l’oggi senza guardare all’ingiustizia di quei confini tracciati a tavolino; ma non ci si può neppure rassegnare all’idea che tutto sia ormai irrimediabile. I popoli lo sanno: nonostante il passato avvelenato, il futuro può ancora essere una scelta.
Identità e fede: un mosaico vivente, non un campo minato
Immagina una mattina qualunque del 1946, a Najaf, in Iraq. Il sole filtra tra le grate dell’ospedale. Sul piazzale, davanti al reparto maternità, una piccola squadra di medici si ferma un istante. Un’infermiera cristiana caldea sistema il foulard. Accanto a lei, un chirurgo ebreo scherza con due colleghi arabi, uno sunnita, l’altro sciita. Si sono appena passati il turno. Sono stanchi, ma sorridono. Nessuno di loro sa che, nel giro di pochi decenni, quella normale prossimità sarà raccontata come un’eccezione. Che un mosaico umano così ricco verrà considerato “fragile”, “impossibile”, persino “pericoloso”. Eppure il Medio Oriente, per secoli, è stato esattamente questo: una trama viva e complessa di popoli, lingue e fedi che hanno convissuto più o meno pacificamente, più o meno serenamente, ma a lungo e realmente. Curdi e turchi, persiani e arabi, ebrei e musulmani, cristiani di ogni rito – maroniti, copti, caldei – e poi drusi, yazidi, bahá’í… In alcuni quartieri si poteva pregare in tre religioni diverse nel raggio di cento metri. Poi arrivarono le etichette. I confini. Le guerre. Ma chi ha vissuto quegli anni, o ne ha raccolto i racconti, sa che non era un’utopia. Era realtà. Fragile, certo. Ma reale.
La pluralità in sé non è mai stata il problema. Lo sono diventati i confini imposti, le ideologie di potere, gli eserciti e le milizie. Quando la politica ha iniziato a classificare gli individui, a metterli su scale gerarchiche, a spingere per l’omogeneità forzata, allora il mosaico ha cominciato a incrinarsi. Uno degli esempi più evidenti è la faglia settaria tra sunniti e sciiti. Nata da una disputa sulla successione al Profeta Maometto nel VII secolo – una divergenza teologica antica – questa differenza per molti secoli non impedì la convivenza. Ma nel Novecento, soprattutto dopo il 1979 (anno della rivoluzione khomeinista in Iran), quella frattura religiosa venne armata politicamente. L’Arabia Saudita wahhabita e l’Iran sciita trasformarono la fede in un’arma diplomatica, finanziando alleati e milizie e muovendosi come registi occulti di conflitti “per procura” in Siria, Yemen, Libano, Iraq.
In mezzo, tra questi piani di potenze regionali, ci sono sempre le popolazioni. In Iraq, ad esempio, sunniti e sciiti avevano vissuto fianco a fianco per secoli; non era raro trovare famiglie con il padre sunnita e la madre sciita. Ma dopo l’invasione americana del 2003 e la caduta di Saddam Hussein, il paese è esploso in violenze settarie alimentate proprio da attori esterni in cerca di vantaggi. A Baghdad, il quartiere di Dora – un tempo tra i più misti e vivaci – divenne un campo di battaglia identitario, ripulito casa per casa a colpi di minacce e attentati.
Eppure, anche nell’Iraq insanguinato di quegli anni bui, sono emerse storie diverse. Najaf, 2016. Migliaia di cittadini riempiono le strade, stanchi non della fede altrui, ma del furto del proprio futuro. Protestano contro la corruzione che divora lo Stato, contro la luce che manca, l’acqua che non arriva, gli ospedali svuotati da decenni di ruberie. Sono in gran parte sciiti, come sciite sono le città che si sollevano. Ma i loro slogan non hanno colore religioso: chiedono diritti, giustizia, dignità, per tutti. Accanto ai religiosi, marciano attivisti laici, giovani della società civile, perfino comunisti. Sventola solo la bandiera irachena, simbolo di un’identità che vuole risorgere oltre le divisioni. I sunniti non sono in piazza: la paura di essere accusati, arrestati, zittiti li tiene lontani. Ma molti ascoltano, molti sperano. A Najaf, intanto, gruppi indipendenti raccolgono aiuti per le famiglie cristiane e sunnite sfollate, celebrano il Natale insieme ai vicini, costruiscono legami dove la politica ha seminato diffidenza. Non fu una protesta congiunta. Ma fu un sussulto comune. Perché il settarismo non nasce nelle piazze: nasce nei palazzi. E in quei giorni, per un momento, la società civile irachena provò a dire che un altro Iraq era possibile. Non diviso, ma integro. Non settario, ma giusto. Nessun governo ne parlò, ma la gente sì. Oppure pensiamo a Mosul: liberata dalla morsa dell’ISIS, vide i suoi abitanti – sunniti, sciiti, cristiani – rimettere in piedi insieme sia le moschee che le chiese distrutte. Sui muri, le prime scritte comparse tra le macerie non furono proclami di partito, ma semplici messaggi dipinti con il carbone: “bentornati”, “ricominciamo”, “insieme”.
Un altro caso emblematico di identità negate è la questione curda. Parliamo di circa 40 milioni di persone senza uno Stato, disperse tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Un popolo con una propria lingua, una cultura e una storia millenaria, eppure represso ovunque si trovi. In Turchia, fino a pochi anni fa perfino usare in pubblico la lingua curda era un reato. In Iraq, negli anni ’80, il regime di Saddam arrivò ad usare armi chimiche contro i villaggi curdi – tristemente famosa la strage di Halabja. In Iran, le richieste di autonomia dei curdi sono state sistematicamente soffocate. Eppure, anche qui, i curdi hanno saputo intrecciare alla lotta armata forme di resistenza civile e culturale, trovando anche modi nonviolenti per affermare la propria identità negata. Nella città turca di Diyarbakır, per anni maestri e genitori hanno organizzato scuole clandestine in lingua curda, rischiando il carcere pur di insegnare ai bambini la lingua dei loro nonni. Nella Siria nordorientale, la rivoluzione delle donne curde in Rojava ha dato vita, nel pieno della guerra, a un raro esperimento di autogoverno con forti componenti laiche e femministe, pur tra mille contraddizioni e senza alcun riconoscimento ufficiale da parte della comunità internazionale, dove i consigli cittadini sono guidati insieme da un uomo e una donna e tutte le etnie sono rappresentate. Esperienze così esemplari da dare speranza, eppure spesso ignorate dai grandi media occidentali, troppo concentrati sulle fazioni armate e troppo poco sui germogli di pace.
Il mosaico mediorientale non è fatto solo di religioni o nazionalismi: è fatto anche di memorie condivise, di saperi incrociati, di cucine mischiate, di parole che viaggiano da una lingua all’altra. La parola araba salaam, l’ebraica shalom e la persiana solh significano tutte “pace”. Lo sapevano bene gli intellettuali che negli anni ’50 affollavano i caffè di Beirut, discutendo in tre idiomi diversi e leggendo giornali stampati in cinque alfabeti. Poi però vennero le guerre, e con loro il sospetto e la paura dell’altro. Il Libano indipendente stesso ne è un esempio doloroso: fondato nel 1943 con un sistema politico basato sulle “quote religiose”, ha finito per rinchiudere ogni comunità in gabbie identitarie. Maroniti, sciiti, sunniti, drusi: ognuno con il suo partito, la sua milizia, i suoi alleati esterni. Eppure, non molto tempo fa – nel 2004 – c’erano ancora matrimoni misti tra cristiani e musulmani celebrati simbolicamente nel quartiere di Hamra, a Beirut. Oggi sono rarissimi.
Anche in Israele, il mosaico interno è delicato e frammentato. Il movimento sionista, nato per dare rifugio a un popolo perseguitato, ha portato con sé nuove lacerazioni. Israele ha riunito ebrei provenienti da ogni angolo del mondo, con culture ed esperienze diversissime: ebrei ashkenaziti (europei), sefarditi (dal Nord Africa), mizrahi (orientali), ebrei etiopi, russi, israeliani nativi, ebrei laici, religiosi, ultraortodossi, progressisti… Non tutti vedono il paese allo stesso modo, non tutti sostengono l’attuale governo né la sua politica verso Gaza. Proprio in questi mesi, decine di migliaia di israeliani – religiosi compresi – stanno manifestando contro la guerra e contro la riforma autoritaria della giustizia voluta dal governo Netanyahu. Alcuni gruppi di ebrei ultraortodossi, come già ricordato, rifiutano di prestare servizio militare pur sapendo di finire in prigione. C’è chi sfila ogni settimana a Tel Aviv con un cartello scritto in arabo e in ebraico: “non nel mio nome”. Sono voci minoritarie, certo, ma reali. E quindi preziose.
È fondamentale ricordarlo in un’epoca in cui le narrazioni dominanti cercano sempre un nemico assoluto e monolitico: non tutti gli arabi sono fondamentalisti; non tutti gli ebrei appoggiano la guerra; non tutti i sunniti odiano gli sciiti. La verità è che, sotto la crosta delle ideologie, le persone comuni cercano ovunque le stesse cose: sicurezza, giustizia, libertà, la possibilità di vivere con dignità. E ogni volta che qualcuno difende questi diritti per tutti – non solo per il proprio gruppo – il mosaico si ricompone un po’, le crepe si richiudono. In ogni gesto di solidarietà tra diversi, il Medio Oriente ritrova se stesso.
Israele e Palestina: la ferita che non si rimargina
Se esiste un luogo al mondo in cui la storia non è mai “passato”, è qui. Tra il Mediterraneo e il Giordano, tra Gerusalemme e Gaza, la storia non è un capitolo chiuso ma un trauma costante, una presenza quotidiana. Ogni casa, ogni strada, ogni checkpoint racconta una frattura. Ogni bambino che nasce lo fa dentro un conflitto che non ha scelto. E nessuno, da nessuna parte, può illudersi di vivere al riparo dalla Storia.
Tutto ha inizio nel 1948, l’anno spartiacque. Dopo l’orrore indicibile della Shoah, per il popolo ebraico la nascita dello Stato di Israele fu come riemergere da un abisso: la promessa di un rifugio, una terra da chiamare casa. Ma per i palestinesi quello stesso giorno segnò l’inizio di una catastrofe. Nakba, la chiamano ancora oggi: la “catastrofe”. Oltre 700.000 persone furono costrette a fuggire. Alcuni scapparono nel caos, altri vennero espulsi. Molti lasciarono la porta socchiusa, la chiave in tasca, certi che sarebbero tornati presto. Quelle chiavi, arrugginite dal tempo, oggi pendono come talismani nelle case dei figli e dei nipoti. Simboli silenziosi di un ritorno mancato. La guerra scoppiò quasi subito. Il 15 maggio 1948, il giorno dopo la proclamazione dello Stato di Israele, gli eserciti di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq varcarono i confini. La terra promessa si svegliò sotto il rombo dei cannoni: da un lato il sogno di una liberazione, dall’altro la paura dell’annientamento. Sui margini, le ultime truppe britanniche ancora presenti osservavano il disordine che avevano contribuito a generare, lasciando una terra fratturata. Sembrava un’impresa impossibile. Un pugno di uomini e donne, molti dei quali reduci dai campi di concentramento, si trovavano a difendere una patria appena nata, fragile come un respiro. Ma le milizie ebraiche, già temprate da mesi di guerra civile con le forze arabe locali, si riorganizzarono in poche settimane in un esercito regolare. Arrivarono armi dalla Cecoslovacchia, fondi dalla diaspora, volontari da ogni angolo del mondo. E soprattutto, una volontà incrollabile, alimentata dalla memoria di chi non aveva più nulla da perdere. Gli eserciti arabi, divisi da rivalità interne e privi di una strategia comune, non riuscirono a sfondare. E così, contro ogni previsione, Israele resistette. Non solo: consolidò i suoi confini oltre quanto previsto dal piano ONU.
Due memorie si accendevano nello stesso fuoco. Comunque la si racconti, per chi c’era ha avuto un solo significato: diventare straniero nella propria terra.
E da quel giorno, ogni pietra rimossa, ogni campo coltivato, ogni casa ricostruita, ha parlato la lingua del rimpianto. E della resistenza.
La tensione non si placa negli anni successivi. Nel 1967, la miccia si accende di nuovo. Egitto, Siria e Giordania mobilitano le truppe, chiudono lo stretto di Tiran, invocano la guerra. Israele, sentendosi accerchiato, lancia un attacco preventivo. In sei giorni, conquista Cisgiordania, Gerusalemme Est, Striscia di Gaza, Alture del Golan, Sinai. Le mappe si deformano, i confini diventano mobili, tracciati più dalla forza che dal diritto.
Israele giustifica l’occupazione con la necessità di garantire la propria sicurezza in un contesto ostile; ma sul terreno prende forma un’altra realtà: colonie che crescono come funghi su terre appena conquistate, espropri silenziosi di uliveti e campi, documenti d’identità e coprifuoco che decidono chi può muoversi e chi no. Ogni chilometro quadrato diventa una dichiarazione politica. Ogni permesso negato, un messaggio di controllo.
Nel 1987 scoppia la Prima Intifada.
Apparentemente — e romanticamente — è la rivolta dei ragazzini armati di pietre contro i carri armati. Le immagini che arrivano da Ramallah, Nablus, Gaza raccontano vicoli pieni di adolescenti che sfidano con sassi e bandiere i blindati dell’esercito israeliano. A Beit Sahour, villaggio cristiano vicino a Betlemme, l’intera comunità smette di pagare le tasse all’amministrazione militare: “No taxation without representation”, proclamano. È una delle prime forme organizzate di disobbedienza civile nella storia palestinese recente.
Ma dietro quell’energia giovanile, spesso inconsapevole, si muovono forze più oscure. Dopo l’accordo di Jibril del 1985, che vide il rilascio di oltre un migliaio di detenuti palestinesi — tra cui anche diversi ergastolani condannati per atti terroristici — molte cellule armate erano tornate operative. La rivolta divenne presto terreno fertile per la riorganizzazione di gruppi clandestini, che videro nella sollevazione civile un’occasione per rilanciarsi. Alcuni si insinuarono tra le proteste, strumentalizzandole e contaminandone il senso originario.
In quello stesso clima, alla fine del 1987, si costituisce formalmente Hamas, espressione radicale dei Fratelli Musulmani in Palestina, e destinata a diventare uno degli attori più violenti e determinanti del conflitto. Anche la Jihad Islamica e altri gruppi militanti si inseriscono nella mobilitazione: non per difendere la popolazione, ma per guidarla verso un’escalation armata, spesso sacrificandone le vite sull’altare di strategie altrui.
Nel frattempo, la popolazione palestinese, stretta tra due fuochi — la repressione israeliana e il ricatto delle milizie — cerca di sopravvivere e resistere con gli strumenti che ha. Non solo madri, ma studenti, medici, insegnanti, artigiani. Comitati popolari riaprono scuole clandestine nei seminterrati, allestiscono ambulatori d’urgenza, coltivano orti sui tetti. La resistenza si fa quotidiana, creativa, ostinata: una cultura della vita che sfida la logica della distruzione.
Ma anche la risposta israeliana si fa sistematica. Lo Stato si sente sotto assedio permanente, colpito da attacchi continui e imprevedibili. I militari operano in stato d’allerta, e spesso colpiscono senza distinguere. Braccia spezzate a colpi di manganello, case demolite come punizione collettiva, arresti di massa, minori trattenuti per mesi senza processo. Ogni sasso può nascondere un’esplosione. Ogni giovane può essere un militante.
La Prima Intifada è un intreccio complesso: di coraggio civile e manipolazione armata, di repressione brutale e dignità disarmata, di sogni popolari e interessi strategici. Eppure, nel caos, una verità resta innegabile: finché non si riuscirà a separare la voce della società civile dalle urla delle milizie, finché Israele continuerà a colpire indiscriminatamente senza distinguere tra chi resiste e chi approfitta, la pace sarà un orizzonte lontano. Perché solo ascoltando chi costruisce, e non chi distrugge, sarà possibile cambiare davvero la storia.
Arrivano gli anni ’90 e con essi uno spiraglio di speranza: gli Accordi di Oslo del 1993 sembrano promettere “due popoli, due Stati”. La storica stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin sul prato della Casa Bianca fa il giro del mondo. Ma quella promessa di pace si scontra presto con la realtà. I negoziati procedono a rilento e intanto, sul territorio, la vita quotidiana continua a peggiorare. Le colonie israeliane nei territori occupati non si fermano, anzi si espandono. L’“autonomia” palestinese prevista dagli accordi si traduce in un puzzle di zone amministrative (Area A, B, C) che spezzettano la Cisgiordania in isole scollegate, inframmezzate da strade riservate ai coloni. I palestinesi per muoversi devono esibire permessi sempre più difficili da ottenere. Capita che una seduta di chemioterapia, un parto complicato, un funerale diventino imprese quasi impossibili a causa di un checkpoint chiuso. La pace promessa resta appesa a un filo, e quando nel 1995 Rabin viene assassinato da un estremista israeliano, quel filo si spezza di colpo.
Nel 2000 esplode la Seconda Intifada. Stavolta le pietre non bastano più: arrivano le armi e gli attentati suicidi. Esplosioni squarciano autobus affollati a Gerusalemme e Tel Aviv, kamikaze si fanno saltare nei mercati. La risposta israeliana è durissima: incursioni nei centri abitati, retate di militanti ma anche di civili, bombardamenti mirati. A Jenin, nel 2002, un intero quartiere residenziale viene raso al suolo durante un’offensiva. A Gaza le notti diventano insonni per il ronzio ininterrotto dei droni armati sopra i tetti. Nessuno è più al sicuro: né chi vive dietro il Muro che Israele nel frattempo ha costruito attorno ai territori palestinesi, né chi ogni giorno deve attraversare quel muro per curarsi o lavorare. Ogni passo, ogni gesto quotidiano diventa una scelta politica. Perfino un sorriso può diventare un atto di resistenza.
Nel 2005 Israele si ritira unilateralmente da Gaza. Ma non è la fine dell’occupazione: è solo l’inizio di un’altra forma di controllo. Il blocco imposto subito dopo – da Israele a nord e ovest, dall’Egitto a sud – trasforma quella sottile striscia di terra in una prigione a cielo aperto. Nessuno entra, nessuno esce. Manca l’acqua, manca la corrente, mancano i farmaci. I sogni si infrangono contro un muro più alto del cielo. Nel 2007 la situazione precipita. Hamas, che aveva vinto le elezioni legislative l’anno prima, prende il potere con un colpo di forza, estromettendo Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese con uno scontro armato interno. Il governo dell’ANP viene cacciato da Gaza, le elezioni cancellate, la voce civile messa a tacere. Da quel momento, Gaza non è più solo sotto assedio esterno: è ostaggio anche di un potere interno che reprime il dissenso, educa all’odio, e nasconde le sue armi nei cortili delle scuole, tra gli ospedali, nei tunnel sotto le case. Da allora, Gaza diventa il cuore pulsante di una spirale senza tregua. Le operazioni militari si susseguono: Piombo Fuso nel 2008, Margine Protettivo nel 2014, Guardiani delle Mura nel 2021. Ogni volta, la stessa tragedia. Israele risponde agli attacchi missilistici di Hamas — reali, continui, minacciosi — con una forza sproporzionata, che travolge tutto ciò che incontra. Quartieri interi vengono cancellati, scuole bombardate, ospedali devastati. Migliaia di morti, in gran parte civili. Famiglie intere sotto le macerie. Il diritto di Israele a difendersi è indiscutibile. Ma è il modo in cui lo esercita che alimenta il dolore e l’odio. Hamas si nasconde tra i civili. Israele, invece di isolare le milizie, colpisce in massa, lasciando che sia la popolazione a pagare il prezzo più alto. In mezzo, ci sono vite. Bambini, anziani, studenti, madri, lavoratori. Vite spezzate che nessuno potrà più riparare.
Poi arriva il 7 ottobre 2023. All’alba, centinaia di militanti di Hamas sfondano inaspettatamente le barriere di confine ed entrano in territorio israeliano. Attaccano basi militari ma anche kibbutz e villaggi, colpiscono civili nelle loro case, prendono più di 200 ostaggi. È il giorno più nero per Israele dalla sua fondazione: oltre 1.200 israeliani – in maggioranza civili – vengono uccisi nel giro di poche ore. L’attacco condotto da Hamas ha scosso il mondo per la sua brutalità: famiglie sterminate nei kibbutz, bambini uccisi, ragazze violentate, corpi dati alle fiamme, ostaggi trascinati via tra le urla. Le testimonianze parlano di sevizie, stupri, esecuzioni sommarie. Un orrore insostenibile, che ha lasciato ferite profonde, difficili da rimarginare.
Ma il dolore – qualunque sia la sua origine – non può giustificare la punizione collettiva di un intero popolo. E la spirale di vendette che ne è seguita ha colpito migliaia e migliaia di innocenti, moltiplicando la sofferenza.
La reazione israeliana è immediata, furiosa, totale. Gaza viene sottoposta a un assedio spietato. Partono bombardamenti continui dal cielo e dal mare, mentre le forze di terra invadono la Striscia. Nel giro di settimane Gaza si trasforma in un enorme cratere fumante. Interi palazzi si sbriciolano sotto le bombe. Le Nazioni Unite parlano apertamente di catastrofe umanitaria. Si contano decine di migliaia di vittime civili palestinesi (secondo i dati più aggiornati del Ministero della Sanità di Gaza, confermati anche da UN OCHA (l’acronimo di United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, ovvero Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari) a metà giugno 2025 si contano oltre 37.000 morti e circa 86.000 feriti. Altre stime locali non verificate parlano di cifre ancora più alte). Ma le parole della diplomazia restano senza peso.
Il governo israeliano – guidato da Netanyahu insieme a una coalizione di partiti ultranazionalisti – difende le proprie azioni definendole una “guerra al terrorismo”. Eppure persino la Corte Penale Internazionale dell’Aia, che indagava già dal 2021, nel 2024 ha chiesto mandati d’arresto per leader sia israeliani che di Hamas, con l’accusa di crimini di guerra legati al conflitto in corso commessi durante l’offensiva. Le immagini che arrivano da Gaza – ospedali al collasso, quartieri ridotti in cenere, bambini estratti dalle macerie – parlano da sole e scuotono le coscienze di molti nel mondo. Anche dentro Israele qualcosa si muove. Nella centrale piazza Rabin di Tel Aviv migliaia di persone sfilano silenziosamente chiedendo una tregua, la liberazione degli ostaggi, la fine delle violenze contro i civili di Gaza. Ci sono genitori israeliani che il 7 ottobre hanno perso un figlio, e che hanno continuato a partecipare a iniziative di dialogo e memoria con il Forum delle Famiglie in Lutto, alzando cartelli con scritto ‘nessun altro figlio, da nessuna parte’. Le loro parole risuonano anche oggi, mentre altri manifestano a Tel Aviv per chiedere la fine delle violenze. Tra loro c’è anche Rami Elhanan, un padre israeliano che anni fa ha visto morire la figlia in un attentato palestinese, e che oggi marcia accanto ai genitori palestinesi del Forum delle Famiglie in Lutto. “La pace non è un’utopia,” dice, “è una scelta quotidiana. Ma deve partire da noi”.
Nel frattempo, in Cisgiordania, la tensione raggiunge livelli altissimi. I coloni estremisti attaccano i villaggi palestinesi, mentre l’esercito israeliano intensifica retate e posti di blocco. Centinaia di giovani palestinesi vengono arrestati senza processo sotto la legge della “detenzione amministrativa”. L’odio si alimenta giorno dopo giorno. Eppure, anche qui, esistono sacche di resistenza ostinata e non violenta. A Hebron, un gruppo di insegnanti tiene aperta una scuola minacciata di demolizione dalle autorità militari, facendo lezione a turni anche se fuori i coloni li intimidiscono ogni giorno. A Gerusalemme Est, un collettivo di architetti progetta abitazioni “antisfondamento”, case semplici ma costruite con accorgimenti per resistere agli sfondamenti e alle demolizioni forzate. Sono gesti quotidiani, quasi invisibili, ma contengono un seme di futuro.
La tragedia israelo-palestinese è unica perché duplice: due traumi, due storie di persecuzione, due identità che per generazioni si sono percepite in pericolo di estinzione. Ma ormai il tempo non può più essere una giustificazione. Non ci potrà mai essere sicurezza per gli uni senza giustizia per gli altri. Non ci potrà mai essere una pace che sia solo armata. O imparano a convivere, o continueranno a distruggersi a vicenda. L’unica verità che resiste, in mezzo a tanto fango, è che nessuno nasce per odiare. Sarebbe bello vedere un giorno, nel cuore di Hebron, due bambini – uno palestinese e uno israeliano – rincorrere un pallone sgonfio. Magari non parlerebbero la stessa lingua, ma riderebbero allo stesso modo. La tragedia è tutt’intorno a loro, ma per un attimo tace. L’umanità, quando riesce ad alzare la testa, c’è da entrambe le parti del muro. E la vera forza, nel conflitto israelo-palestinese, non è quella degli eserciti: è quella di chi, giorno dopo giorno, sceglie di non odiare. Di chi continua a vivere, a educare, a curare, a coltivare nonostante tutto. In questa terra martoriata, la resistenza più radicale è quella della vita.
L’Iran e il grande gioco nucleare
Non c’è luogo in Medio Oriente più temuto e frainteso dell’Iran.
Nel 1953, un primo ministro democraticamente eletto, Mohammad Mossadeq, osò toccare ciò che era considerato intoccabile: il petrolio. Voleva nazionalizzarlo, sottrarlo al monopolio britannico. Durò poco. La CIA e l’MI6 organizzarono un colpo di Stato che lo depose, restituendo il potere assoluto allo scià Reza Pahlavi, alleato dell’Occidente. Da allora, l’Iran imparò sulla propria pelle che i grandi sogni di autonomia potevano costare caro.
Il risentimento covò sotto la superficie per anni, fino a esplodere nella rivoluzione del 1979. Fu allora che il potere religioso prese il posto di quello monarchico, promettendo giustizia, portando invece un nuovo tipo di repressione. Il risentimento covò sotto la superficie per anni, alimentato da decenni di disuguaglianze, corruzione e pesanti ingerenze straniere. Sotto lo scià Mohammad Reza Pahlavi, l’Iran visse una modernizzazione forzata, sostenuta dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, ma costruita sul controllo militare, sulla censura sistematica e sulla brutalità della polizia segreta SAVAK, che torturava e faceva sparire oppositori politici, intellettuali e studenti. Nel 1979, quel fuoco esplose: la rivoluzione rovesciò la monarchia e consegnò il potere al clero sciita. Ma se il vecchio regime aveva represso in nome del progresso, il nuovo lo fece in nome della religione. Le speranze di riscatto furono presto tradite: la libertà promessa si trasformò in una teocrazia autoritaria, con tribunali religiosi, repressione politica e un sistema legale oppressivo soprattutto per le donne. Quelle che avevano manifestato per la libertà si trovarono invece con il velo obbligatorio e la sorveglianza morale. Quella rivoluzione che prometteva giustizia e riscatto, finì per instaurare un nuovo regime di paura. Un’altra speranza tradita.
In realtà, la storia dell’Iran non è un’eccezione: in un periodo di sessant’anni, più di sei colpi di Stato su dieci nel Medio Oriente furono sostenuti da attori esterni, con un susseguirsi di interventi che hanno spesso travolto ideali di sovranità nazionale. È un dato che pesa. Come una mano invisibile che continua a ridisegnare i confini, a modellare i destini dei popoli dall’esterno.
Ma sotto la superficie dei grandi giochi di potere, continuava a scorrere un’altra storia: quella della gente comune. Il popolo iraniano – che ha letto poesie sotto censura, danzato in case chiuse, disegnato la libertà nei margini delle agende scolastiche – ha sempre trovato il modo di esprimere il proprio dissenso. Nelle piazze, nelle università, sui social, nelle canzoni, nei film. E anche nei gesti quotidiani, silenziosi: togliersi il velo in pubblico, scrivere versi proibiti, fuggire all’estero pur di non soffocare.
Nel settembre del 2022, il mondo ha conosciuto un nome che, in Iran, è diventato simbolo: Mahsa Amini. Aveva ventidue anni. Fu arrestata dalla polizia morale perché “portava male il velo”. Ne uscì su una barella, priva di coscienza. Morì poco dopo, a causa delle percosse subite. Il suo nome è diventato un grido: nelle strade, nei graffiti, nelle mani alzate delle ragazze che si tagliavano i capelli davanti alle telecamere. Ma quel dolore veniva da lontano. Era solo l’ultima scintilla in un incendio che cova da anni.
Nella retorica occidentale l’Iran è “il nemico”: l’oscura teocrazia islamica che minaccia Israele, finanzia milizie come Hezbollah e Hamas, e destabilizza la regione. Ma al di là dello sguardo ideologico, esiste un dato di fatto: Teheran gioca da decenni un ruolo attivo e ambivalente nel Medio Oriente. Appoggia regimi autoritari e gruppi armati, ma al tempo stesso si presenta come baluardo della resistenza contro l’egemonia americana e israeliana. In Siria, è intervenuta militarmente accanto alla Russia per salvare Assad, alimentando un conflitto che ha causato centinaia di migliaia di vittime. In Libano, a Gaza e in Iraq influenza la politica interna attraverso reti di potere parallele. E in patria reprime con violenza ogni forma di dissenso, soprattutto se arriva dalle donne o dalle minoranze etniche. È uno Stato che teme la libertà, ma ne rivendica il monopolio. Un attore fondamentale — e pericolosamente doppio — nel mosaico mediorientale.
Nella narrazione del regime iraniano, invece, l’Iran è la vittima accerchiata: l’erede di un’antica civiltà che difende la propria sovranità contro un mondo ostile. Dietro queste due immagini contrapposte se ne muove però un’altra, più complessa e fragile: quella di un popolo che da anni vive sospeso tra orgoglio nazionale e isolamento globale, tra sogni infranti e speranze ostinate.
Negli ultimi mesi l’Iran è tornato al centro della scena internazionale per il suo programma nucleare. Ufficialmente Teheran sostiene che sia a scopo civile, ma il livello di arricchimento dell’uranio ha superato la soglia critica del 60%, avvicinandosi pericolosamente all’uso bellico. L’AIEA – l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – aveva lanciato l’allarme da tempo: gli ispettori erano sempre più ostacolati, e dopo il fallimento del delicato accordo sul nucleare del 2015 (noto come JCPOA) l’equilibrio già precario si era spezzato. L’Iran giustificava le sue mosse come reazione alle pressioni occidentali – soprattutto dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sotto l’amministrazione Trump – ma il sospetto della comunità internazionale cresceva, e con esso la tensione.
Il 9 giugno 2025 la miccia si accende. Israele lancia un attacco aereo su larga scala contro le installazioni nucleari iraniane. Non è la prima volta che i due Paesi si colpiscono a distanza, ma questa volta è diverso: l’operazione è aperta, dichiarata, massiva. Stormi di caccia bombardano i siti di Natanz, Isfahan, Khondab e Fordow, centrando laboratori di arricchimento, infrastrutture strategiche e depositi missilistici. L’obiettivo dichiarato è chiaro: bloccare l’avanzamento del programma atomico di Teheran. Colpire, cioè, obiettivi militari e industriali precisi, nel tentativo di interrompere lo sviluppo della capacità nucleare.
La reazione dell’Iran arriva rapida e brutale. Non si limita a un’azione simbolica o indiretta: lancia decine di missili balistici e sciami di droni contro obiettivi civili, mirando al cuore del sud di Israele. Alcuni vengono intercettati dalla difesa aerea, ma altri raggiungono le infrastrutture civili. Uno colpisce in pieno il Soroka Medical Center di Be’er Sheva, costringendo all’evacuazione reparti ospedalieri e causando centinaia di feriti tra pazienti e personale sanitario. Due strategie, due intenti diversi. Israele punta a impianti nucleari militari. L’Iran, invece, risponde colpendo direttamente la popolazione (alcune fonti iraniane hanno accusato Israele di aver successivamente colpito anche l’Università Imam Hussein, a sud di Teheran — ma la notizia non ha trovato conferme ufficiali).
In pochi giorni, si rompe ogni equilibrio, e una nuova fase del conflitto si apre, più scoperta e violenta che mai.
Nel giro di 72 ore le sirene risuonano a Tel Aviv, Haifa, Teheran, Qom – da una parte all’altra della regione. I cieli mediorientali diventano il teatro di uno scontro incrociato: caccia israeliani che volano verso est, missili iraniani che solcano il cielo verso ovest. Le famiglie israeliane passano le notti stipate nei rifugi, mentre a Teheran decine di migliaia di persone fuggono in auto verso le province del nord. Le immagini delle autostrade bloccate dal traffico, delle stazioni di servizio prese d’assalto, delle farmacie svuotate dai cittadini in preda al panico, iniziano a circolare sui social – finché la censura iraniana non cala a oscurare tutto.
Il 18 giugno l’escalation fa un altro passo. L’Iran intensifica i lanci di missili: non colpisce più solo obiettivi militari, ma prende di mira anche zone civili nelle città israeliane. Netanyahu dichiara che Israele si trova di fronte a un “atto di guerra su vasta scala”. Teheran, dal canto suo, denuncia la palese violazione del diritto internazionale da parte di Israele con il primo attacco. Le diplomazie mondiali però restano in silenzio. Sembra tutto sull’orlo del disastro quando, a sorpresa, entra in scena un terzo attore.
Il 22 giugno 2025 gli Stati Uniti colpiscono a loro volta obiettivi sul territorio iraniano. Senza annunci pubblici né ultimatum, parte un’ondata di bombardamenti americani: vengono distrutti altri impianti legati al programma nucleare iraniano e alcuni centri di comando strategico a Teheran. La nuova amministrazione Trump, tornata alla Casa Bianca da pochi mesi, lascia intendere – in dichiarazioni ambigue – che l’obiettivo è “ristabilire l’equilibrio regionale” e “impedire lo scenario peggiore”. Washington definisce l’operazione un’azione difensiva a protezione degli alleati. Ma in Iran quelle esplosioni hanno un altro nome: invasione.
Pochi giorni dopo, arriva un annuncio inatteso. Il 24 giugno Donald Trump, forte del ruolo che gli Stati Uniti si sono ripresi nel conflitto, proclama un cessate il fuoco unilaterale, affermando di aver mediato con successo tra le parti. Non fornisce dettagli; nessun accordo scritto, nessun comunicato congiunto viene diffuso. E infatti, meno di 24 ore dopo, la tregua comincia già a sfilacciarsi. Tel Aviv accusa l’Iran di aver lanciato altri droni oltre confine; Teheran accusa Israele di non aver fermato tutti i raid. Di fatto, la “tregua” regge solo sul filo stanco dell’esaurimento reciproco, mentre sul campo si continua a combattere a bassa intensità.
Tutto questo accade mentre i media internazionali rincorrono esperti e pubblicano mappe di un possibile nuovo grande conflitto. In televisione si discute di armamenti di ultima generazione, di equilibri di potenza, di “escalation controllata”. Ma non si parla del blackout elettrico che lascia migliaia di famiglie senza luce a Qom dopo i primi bombardamenti. Non si parla del padre di Be’er Sheva che ogni notte dorme con le scarpe ai piedi per poter correre più in fretta nel rifugio insieme alla figlia se suonano le sirene. Non si parla della studentessa di Teheran che è costretta a scrivere l’esame finale su un taccuino, a lume di candela, perché la sua città è al buio.
In fondo, è questo il paradosso di chi fa politica internazionale guardando solo i confini e mai le persone: pretendere di costruire il futuro sulle macerie della vita quotidiana. Parlare di sicurezza globale ignorando l’insicurezza nella vita di ogni giorno. Eppure le crisi non si risolvono nei bunker dei generali, ma nelle case della gente. Nelle scuole, negli ospedali, nei cortili dove nonostante tutto c’è ancora chi gioca a pallone. Se c’è una lezione da trarre da questa guerra nell’ombra, è che nessuna nazione può vivere per sempre sotto l’ombra di una bomba atomica senza perdere qualcosa di sé. E che le vere “linee rosse” non sono quelle tracciate sui radar, ma quelle che attraversano i corpi e i cuori delle persone comuni. Sono le madri che non vogliono piangere più figli. Sono gli studenti che reclamano un futuro. Sono i contadini che desiderano solo acqua e pace.
E allora forse la domanda da farsi non è chi abbia vinto questa guerra silenziosa.
Ma chi abbia saputo preservare la propria umanità, nonostante tutto.
Le potenze regionali: il Medio Oriente come scacchiera
In Medio Oriente ogni conflitto locale ha almeno tre livelli di lettura: quello dichiarato, quello occulto e quello simbolico. Nulla accade veramente in isolamento. Ogni mossa militare è anche la mossa sulla scacchiera più grande, dove un altro attore tira i fili. Ogni crisi umanitaria riflette anche lo scontro sotterraneo per il controllo di risorse, rotte commerciali, sfere d’influenza. Se i protagonisti ufficiali delle cronache oggi sono Israele, l’Iran, i palestinesi, il resto della regione non resta certo a guardare. Anzi. Le potenze regionali si muovono con l’abilità dei funamboli: a volte compaiono in primo piano, altre restano dietro le quinte, altre ancora indossano maschere diverse a seconda della convenienza.
La Turchia di Erdoğan è uno degli attori più ambigui. Da un lato sostiene a parole la causa palestinese – condannando Israele in pubblico alle Nazioni Unite – dall’altro mantiene solidi rapporti commerciali e militari proprio con Tel Aviv. In Siria, Ankara ha combattuto sia contro il regime di Assad sia contro i curdi, a seconda di quale minaccia reputasse maggiore per i suoi interessi. La sua visione neo-ottomana del mondo la spinge a proporsi come potenza mediatrice ed equilibratrice, ma spesso agisce piuttosto da potenza di pressione. Ha accolto sul proprio territorio milioni di profughi siriani in fuga dalla guerra, ma non ha esitato a usare la loro disperazione come leva geopolitica nei confronti dell’Europa, minacciando di “aprire i cancelli” e lasciarli proseguire verso ovest. Intanto la popolazione turca, stremata da una grave crisi economica, si divide: c’è chi invoca stabilità a ogni costo, e chi invece accusa il governo di usare il Medio Oriente come un teatro dove fingere una forza imperiale che non esiste più.
L’Arabia Saudita, invece, gioca una partita più silenziosa ma non meno incisiva. Per anni ha finanziato la diffusione dell’estremismo sunnita attraverso reti di madrase e predicatori fondamentalisti in mezzo mondo, ma oggi cerca di mostrarsi sotto una luce diversa: quella di partner della modernizzazione, investendo in tecnologia, sport, green economy. Dopo gli accordi di disgelo con Israele promossi dall’amministrazione Trump (che avevano portato agli Accordi di Abramo del 2020), Riyad sembrava persino pronta a ufficializzare le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Poi è arrivato il 7 ottobre 2023, e la strada si è fatta di nuovo tortuosa. Mentre i leader sauditi condannano pubblicamente le stragi di civili a Gaza, in privato continuano a tessere dialoghi con Israele per non perdere il treno della supremazia regionale. L’élite al potere in Arabia Saudita sa bene che la vera sfida non è soltanto con l’Iran o con Israele, ma con la propria immagine: quella di uno Stato ricchissimo che teme l’instabilità tanto quanto l’arretratezza interna.
E l’Egitto? Bloccato a metà fra la gloriosa eredità panaraba di Nasser e l’autoritarismo pragmatico di al-Sisi, il Cairo è il classico mediatore senza reale autonomia. Controlla il valico di Rafah, l’unica via di uscita per i civili di Gaza, ma spesso – per pressioni esterne o calcolo interno – lo tiene chiuso, intrappolando i palestinesi nella loro prigione. Fa da intermediario nei negoziati tra Hamas e Israele (ad esempio per lo scambio di prigionieri o le tregue umanitarie), ma lo fa quasi sempre sotto dettatura di Washington e di Bruxelles. Nel frattempo il popolo egiziano vive una crisi economica devastante: l’inflazione galoppa, la moneta crolla, mancano pane e lavoro. Sempre più spesso esplodono proteste di piazza contro la corruzione e il carovita, ma il regime le reprime con pugno di ferro. E così persino il confine con Gaza – che potrebbe essere una valvola di sfogo e solidarietà – diventa invece una linea di contenimento della dignità: da un lato una catastrofe umanitaria, dall’altro un governo che teme che quella stessa disperazione sia contagiosa.
Il Qatar gioca la carta del mediatore dai molti volti. Nella capitale Doha ospita il quartier generale politico di Hamas (cosa che gli vale le accuse di fiancheggiare il terrorismo da parte dei suoi vicini), però allo stesso tempo mantiene ottimi rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa. Si propone come attore umanitario finanziando ospedali e progetti di ricostruzione a Gaza e altrove, ma intanto difende i propri interessi nel settore energetico con pugno duro. Dietro l’immagine patinata da “Davos del deserto” – fatta di conferenze internazionali e grandi eventi sportivi come i Mondiali di calcio – il Qatar conduce una diplomazia parallela, segreta, fatta di tavoli informali, pressioni discrete, valigie di milioni di dollari che all’occorrenza cambiano il corso delle alleanze.
Infine c’è la Siria, un Paese ancora in macerie, ridotto a terreno di scontro permanente tra potenze esterne. Dal 2011 la Siria è il tragico esempio di come il Medio Oriente possa diventare una ferita aperta nel cuore del mondo. La guerra civile siriana è divenuta negli anni un conflitto internazionale: il regime di Assad è sopravvissuto soprattutto grazie all’intervento di Russia e Iran; nel nord, la Turchia occupa strisce di territorio per tenere lontani i curdi; a est e a sud, truppe americane e milizie varie controllano le zone petrolifere e contengono i residui dell’ISIS. Intanto la popolazione sopravvive a stento. A Raqqa i bambini giocano tra le rovine lasciate dallo Stato Islamico, imparando a memoria dove non mettere i piedi per non saltare sulle mine. A Idlib centinaia di migliaia di sfollati vivono sotto le tende, con la paura costante delle bombe che ogni tanto piovono ancora. Eppure, anche lì, le comunità si riorganizzano ogni giorno. Nelle scuole improvvisate sotto terra, nei mercati clandestini, nei campetti di calcio disegnati col gesso su un cemento sbrecciato, la vita continua. Nonostante tutto, si vive. Nonostante tutto, si resiste.
In questo scenario di giochi incrociati, l’umano rischia di sparire. Le mappe geopolitiche colorano le zone d’influenza ma cancellano i volti. Parlano di sunniti, sciiti, moderati, estremisti, ma non raccontano dei tassisti, dei pescatori, delle infermiere, dei maestri di scuola. Non raccontano gli incontri clandestini tra giovani attivisti siriani e palestinesi, che pure avvengono scambiandosi esperienze di resistenza. Non raccontano i comitati di madri che, nei campi profughi, cucinano insieme ogni venerdì per tutte le famiglie – indipendentemente dalla fede, dalla fazione, dall’etnia.
La scacchiera è grande, ma le pedine non sono tutte uguali. Alcune, semplicemente, non hanno mai chiesto di giocare. Sono i civili di ogni paese del Medio Oriente, usati come messaggi da recapitare o come ostaggi di strategie che non hanno mai potuto influenzare. Eppure sono proprio loro la parte più resistente del sistema. Quella che tiene insieme le città quando tutto crolla. Quella che ricostruisce con le proprie mani, che inventa nuove forme di convivenza, che sfida le identità imposte con la sola forza del continuare a vivere. E se un giorno le mappe di questa regione cambieranno davvero, non sarà per un trattato firmato in una capitale lontana. Sarà perché quelle voci oggi sommerse diventeranno un’onda. Sarà perché il dolore, a un certo punto, avrà superato la paura.
Le potenze globali: interessi lontani, conseguenze vicine
A migliaia di chilometri dal deserto del Negev, in una sala climatizzata di Washington, un governo approva un nuovo pacchetto di aiuti militari. A Londra, in una conferenza stampa, si riafferma il “diritto all’autodifesa” di un alleato storico. A Mosca, tra un tavolo negoziale e l’altro, si calcolano i vantaggi indiretti di una guerra altrui. E a Pechino, nelle stanze ovattate del potere, si osserva con interesse ogni crepa dell’egemonia americana. Così funziona la geopolitica globale: si parla di strategie tra potenti, ma si agisce sulla pelle di altri popoli.
Le grandi potenze mondiali hanno sempre guardato al Medio Oriente come a una scacchiera di religioni ed energie da muovere a proprio vantaggio. Dietro ogni alleanza stretta o ogni veto posto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dietro ogni raid “tollerato” o rifornimento di armi, ci sono scuole distrutte, ospedali al collasso, famiglie sfollate. I conflitti locali diventano messaggi planetari, ma il prezzo lo pagano sempre i più vicini all’esplosione. E i più poveri.
Gli Stati Uniti, che amano definirsi “guardiani della libertà”, restano il garante militare e diplomatico principale di Israele in regione. Le loro basi militari costellano il Medio Oriente dal Golfo Persico al Mediterraneo. I cargo con armamenti made in USA arrivano puntuali ogni settimana. E quando Israele bombarda, la Casa Bianca raramente condanna apertamente. Gli interessi in gioco per Washington sono molteplici: contenere l’influenza iraniana, assicurarsi il controllo del corridoio energetico del Mediterraneo orientale, sostenere la propria industria bellica che da quei conflitti trae profitti enormi. Ma la retorica della democrazia e dei diritti umani suona terribilmente vuota quando, a Khan Younis, un bambino muore sotto le bombe per la settima notte consecutiva e su quei missili c’è scritto “Made in USA”.
E non è certo la prima volta che le scelte geopolitiche americane generano mostri. Negli anni ’80, per contenere l’influenza sovietica in Afghanistan, fu proprio la CIA a finanziare e armare i mujaheddin. Tra questi, anche un giovane saudita destinato a diventare il nemico pubblico numero uno: Osama Bin Laden. Un’alleanza temporanea, costruita sull’opportunismo, che ha lasciato in eredità una delle ombre più lunghe della storia recente.
Anche l’Europa, seppur con più timidezza, è presente nella partita. Francia, Germania e Regno Unito tentano di mantenere un equilibrio: a parole evocano i diritti umani, ospitano summit di pace, inviano aiuti umanitari; nei fatti, però, stringono accordi di difesa e vendono armi a governi autoritari della regione. Il linguaggio ufficiale è quello dei valori, ma quello ufficioso è la lingua degli affari – droni, petrolio, gas, commesse miliardarie. Così i proclami europei spesso si schiantano contro la realtà: i reportage dai campi profughi al gelo, le ambulanze bloccate ai check-point, i giornalisti uccisi con precisione chirurgica nonostante le loro pettorine con la scritta “Press”.
La Russia, dal canto suo, ha consolidato la propria presenza nella regione intervenendo con forza nella guerra siriana, dove non si è limitata a fornire armi e addestramento: ha bombardato con i suoi aerei, combattuto con i suoi soldati, sostenuto attivamente il regime di Assad nella repressione della rivolta. Mosca ha impiegato il proprio potere di veto all’ONU per proteggere Damasco dalle risoluzioni internazionali, rendendosi il tutore armato di una delle dittature più sanguinose del secolo. L’obiettivo del Cremlino è chiaro: mostrare che l’Occidente non è l’unico regista possibile in Medio Oriente. Ma la Russia non interviene certo per fermare i massacri: li usa come moneta di scambio diplomatica. Nelle sue televisioni di Stato, le sofferenze di Gaza vengono raccontate non per compassione verso i palestinesi, ma per accusare l’ipocrisia dell’America. Tutto è calcolo, nulla è empatia.
La Cina si muove in silenzio, con la pazienza di una dinastia millenaria. Pechino investe in porti, firmando accordi infrastrutturali in Iran, in Egitto, in Arabia Saudita; porta le sue tecnologie di sorveglianza digitale dove può; vende droni a buon mercato senza troppe domande. Non interviene mai direttamente nei conflitti – per ora – ma tesse relazioni economiche che un domani potrebbero permetterle di proporsi come mediatrice globale super partes. Intanto importa petrolio, esporta telecamere e riconoscimento facciale, resta ufficialmente “neutrale” nelle dichiarazioni, ma spietata nella logica: ogni crisi è un’opportunità di espansione d’influenza mentre gli altri si logorano a vicenda.
Eppure, nessuno di questi attori internazionali si ferma davvero a guardare. A sentire. A vivere ciò che accade a chi in Medio Oriente ci abita, lo ama, lo teme. In un sobborgo di Beirut, ad esempio, una madre libanese riceve la notizia che il figlio – giovane soldato – è morto in uno scontro a fuoco tra Hezbollah e truppe israeliane al confine. Non l’aveva mandato lei a combattere. Aveva solo sperato per lui in un lavoro. In una cittadina israeliana, una ragazza ultraortodossa viene arrestata perché si è rifiutata di fare il servizio militare. Ha vent’anni e un principio semplice: non si può difendere la fede uccidendo altri figli di Dio. Alle porte di Gaza, in una baraccopoli improvvisata, un anziano palestinese disegna a memoria la piantina della casa che gli hanno distrutto con le bombe. Accanto, il nipotino cerca di ricostruirla con il fango e le mani.
Queste storie non entrano nei dossier segreti delle intelligence. Non pesano nei summit diplomatici. Eppure sono la realtà più resistente, quella che ostinatamente continua a vivere. Mentre le grandi potenze osservano le crisi in Medio Oriente come occasioni per regolare conti globali o consolidare la propria posizione, qui – tra Gaza e Gerusalemme, tra Beirut e Teheran – ogni singola notte è una lotta contro la fame, contro il freddo, contro la disperazione. La domanda che la gente si fa non è “chi ha ragione?”. È: “domani saremo ancora vivi?”.
L’“internazionalizzazione” dei conflitti, che nella logica dei potenti dovrebbe garantire equilibrio e ordine, nella vita dei popoli significa solo moltiplicare la violenza. Ogni nuova mano che si aggiunge sul campo non porta la pace: porta armi, porta interessi, porta un’altra bandiera a cui giurare fedeltà. E così, tra dichiarazioni in inglese forbito e strette di mano tra uomini in giacca e cravatta, si spegne la voce di chi dovrebbe contare di più. Quella degli umani. Dei vivi. Dei sopravvissuti.
Ma quella voce non tace per sempre. La si sente nei canti funebri trasformati in cori di protesta. Nei graffiti sui muri di Gerusalemme e Hebron. Nei flash mob pacifisti organizzati a Ramallah. Nelle lettere dei soldati che rifiutano di sparare. Nei racconti che viaggiano su Telegram tra donne iraniane e ragazze egiziane che pure non si sono mai incontrate, ma si chiamano “sorella” l’un l’altra.
Perché se è vero che il Medio Oriente ha visto nascere gruppi armati, lotte feroci, derive ideologiche violente, è altrettanto vero che la maggioranza della sua gente non impugna fucili: lavora, cresce figli, sogna un tetto e un futuro. Ed è proprio questa umanità a subire le conseguenze delle scelte e della violenza di tutti gli attori in campo — siano essi governi, milizie, potenze estere o interessi geopolitici. È il convitato di pietra di ogni trattativa, di ogni veto, di ogni bomba sganciata.
Nel mondo dei potenti il Medio Oriente è solo una leva. Per chi lo abita, è casa. E non c’è casa che non meriti la pace.
Le voci dal basso
C’è un Medio Oriente che non fa i titoli dei telegiornali. Che non lanciamissili né firma trattati di pace a Camp David. Che non traccia confini nei comunicati stampa delle cancellerie. È un Medio Oriente fatto di madri, infermieri, studenti, contadini, poetesse, imbianchini, suore, imam, rabbini, camionisti. È il Medio Oriente che resiste. Non con le armi, ma con la vita.
A Gaza, mentre piovono le bombe, centinaia di insegnanti continuano a fare lezione nei tunnel sotterranei, con le torce puntate sui volti dei bambini seduti per terra. A Jenin, un gruppo di ragazzi ha trasformato un furgoncino in una biblioteca mobile che attraversa i checkpoint con la scusa di distribuire verdure: sotto le casse di melanzane sono nascosti libri di poesia e romanzi, perché anche leggere è resistenza. A Hebron, un medico palestinese opera di nascosto anche i bambini israeliani feriti negli scontri al confine. “Non esistono figli del nemico,” dice. “Esistono solo figli che devono crescere.”
Ma la voce della resistenza civile si alza anche contro i soprusi interni, non solo contro quelli imposti da fuori. Tra luglio e agosto del 2023, migliaia di gazawi — molti giovani — hanno sfidato Hamas con una protesta storica, chiedendo non soltanto pane, energia elettrica e acqua, ma diritti, trasparenza e libertà. Hamas governa la Striscia dal 2007: allora prese il potere con un colpo di forza, per poi vincere – in seguito – le elezioni legislative, ma da quasi vent’anni non ci sono più state elezioni, il potere è diventato ereditario, e la corruzione è dilagante. Le manifestazioni, accompagnate dallo slogan “We want to live” («Vogliamo vivere»), furono represse con durezza: arresti, pestaggi, uso della forza, telefonini sottratti ai giornalisti, almeno un manifestante ucciso. Hamas usa sistematicamente la violenza anche contro il proprio popolo, per soffocare il dissenso. Qualche settimana dopo, con l’attacco del 7 ottobre, lo stesso movimento ha compiuto un salto di scala: c’è chi sostiene che quell’offensiva sia stata anche dettata dal desiderio di ricompattare il consenso interno, soffocare l’opposizione e rialzare la bandiera dell’odio.
Anche in Israele ci sono voci che rompono il coro. Rabbini progressisti che denunciano le discriminazioni sistemiche verso i palestinesi – quella che alcuni definiscono “apartheid strisciante”, cioè un insieme di leggi e pratiche che, pur senza dichiararla apertamente, creano una separazione profonda tra cittadini e non cittadini, tra ebrei e arabi, tra chi può e chi non può. E poi ci sono gruppi di madri israeliane e palestinesi che si incontrano clandestinamente, in case anonime, per piangere insieme i figli uccisi e tenere viva la memoria dei loro nomi. Ex soldati che scrivono libri-testimonianza per denunciare gli abusi commessi a Gaza e in Cisgiordania. Giovani ortodossi che accettano di farsi arrestare pur di non prestare servizio nell’esercito di uno Stato che, dicono, “ha dimenticato la compassione della Torah”.
In Iran, dove l’oppressione si è fatta legge, sono le donne a ribellarsi in modo disarmato ma potentissimo. Lo fanno tagliandosi i capelli in pubblico, danzando per strada anche se è vietato, disobbedendo con la bellezza e il coraggio. In Siria, dove il dolore ha sbriciolato ogni cosa, resistono comitati spontanei che costruiscono scuole sotto le tende, che organizzano turni per distribuire il pane, che fotografano gli orrori per mandarli al mondo – anche quando il mondo sembra voler guardare altrove.
In Libano, nella valle della Beqāʿ, donne cristiane e musulmane lavorano insieme nei campi di patate, condividendo l’acqua dei pozzi e scambiandosi i semi migliori, come facevano le loro nonne prima che la guerra civile le dividesse. In Egitto, una rete clandestina di giornalisti indipendenti documenta le violazioni dei diritti umani e le traduce in cinque lingue diverse per farle conoscere al mondo. A Baghdad, tra gli echi dell’occupazione americana (finita nel 2021), c’è una radio comunitaria che trasmette storie di convivenza e speranza 24 ore su 24, raccogliendo le telefonate degli ascoltatori che raccontano gesti di solidarietà quotidiana.
E poi ci sono i ponti invisibili. Quelli che si costruiscono via Internet, via voce, via cuore. Giovani palestinesi che scrivono e-mail a coetanei ebrei americani per spiegare la loro causa oltre la propaganda. Attivisti iraniani che si confrontano online con dissidenti sauditi, accomunati dal desiderio di libertà contro regimi opposti. Studenti israeliani che imparano l’arabo non per interrogare sospetti ai posti di blocco, ma per poter ascoltare davvero chi sta dall’altra parte del muro. Gente comune che dice basta. Che si oppone all’odio ereditato. Che non vuole essere ingranaggio di nessun impero, né vittima silenziosa del potere che indossa la propria stessa bandiera.
Le voci dal basso non fanno rumore negli studi televisivi. Non hanno carri armati, non hanno miliardi di dollari, non controllano network o satelliti. Ma hanno le parole. E le parole, a volte, riescono dove gli eserciti falliscono.
Parlano di fratellanza senza confini. Di ferite che non chiedono vendetta ma giustizia e memoria. Di dignità che non ha passaporto. Di libertà che non si può “esportare” con le bombe ma costruire solo dal basso.
Sono storie scomode, che pochi vogliono ascoltare, perché tolgono certezze. Perché infrangono la narrazione binaria del bene contro il male. Perché ricordano che non esistono popoli malvagi per natura, ma solo popoli feriti, manipolati, traditi. E che la resistenza più difficile è quella contro la violenza, da qualunque parte arrivi.
Eppure sono loro, queste voci umili del popolo, che pian piano cambiano la Storia. Non subito. Non ovunque. Ma giorno dopo giorno, con ogni atto di disobbedienza civile, con ogni abbraccio impossibile, con ogni bambino che viene al mondo nonostante le bombe. Il Medio Oriente brucia, ma nel suo fuoco non c’è solo distruzione. C’è anche una fiamma che illumina, che indica un’altra via. La via di popoli che, pur stritolati da potenze cieche, milizie fanatiche e governi autoritari, continuano a scegliersi come simili, non come nemici.
Orientarsi nel caos: un atto di umanità
Il Medio Oriente non è soltanto un luogo sulle mappe: è anche uno specchio. Ci specchiamo nelle sue guerre e vediamo riflesse le tensioni del nostro tempo, le cicatrici della storia, le ipocrisie della politica globale. Ma possiamo scegliere come guardare quello specchio. Siamo cresciuti con narrazioni semplici, tagliate con l’accetta: da una parte il bene, dall’altra il male. Da un lato l’Occidente “razionale”, dall’altro l’Oriente “fanatico”. Da una parte le democrazie, dall’altra i “regimi” e le “milizie”. Ogni parola così netta e comoda è in realtà una porta chiusa alla comprensione. E ogni porta chiusa è un’occasione persa per costruire la pace.
In questo dossier abbiamo attraversato un secolo di storia: confini tracciati col righello, rivolte dimenticate, guerre combattute per procura, crisi umanitarie ignorate, ma anche resistenze nate senza eserciti e capaci di costruire scuole, ospedali, perfino canzoni sotto le bombe. Abbiamo guardato in faccia non le bandiere, ma le persone. Quelle che continuano a vivere, curare, insegnare, scrivere, piangere e lottare senza odio.
Ecco perché comprendere il Medio Oriente oggi non è solo un esercizio geopolitico: è un atto di responsabilità e di solidarietà. Ogni semplificazione alimenta il fuoco. Ogni tifo cieco rende complici. Ogni silenzio su chi resiste diventa un’altra forma di violenza. L’informazione non è mai neutrale, ma può provare a essere giusta. Può smettere di raccontare il mondo solo attraverso carri armati, leader e missili, e cominciare a raccontarlo con la voce dei popoli: delle donne che non si coprono il capo per protesta, degli uomini che rifiutano il fucile, dei bambini che disegnano la pace sui muri distrutti.
Eywa nasce per questo: per ridare senso alle notizie, per rimettere al centro ciò che conta davvero. Per aiutare ciascuno di noi a orientarsi nel caos senza perdersi nel tifo da stadio.
Perché in fondo, scegliere di capire — davvero — è la forma più alta di solidarietà. E forse l’unica via possibile per costruire un futuro in cui la terra non sia più contesa, ma condivisa.
Fonti:
OCHA, Occupied Palestinian Territory: Humanitarian Needs Overview, United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, 2024.
UNRWA, Chi siamo e dati su rifugiati palestinesi, United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees, unrwa.org
HRW, Israel and Palestine: Events of 2023, Human Rights Watch, hrw.org
HRW, A Threshold Crossed: Israeli Authorities and the Crimes of Apartheid and Persecution, Human Rights Watch, 2021.
AI, Israel’s apartheid against Palestinians: Cruel system of domination and crime against humanity, Amnesty International, 2022.
AI, Israel and Occupied Palestinian Territories 2023, Amnesty International, 2024.
BBC, Sykes-Picot: The lines in the sand that remade the Middle East, BBC News, 16 maggio 2016.
Al Jazeera, Timeline: US involvement in Afghanistan, 15 agosto 2021, aljazeera.com
The Guardian, How the CIA helped the military overthrow Iran’s democracy in 1953, 19 agosto 2013.
The New York Times, The Secret CIA Files on the Iran Coup, agosto 2013.
Middle East Research and Information Project, Chi siamo e articoli d’archivio, merip.org
Brookings Institution, What’s next for Gaza and the West Bank?, 2024, brookings.edu
Freedom House, Freedom in the World 2024 – Middle East & North Africa, freedomhouse.org
International Crisis Group, Schede e rapporti su Israel/Palestine, crisisgroup.org
CPI, Applications for arrest warrants in the situation in the State of Palestine, International Criminal Court, 20 maggio 2024.
Robert Fisk, The Great War for Civilisation: The Conquest of the Middle East, Harper Perennial, 2006.
Noam Chomsky e Ilan Pappé, On Palestine, Haymarket Books, 2015.