- martedì 08 Luglio 2025
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Etichette “a impatto zero”: come riconoscere il greenwashing (anche dopo le nuove leggi UE)

È facile lasciarsi convincere da una confezione ben disegnata. Una grafica pulita, una fogliolina verde accanto a un claim rassicurante: “a impatto zero”. Oppure “prodotto sostenibile”, “amico del clima”. Lo leggiamo, e abbassiamo la guardia. Ma oggi, nel 2025, possiamo davvero fidarci di queste diciture?

La risposta, purtroppo, non è ancora un sì pieno. Nonostante l’entrata in vigore della Green Claims Directive e l’approvazione del Carbon Removal Certification Framework da parte dell’Unione Europea, le zone d’ombra non sono scomparse. Si sono solo fatte più sofisticate.

Oggi non basta scrivere “a impatto zero” su un prodotto per essere dalla parte giusta della storia. Serve poterlo dimostrare. Ma molte aziende, nonostante la nuova normativa, continuano a comunicare messaggi ecologici vaghi, imprecisi o del tutto infondati. E se il consumatore non è attrezzato per riconoscerli, il rischio di essere ingannati rimane altissimo.

Il caso dei biscotti “a impatto zero”

Prendiamo un esempio concreto. Una nota marca di biscotti da supermercato si presenta con un bollino verde e la scritta “a impatto zero”. In piccolo, una frase spiega che le emissioni legate alla produzione sono state compensate piantando alberi. Ma se provi a cercare ulteriori informazioni sul sito ufficiale, scopri che non è indicato quale progetto ha ricevuto il finanziamento, né quale standard sia stato usato per calcolare l’impatto ambientale. Nessuna traccia di certificazione indipendente, nessun documento consultabile, nessun registro che mostri l’effettivo annullamento dei crediti acquistati.

È greenwashing? Sì. Perché la nuova direttiva UE richiede trasparenza, verificabilità e tracciabilità. Senza questi elementi, una dichiarazione ambientale è considerata ingannevole. Eppure, quel pacco di biscotti continua a vendere sostenibilità apparente, in attesa che i controlli facciano il loro corso.

La promessa “a impatto zero” non basta

Negli anni, molte aziende hanno usato i cosiddetti crediti di carbonio per proclamare la neutralità delle loro attività o dei loro prodotti. L’idea, in teoria, è semplice: se non riesco a ridurre tutte le mie emissioni, almeno finanzio progetti che le compensano altrove. Ma nella pratica, la storia si complica. Perché non tutti i crediti sono uguali, e non tutti i progetti compensano davvero.

Dopo lo scandalo Verra — l’ente certificatore travolto dalle inchieste internazionali sui crediti “fantasma” — sono emersi migliaia di esempi di certificazioni che non corrispondevano ad alcun beneficio reale per il clima. Progetti di riforestazione in zone già protette, calcoli gonfiati, assenza di controlli sul campo. E quei crediti sono finiti esattamente lì: sui bollini dei prodotti di largo consumo, trasformando il marketing ambientale in una gigantesca illusione.

Oggi, dopo l’introduzione, nel marzo 2023, dei Core  Core Carbon Principles [mettere il link esterno: CCP-Book-V1.1-FINAL-LowRes-15May24.pdf] (CCPs; Core Carbon Principles – Assessment Framework and Procedure, Integrity Council for the Voluntary Carbon Market, luglio 2023) e della nuova normativa europea, lo standard si sta alzando. Ma restano molte etichette ambigue in circolazione. Anche nel 2025, non è affatto difficile trovare un detersivo che si dichiara “a impatto zero” senza alcun riferimento al metodo di calcolo, né al tipo di compensazione effettuata. In alcuni casi, la compensazione è avvenuta una sola volta, anni fa, e da allora nessuna verifica è stata più pubblicata.

Dove si nasconde ancora l’inganno

Le aziende più trasparenti pubblicano un report di sostenibilità completo, indicano lo standard utilizzato (come PAS 2060, CarbonNeutral® o Gold Standard), specificano il periodo di riferimento e riportano il registro in cui i crediti sono stati ritirati — cioè annullati, in modo che non possano essere rivenduti né riutilizzati da altri. Alcune permettono persino di scaricare i documenti ufficiali.

Altre, però, si affidano a linguaggi vaghi. Parlano di “progetti ambientali” senza nominarli. Affermano di essere “a impatto zero” senza indicare il numero di crediti acquistati. Si fregiano di simboli grafici che imitano i veri sigilli di certificazione ma che, in realtà, non significano nulla.

In questi casi, anche oggi, l’etichetta è più ingannevole che informativa.

Un altro esempio? Alcune compagnie aeree permettono di aggiungere pochi centesimi al prezzo del biglietto per “compensare l’impatto ambientale del volo”. Ma raramente spiegano chi verifica il progetto selezionato, se i crediti sono stati ritirati in un registro pubblico, o se sono stati usati crediti economici e a bassa qualità, spesso provenienti da progetti già esistenti.

Come orientarsi, davvero

Non servono strumenti tecnici né lauree in ingegneria ambientale per tutelarsi. Serve allenare lo sguardo. Una dicitura come “prodotto sostenibile” non ha alcun valore se non è accompagnata da dati verificabili. Una dichiarazione di “a impatto zero” deve rimandare a un ente terzo, uno standard riconosciuto, un documento pubblico.

Oggi, chi vuole informarsi può farlo. I registri di ritiro dei crediti sono consultabili. I principali standard internazionali (PAS 2060, Gold Standard) spiegano chiaramente quali sono i requisiti per ottenere una certificazione. Il punto è che dev’essere l’azienda a offrirci queste informazioni spontaneamente. Se non lo fa, se ci costringe a cercarle altrove, probabilmente ha qualcosa da nascondere.

Il consumatore non è più solo

La buona notizia è che non siamo più soli. La nuova direttiva europea obbliga chi fa affermazioni ambientali a dimostrarle. E introduce il divieto esplicito di usare espressioni generiche come “rispettoso dell’ambiente” senza prove.

Ma fino a quando il sistema dei controlli non sarà pienamente attivo, resta a noi l’ultima parola. E oggi, più che mai, fare la spesa è anche un atto politico. Non per partito preso, ma perché ogni euro speso può alimentare un modello o scardinarlo. Può premiare la coerenza, o alimentare l’ambiguità.

E la prossima volta che ci troviamo con quel pacco “a impatto zero” tra le mani, forse non lo guarderemo più allo stesso modo.

LEGGI IL DOSSIER: IL GRANDE INGANNO DEL CARBONIO

Alice Salvatore
Alice Salvatore
Alice Salvatore, è una politica “scollocata”, il concetto di scollocamento è un atto di volontaria autodeterminazione. Significa abbandonare un lavoro sicuro e redditizio, per seguire le proprie aspirazioni e rimanere coerente e fedele al proprio spirito. Alice Salvatore si è dunque scollocata, rinunciando a posti di prestigio, profumatamente remunerati, per non piegare il capo a logiche contrarie al suo senso etico e alla sua coerenza. Con spirito indomito, Alice continua a fare divulgazione responsabile, con un consistente bagaglio esperienziale nel campo della politica, dell’ambiente, della salute, della società e dell’urbanistica. La nostra società sta cambiando, e, o cambia nella direzione giusta o la cultura occidentale arriverà presto al TIME OUT. Alice è linguista, specializzata in inglese e francese, ha fatto un PhD in Letterature comparate Euro-americane, e macina politica ed etica come respira.
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