I dazi: la lunga tensione commerciale tra USA e UE

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C’era un tempo in cui il commercio tra Stati Uniti e Unione Europea scorreva relativamente fluido, segnando una delle relazioni economiche più solide al mondo. Ma dal 2018, anno in cui Donald Trump impose dazi su acciaio e alluminio stranieri, le dinamiche transatlantiche sono cambiate radicalmente.

L’allora presidente motivò la scelta con la necessità di tutelare la sicurezza nazionale e difendere l’industria americana, ma la decisione colpì anche i partner storici come l’Ue, scatenando un’immediata reazione di Bruxelles. L’Unione rispose con misure ritorsive per un valore di 2,8 miliardi di euro, mirate a prodotti simbolici del made in USA, dai jeans al bourbon. Un confronto che da simbolico è diventato strutturale, aprendo una stagione di tensioni commerciali mai del tutto sopite. E oggi, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca e l’annuncio, il 2 aprile 2025, di nuove tariffe generalizzate del 20% su tutte le importazioni dall’Unione Europea, la temperatura è tornata a salire.

La misura, battezzata “Liberation Day”, è stata presentata come una necessaria correzione degli squilibri, un colpo di spugna su anni di presunte ingiustizie commerciali. E non si ferma qui: la Cina è stata colpita da dazi al 34%, le auto estere al 25%, il Regno Unito al 10%. In poche ore, le nuove tariffe hanno fatto il giro del mondo, scatenando preoccupazione nei mercati e nelle cancellerie. Ma al di là degli annunci, resta il nodo della disinformazione. Quando Trump parla di un presunto 39% di dazi imposti dall’Ue sui beni americani, omette che si tratta di un calcolo arbitrario, ottenuto prendendo il disavanzo commerciale (236 miliardi di dollari nel 2024), rapportandolo al totale delle importazioni e poi dividendo il risultato per due. Una forzatura che non ha nulla a che vedere con la realtà delle tariffe doganali, che secondo la Commissione europea si aggirano in media intorno all’1% su entrambi i lati dell’Atlantico.

A rendere ancora più fragili le sue argomentazioni, l’esclusione totale dei servizi dal calcolo del disavanzo, una voce fondamentale negli scambi tra Usa e Ue. Non meno controversa è la polemica sull’Iva, che Trump definisce un dazio mascherato. In realtà, l’Imposta sul valore aggiunto, proprio come la sales tax americana, si applica indifferentemente a prodotti nazionali e importati. Non c’è alcuna discriminazione né intento protezionista. Anzi, togliere l’Iva sui beni stranieri significherebbe avvantaggiarli artificialmente rispetto a quelli locali, creando una sorta di sussidio alle importazioni.

La Commissione europea, con Ursula von der Leyen in prima linea, ha già annunciato che risponderà con misure proporzionate, ma ha anche lasciato aperto uno spiraglio al dialogo. Perché nessuno, nemmeno in tempi di slogan e muscoli, vuole davvero una guerra commerciale. Intanto, però, i primi effetti si fanno sentire. In Spagna, i produttori di vino iniziano a perdere ordini dagli Stati Uniti. Il settore automobilistico, quello della moda e del lusso osservano con crescente preoccupazione.

In gioco non c’è solo un rimpallo di tariffe, ma una posta economica gigantesca. E il timore, concreto, è che gli attriti si traducano in una spirale di danni per tutti. A ricordarlo è l’economia stessa, che insegna da sempre una verità semplice ma ignorata nei comizi: nelle guerre commerciali non ci sono vincitori, solo perdite difficili da recuperare.