Chi controlla i semi, controlla il cibo

Brevetti, multinazionali e biodiversità: perché la varietà alimentare sta scomparendo

Nel corso della storia, gli esseri umani hanno coltivato oltre 6.000 specie di piante commestibili. Oggi, l’80% delle calorie che consumiamo ogni giorno proviene da appena 12 colture. Di queste, quattro — grano, mais, riso e soia — dominano in modo assoluto.

A prima vista, potremmo pensare a una questione di efficienza agricola, di produttività. In realtà, dietro a questa semplificazione estrema dell’alimentazione globale si cela una trasformazione profonda e poco raccontata: quella del seme agricolo da bene comune a risorsa brevettata. Un cambiamento che ha conseguenze concrete sulla libertà degli agricoltori, sulla sovranità alimentare dei Paesi e sulla biodiversità da cui tutti, senza saperlo, dipendiamo.

Il seme non è più tuo

Un tempo, i contadini conservavano i semi del raccolto per l’anno successivo. Li scambiavano tra famiglie e villaggi, adattandoli stagione dopo stagione ai climi, ai suoli, alle esigenze alimentari locali. Quel gesto – selezionare e tramandare – era il fondamento dell’agricoltura. Oggi, in molte parti del mondo, quel gesto è diventato illegale o inefficace.

Questo accade per due motivi principali.

Il primo è legale: molte varietà moderne sono brevettate. Le grandi aziende sementiere — tra cui Bayer-Monsanto, Syngenta, Corteva e BASF — detengono diritti esclusivi su varietà vegetali sviluppate in laboratorio o tramite incroci mirati. Questi diritti impediscono ai coltivatori di riutilizzare liberamente il seme raccolto: l’agricoltore è costretto a riacquistarlo ogni stagione, o rischia sanzioni.

Una scena reale lo dimostra chiaramente: nel 1997, Percy Schmeiser, un agricoltore canadese, fu denunciato da Monsanto perché nel suo campo era cresciuta soia OGM brevettata, portata probabilmente dal vento o dai macchinari. Anche se non l’aveva piantata volontariamente, fu condannato: secondo la legge, il DNA della pianta era proprietà dell’azienda. Il messaggio era chiaro: anche se nasce nel tuo campo, non è tuo.

Il secondo è biologico: molte di queste sementi sono ibridi F1, ossia varietà che nella prima generazione garantiscono resa e uniformità, ma che, se riseminate, danno origine a piante deboli, imprevedibili, spesso improduttive. È una scelta tecnica, ma anche strategica: impedisce di fatto ogni forma di autosufficienza.

Negli ultimi trent’anni, il mercato delle sementi si è fortemente concentrato. Secondo dati FAO e GRAIN, oggi quelle quattro multinazionali controllano oltre il 60% del mercato mondiale dei semi commerciali. Spesso non vendono solo sementi, ma anche gli erbicidi e i fertilizzanti a cui queste piante sono “ottimizzate”. Il risultato è un modello integrato e chiuso: chi compra entra in un sistema da cui è difficile uscire.

A pagarne le conseguenze non sono solo gli agricoltori, ma l’intero sistema alimentare. Perché la standardizzazione agricola ha un prezzo nascosto: la perdita di biodiversità.

La biodiversità agricola sotto assedio

Ogni volta che una varietà locale viene abbandonata in favore di un seme brevettato e più “performante”, perdiamo qualcosa. Non solo una pianta: perdiamo resilienza, adattabilità, cultura. E perdiamo anche sicurezza.

La biodiversità agricola è la nostra assicurazione contro i cambiamenti climatici, le nuove malattie, le crisi alimentari. Ogni varietà vegetale contiene tratti genetici che potrebbero, un giorno, salvarci. Ma se coltiviamo ovunque le stesse piante — spesso cloni genetici — ci esponiamo a rischi enormi: basta una nuova malattia, una siccità improvvisa, per compromettere interi raccolti globali. L’epidemia di Fusarium TR4 che oggi minaccia la banana Cavendish ne è un esempio: tutte le piante sono geneticamente identiche, e quindi vulnerabili allo stesso patogeno.

Per contrastare la perdita di biodiversità, in tutto il mondo sono nate banche dei semi: strutture che raccolgono e conservano varietà vegetali in condizioni controllate. La più famosa si trova nelle isole Svalbard, al largo della Norvegia, ed è scavata nel permafrost per garantire una conservazione a lungo termine.

Ma le banche dei semi, per quanto fondamentali, non possono sostituire la coltivazione attiva. La biodiversità agricola è un processo dinamico: vive solo se viene seminata, curata, adattata ai cambiamenti ambientali. Non basta “congelare” i semi. Serve mantenerli in circolo, nelle mani di chi li coltiva davvero.

Esistono alternative?

Sì, esistono. In tutto il mondo, comunità agricole, associazioni e movimenti stanno lavorando per promuovere sistemi alternativi: reti di scambio di semi liberi da brevetti, banche comunitarie, selezione partecipativa delle varietà adattate ai territori.

Anche a livello europeo e nazionale, alcune iniziative pubbliche puntano a preservare e valorizzare le varietà locali, riconoscendo l’importanza delle conoscenze contadine e della libertà di coltivazione.

Anche come cittadini e consumatori abbiamo un ruolo importante. Le nostre scelte quotidiane contribuiscono a modellare il sistema alimentare, perché ogni acquisto è anche una presa di posizione. Sostenere chi coltiva in modo sostenibile, scegliere prodotti locali e di stagione, recuperare varietà tradizionali e chiedere trasparenza su ciò che portiamo in tavola: sono tutte azioni che, sommate, possono fare la differenza. Informarsi, condividere conoscenze, interrogarsi su ciò che oggi diamo per scontato — come la libertà di seminare — è un primo passo per cambiare prospettiva.

Perché non è solo una questione agricola, ma un tema che riguarda l’equilibrio tra innovazione, sostenibilità e diritti. Difendere la biodiversità e la libertà di coltivare significa difendere anche la possibilità di scegliere davvero cosa mangiamo, oggi e domani.

Fonti e approfondimenti:

FAO – Recognizing Farmers' Rights (2021)

Altreconomia – “I brevetti che soffocano l’innovazione”

Greenpeace & Arche Noah – No Patents on Seeds!

Civil Eats – How Seed Patents Threaten Small Seed Companies

GRAIN – Seed Laws Around the World