
Roma, Palazzo di Giustizia – L’imponente sede della Corte di Cassazione campeggia in piazza Cavour, simbolo di un sistema giudiziario solenne e antico. Da qui sono passate generazioni di magistrati, pubblici ministeri e giudici, uniti da una carriera comune. È proprio questo mondo, con le sue toghe rosse e nere, che la riforma della giustizia promossa dal governo di Giorgia Meloni si propone di rivoluzionare. Sin dal suo insediamento nel 2022, il nuovo esecutivo di centrodestra ha annunciato cambiamenti “epocali” nel settore giudiziario, toccando corde sensibili e aprendo un dibattito acceso nel paese. La posta in gioco non è da poco: separare le carriere dei magistrati, ridefinire gli organi di autogoverno della magistratura, modificare reati controversi come l’abuso d’ufficio, regolamentare le intercettazioni e rivedere le regole sulle misure cautelari. Il tutto con l’obiettivo dichiarato di rendere la giustizia più efficiente e garantista, ma con il rischio – secondo i critici – di minarne l’indipendenza e l’efficacia nella lotta alla corruzione.
Nella maggioranza ognuno riconosce in questa riforma una bandiera politica. Non a caso è sostenuta con particolare convinzione da Forza Italia, il partito fondato da Silvio Berlusconi, che la considera il “sogno berlusconiano” divenuto realtà. Fratelli d’Italia, il partito della premier Meloni, sventola la promessa del premierato (una riforma costituzionale separata per rafforzare i poteri del Primo Ministro), la Lega insiste sull’autonomia regionale; a Forza Italia spetta la giustizia. In questa divisione di compiti all’interno della coalizione, la riforma del ministro Carlo Nordio – ex magistrato con idee garantiste – rappresenta il pegno pagato agli alleati azzurri e alla loro storica battaglia contro quella che percepiscono come la deriva “giustizialista” del sistema. Non è un mistero, infatti, che già nel 2011 Berlusconi tentò una riforma simile definendola “epocale”, prima che il suo governo naufragasse. Oggi Meloni raccoglie quel testimone, determinata a portare a termine una riforma che molti hanno annunciato, ma nessuno è mai riuscito a realizzare.
Eppure, mentre nei comunicati ufficiali si parla di modernizzare il Paese, dietro le quinte il clima è tutt’altro che sereno. La riforma tocca nervi scoperti: magistrati sul piede di guerra, opposizioni che gridano all’attacco alla Costituzione, moniti preoccupati che arrivano perfino dall’Unione Europea. Ogni passaggio parlamentare accende il dibattito pubblico e perfino le tensioni personali – come quando, in un fuori onda divenuto virale, il presidente della Campania Vincenzo De Luca apostrofò la premier con un epiteto irripetibile, alimentando ulteriori polemiche. In questo racconto, guideremo il lettore attraverso i vari capitoli della riforma Meloni-Nordio: cosa prevede esattamente, chi sono i protagonisti e quali conseguenze potrebbero derivarne.
Le ragioni di una riforma attesa (e temuta)
Perché il governo Meloni ha deciso di mettere mano alla giustizia? Per capirlo bisogna partire da una constatazione: la giustizia italiana è da anni al centro di polemiche e scontri politici. Da un lato c’è chi denuncia la lentezza dei processi, l’incertezza delle pene e l’eccessiva invadenza delle procure nella vita pubblica; dall’altro c’è chi teme le interferenze della politica sulla magistratura e difende l’autonomia dei giudici come pilastro dello Stato di diritto. In campagna elettorale, la coalizione di centrodestra aveva promesso interventi netti su questi fronti. Giorgia Meloni, pur non avendo la giustizia come tema identitario del suo partito, aveva stretto un accordo chiaro con gli alleati: ognuno avrebbe portato avanti la propria riforma simbolo. Così, mentre lei stessa spingeva sul presidenzialismo (o premierato) e Matteo Salvini (Lega) sull’autonomia regionale, a Forza Italia andava il capitolo giustizia.
Silvio Berlusconi, scomparso nel giugno 2023 ma presente nello spirito politico della maggioranza, aveva sempre considerato la “giustizia giusta” una priorità. Le sue note vicende giudiziarie e il conflitto ultraventennale con parte della magistratura lo avevano portato a sognare una riforma che limitasse quello che definiva il “potere delle toghe”. Carlo Nordio, il ministro scelto per via Arenula (sede del Ministero della Giustizia), condivide alcune diagnosi: ex procuratore a Venezia, Nordio si è spesso espresso contro gli abusi del sistema giudiziario, dalle intercettazioni a tappeto usate per colpire persone poi risultate innocenti, all’uso politico delle inchieste. In un’intervista prima di entrare nel governo, Nordio dichiarò che per lui essere garantista significa «massima presunzione di innocenza ma anche certezza della pena»: due esigenze che spesso vengono percepite come opposte, ma che in realtà devono coesistere in uno Stato di diritto. Garantire un processo equo e allo stesso tempo far sì che, una volta accertata la colpevolezza, la pena venga davvero scontata: è questo l’equilibrio da costruire.
Dunque, la riforma Meloni-Nordio nasce con due anime: da un lato garantire più diritti e tutele agli indagati e ai cittadini, dall’altro rendere più efficaci i procedimenti assicurando che le pene vengano scontate davvero. Un obiettivo ambizioso, “una sfida imponente” come l’ha definita lo stesso Nordio. Ma come tradurla in pratica? Qui iniziano le decisioni controverse.
La maggioranza ha individuato alcuni interventi chiave:
1) separare le carriere di pubblici ministeri e giudici per avere magistrati più specializzati e (a loro dire) immuni da condizionamenti corporativi;
2) riformare il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) – l’organo di autogoverno delle toghe – per contrastare il peso delle “correnti” (le fazioni interne alla magistratura);
3) creare nuove regole disciplinari per i magistrati;
4) eliminare o modificare reati ritenuti problematici come l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze illecite;
5) limitare la diffusione pubblica delle intercettazioni e proteggere la privacy dei cittadini non indagati;
6) garantire un processo penale più equilibrato, ad esempio assicurando un contraddittorio prima di misure cautelari e limitando i casi di appello del PM contro assoluzioni.
Da questi punti si capisce che la riforma è in realtà un insieme di interventi, alcuni di rango costituzionale (che richiedono quindi un lungo iter e maggioranze qualificate), altri di legge ordinaria (già approvati o in via di approvazione). In pratica, il governo ha diviso la materia in due tronconi: una riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario e un disegno di legge ordinario – il cosiddetto “Ddl Nordio” – per la parte penale. Vediamo separatamente queste due grandi componenti, cercando poi di ricomporre il quadro complessivo.
Separare le carriere: due strade per magistrati e PM sin dall’inizio
La novità forse più discussa è la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. Attualmente in Italia chi vince il concorso in magistratura può, nel corso della vita professionale, passare da funzioni requirenti (il pubblico ministero, che conduce le indagini e sostiene l’accusa) a funzioni giudicanti (il giudice, che emette sentenze) e viceversa. Pur con qualche limite e con percorsi prestabiliti, esiste un’unica carriera: tutti appartengono allo stesso ordine e rispondono al medesimo organo di autogoverno (il CSM). Questa unicità fu pensata dai padri costituenti per garantire l’indipendenza: PM e giudici condividono uno status autonomo dagli altri poteri, e il PM – pur esercitando l’azione penale – è indipendente dal potere esecutivo (a differenza di quanto accade in altri Paesi dove l’accusa è gerarchicamente dipendente dal Ministero della Giustizia).
Secondo questa visione, mescolare i ruoli è fonte di confusioni e potenziali parzialità. Si teme che il PM e il giudice, essendo colleghi intercambiabili, possano sviluppare eccessiva contiguità culturale, o che le famose “correnti” della magistratura influenzino sia chi accusa sia chi giudica. Di contro, i sostenitori della separazione (tra cui molti esponenti di Forza Italia e della Lega) ritengono che costringere ogni magistrato a scegliere fin dall’inizio della carriera se fare il PM o il giudice porterebbe maggiore specializzazione e neutralità. In pratica, con la riforma ogni giovane magistrato dovrebbe optare per una delle due funzioni al momento del concorso, e una volta imboccata quella strada non potrebbe più cambiare casacca nel corso della vita lavorativa. Si creerebbero dunque due “albi” separati: da una parte i pubblici ministeri, dall’altra i giudici.
Questa è una modifica di portata storica. Per decenni, ogni tentativo di separare le carriere ha incontrato forti resistenze perché viene visto dai magistrati come un possibile primo passo per assoggettare il PM all’esecutivo (dato che, separandolo dal giudice, alcuni suggeriscono che andrebbe poi posto sotto il controllo del governo, sul modello di taluni sistemi esteri). Il governo Meloni, conscio di queste paure, insiste che la riforma non intaccherà in alcun modo l’indipendenza: Giorgia Meloni e il ministro Nordio hanno più volte ribadito che “la magistratura requirente è e resterà indipendente dal potere esecutivo”, sottolineando piuttosto l’intento di “attuare il principio accusatorio voluto da Vassalli” (ministro che disegnò il nuovo codice di procedura nel 1988) e di interrompere “la degenerazione correntizia” all’interno delle toghe (9). In altre parole, per il governo questa separazione serve a dare coerenza al sistema accusatorio (dove accusa e giudice hanno ruoli diversi e distinti) e a impedire che le correnti – gruppi associativi interni alla magistratura – influenzino carriere e decisioni.
Cosa cambierebbe concretamente per un giovane laureato in giurisprudenza che sogna di entrare in magistratura? Se oggi c’è un unico concorso e solo in seguito la scelta dell’ufficio, con la riforma ci sarebbero due concorsi separati, uno per la magistratura giudicante e uno per la requirente. Immaginiamo due porte: sulla prima c’è scritto “diventa Pubblico Ministero”, sulla seconda “diventa Giudice”. Una volta varcata una porta, l’altra si chiude per sempre. Questo significa anche che la formazione professionale diverrebbe differenziata: i PM si specializzerebbero in tecniche investigative, i giudici in gestione del processo e decisione imparziale. I percorsi di carriera, i trasferimenti, perfino la mentalità con cui si lavora potrebbero divergere. I proponenti sostengono che un PM puro sarà più efficace nel coordinare indagini complesse (pensiamo a inchieste su mafia o corruzione), mentre un giudice “solo giudice” sarà più terzo nel valutare le prove, non avendo condiviso prima la stessa prospettiva dell’accusa.
Ma non basta separare: occorre anche ripensare l’autogoverno di queste due nuove magistrature parallele. Attualmente il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), previsto dalla Costituzione, governa unitariamente tutti i magistrati (nomine, trasferimenti, promozioni, procedimenti disciplinari, ecc.). Con la riforma, in un colpo solo, il CSM verrebbe sdoppiato: ci sarebbe un CSM per i giudici e uno per i PM. Due CSM al posto di uno, ciascuno competente sulla “sua” carriera. Entrambi sarebbero presieduti dal Presidente della Repubblica (come avviene oggi con il CSM unico) e avrebbero tra i membri di diritto il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Cassazione – figure apicali rispettivamente della categoria giudicante e requirente.
Nascono due CSM (e arrivano i sorteggi)
Come sarebbero composti questi due nuovi Consigli Superiori? La riforma prevede di mantenerne la consistenza: 30 componenti ciascuno, di cui due terzi “togati” (cioè magistrati eletti dai magistrati stessi) e un terzo “laici” (cioè membri non magistrati, scelti dalla politica). Fin qui, nulla di troppo diverso dall’oggi, se non il fatto che i togati dell’uno sarebbero solo giudici e quelli dell’altro solo PM. La vera novità però sta nel metodo di selezione: non più elezioni, ma sorteggio. Sì, avete capito bene. Per arginare le polemiche sulle correnti (i gruppi organizzati di magistrati che si contendono i posti al CSM attraverso elezioni interne, spesso accusati di degenerare in lottizzazioni), la riforma propone di estrarre a sorte i membri del CSM. In un primo momento si era pensato addirittura a un sistema misto (sorteggio per i togati, nomina politica per i laici), ma il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – molto attento su questi temi – avrebbe fatto notare la disparità e il rischio di squilibrio. Così il testo uscito dal Consiglio dei Ministri prevede il sorteggio sia per i magistrati che per i membri laici, su elenchi di candidati qualificati.
Proviamo a visualizzarlo: immaginiamo un’urna con dentro i nomi di tutti i giudici che hanno i requisiti per entrare al CSM giudicante, e un’altra urna con i nomi dei PM per il CSM requirente. Allo stesso modo, un’urna con i nomi di professori di diritto e avvocati papabili per i posti laici. Si estraggono le palline e si compongono i Consigli. Addio campagna elettorale dentro la magistratura, addio “liste” appoggiate dalle correnti. L’intento dichiarato è avere organi di autogoverno più imparziali, in cui non pesino gli accordi tra correnti di magistrati e partiti politici . I fautori, come il vice-ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, parlano di “garanzia di imparzialità” data dal caso.
Questo meccanismo, che ha quasi il sapore di una rivoluzione settecentesca (pescare i magistrati come si faceva con i funzionari pubblici ai tempi della Serenissima!), — il riferimento è al sistema veneziano, dove molte cariche pubbliche, giudiziarie e amministrative, venivano assegnate per sorteggio da liste predefinite, con lo scopo di limitare le influenze personali — richiama, seppur con scopi diversi, anche alcune pratiche dell’antica Roma, dove i patrizi non sorteggiavano le nomine, ma in certi casi ricorrevano al sorteggio per assegnare incarichi dopo l’elezione. Un’idea che, per quanto affascinante nel richiamo storico, ha però sollevato parecchi interrogativi.
Anzitutto, basta il sorteggio a debellare le correnti? Molti dubitano. È noto che oltre il 90% dei magistrati italiani aderisce all’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) e spesso a una delle sue componenti culturali, le correnti appunto. Il semplice fatto di estrarre a sorte non garantisce che chi esce dall’urna ne sia immune: le correnti potrebbero semmai spostare la loro influenza a monte, nel condizionare chi finisce negli elenchi dei candidati o anche successivamente nelle decisioni collegiali. Come sintetizzato dal commentatore Giovanni Bianconi, “non basterà l’estrazione a sorte dei togati del CSM a garantire l’estromissione delle correnti, dal momento che oltre il 90% delle toghe è iscritta all’Associazione magistrati e molte continuano ad aderire alle correnti”. Il rischio è che “le correnti rientrino dalla finestra”, magari trovando modi nuovi di influire (per esempio indicando ufficiosamente chi mettere negli elenchi da sorteggiare).
C’è poi la questione dei membri laici sorteggiati: la riforma prevede che siano estratti da un elenco predisposto dal Parlamento in seduta comune. Ciò significa che la politica comunque metterebbe mano alla lista dei papabili (professori e avvocati illustri), influenzandone la composizione. Alcuni vedono in questo una anomalia: una volta tolta l’elezione, la nomina indiretta rimarrebbe nelle mani dei partiti che compilano gli elenchi. In pratica, il Parlamento potrebbe scegliere un insieme di nomi graditi alla maggioranza di turno e poi affidare al caso la scelta finale: un sorteggio, sì, ma su una rosa controllata dalla politica. È un equilibrio delicato, e non è detto che il Parlamento, durante l’iter di approvazione, non modifichi ulteriormente questo aspetto.
Un’Alta Corte disciplinare e lo “schiaffo” alle toghe
Un altro pilastro della riforma è la creazione di una Alta Corte per i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati. Oggi le questioni disciplinari (quando un magistrato è accusato di aver mancato ai propri doveri) sono gestite all’interno del CSM, in quella che viene chiamata “giustizia domestica”: in pratica i magistrati giudicano altri magistrati. Il governo Meloni intende invece sottrarre questa funzione ai nuovi CSM separati e attribuirla a un organo ad hoc, appunto un’Alta Corte disciplinare. Questa Alta Corte sarebbe composta da 15 membri, scelti in modo misto: 3 nominati dal Presidente della Repubblica, 3 sorteggiati da un elenco redatto dal Parlamento (ancora una volta ritorna la mano politica negli elenchi), 6 magistrati giudicanti e 3 requirenti estratti a sorte dalle rispettive categorie. Insomma, un mix di figure istituzionali, laici e togati, con mandato di 4 anni non rinnovabile. Le sue decisioni potrebbero essere impugnate di fronte a se stessa ma con diversa composizione, quasi a creare un sistema di appello interno.
Perché questa novità? La ratio, secondo i proponenti, è rendere più terzo e imparziale il giudizio sui magistrati che sbagliano, evitando corporativismi. Togliere al CSM il potere disciplinare servirebbe anche a far sì che i nuovi due CSM si occupino “solo” di carriere e amministrazione, senza il peso di dover giudicare colleghi (cosa che talvolta – dicono i critici – li ha resi indulgenti o al contrario severissimi a seconda dei casi). Tuttavia, l’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) ha vissuto questa previsione come uno “svuotamento” delle prerogative della magistratura, uno “schiaffo” simbolico: togliere ai magistrati persino il giudizio sui propri membri viene letto come un segnale di sfiducia e un ulteriore passo per ridurre l’autonomia. “Un altro strappo all’autogoverno”, destinato ad inasprire lo scontro con le toghe. Dal punto di vista dei magistrati, infatti, il messaggio è chiaro: “non siete capaci di punirvi da soli, ci pensiamo noi con un organo nuovo”. Questo alimenta la narrativa di una riforma dai tratti “punitivi” verso la categoria, accusa sempre respinta dal governo. Meloni stessa ha dichiarato di “non considerare i magistrati nemici” e di non capire perché la separazione delle carriere venga vista come una punizione (26). Eppure tra i magistrati il dubbio è forte e diffuso.
In sintesi, la parte ordinamentale della riforma – quella che cambia la Costituzione su carriere, CSM e disciplina – ridisegna profondamente i rapporti interni alla magistratura. Se approvata definitivamente, vedremmo nascere due magistrature distinte, con i loro organi di autogoverno separati e nuove regole del gioco. Si tratta, di fatto, di una “riforma della magistratura” più che della giustizia in senso lato, come ha sottolineato qualcuno: cioè riguarda l’architettura del potere giudiziario, non tocca direttamente il funzionamento dei processi o i diritti dei cittadini in tribunale. È un punto importante: le lungaggini processuali, l’arretrato civile, la difficoltà di ottenere sentenze in tempi ragionevoli – problemi quotidiani per gli italiani – non vengono affrontati da queste norme. Su questo concordano molti analisti, sia favorevoli che contrari alla riforma. In un certo senso, è una scelta di priorità: prima sistemare la “governance” della magistratura, poi (forse) intervenire sulla macchina processuale. Chi critica questa impostazione parla di occasione mancata per risolvere i problemi reali dei tribunali; chi la difende risponde che senza una magistratura rinnovata ed efficiente, nessuna riforma procedurale potrebbe funzionare davvero.
Abuso d’ufficio, intercettazioni e processi: le altre novità del “Ddl Nordio”
Accanto al cantiere costituzionale, il governo ha messo in campo un disegno di legge ordinario – già approvato definitivamente in Parlamento nel luglio 2024 – che interviene su vari fronti del diritto penale e processuale. Questo provvedimento, composto da otto articoli, viene chiamato colloquialmente “riforma Nordio” ed è diventato legge dopo un iter piuttosto rapido (Camera e Senato lo hanno approvato con la sola maggioranza di centrodestra, e qualche tensione interna superata). Vediamo i punti principali di questa legge, cercando di capire cosa cambia nella pratica.
- Abolizione del reato di abuso d’ufficio.
Il primo e più controverso punto è la cancellazione dall’ordinamento del reato di abuso d’ufficio (art. 323 del Codice Penale). Questo reato puniva il pubblico ufficiale (tipicamente un sindaco, un assessore, un dirigente pubblico) che, violando le leggi o esulando dalle proprie competenze, arrecava intenzionalmente un danno ingiusto a qualcuno o procurava a sé o ad altri un vantaggio indebito. Era una fattispecie introdotta per colpire la corruzione senza mazzette – quando non c’è scambio di denaro ma si piega la funzione pubblica a fini privati. Tuttavia, da anni l’abuso d’ufficio era al centro di forti polemiche: considerato troppo vago e troppo facile da contestare, ha portato a migliaia di indagini spesso finite in nulla. I numeri forniti dallo stesso Ministero della Giustizia sono eloquenti: nel 2021 a fronte di oltre 5.400 procedimenti per abuso d’ufficio, ci sono state solo 9 condanne in udienza preliminare e 18 condanne a dibattimento (a fronte di migliaia di archiviazioni). In pratica, quasi tutte le inchieste per abuso d’ufficio si concludevano con un’archiviazione o un’assoluzione, ma nel frattempo gli amministratori pubblici coinvolti restavano spesso paralizzati dalla paura di essere indagati. Molti sindaci si lamentavano di avere “le mani legate”, di rinunciare a firmare atti urbanistici o decisioni importanti per il timore di incappare in un avviso di garanzia per abuso d’ufficio.
Alla luce di ciò, il governo ha deciso di eliminare direttamente il reato. Dal momento dell’entrata in vigore della legge, l’articolo 323 c.p. è abrogato. Che effetti ha questa scelta? Secondo i proponenti, libera finalmente gli amministratori onesti da un incubo burocratico-giudiziario e consentirà ai sindaci di agire senza dover “mettere la firma con la mano tremante”. Le opposizioni e molti giuristi critici, invece, temono che si sia gettata via il bambino con l’acqua sporca: “Così si depenalizzano condotte illecite, dando un segnale di impunità”, hanno avvertito. In effetti alcuni scenari borderline potrebbero ora non costituire più reato. Facciamo un esempio: un sindaco che assegna appalti o permessi a un suo parente, violando le regole, prima rischiava l’abuso d’ufficio; ora quel comportamento, se non integra altri reati (come la corruzione esplicita), potrebbe restare impunito penalmente. Come si controlla il confine tra discrezionalità e abuso?
Va detto che, per attenuare le critiche, parallelamente all’abolizione l’esecutivo ha approvato un cosiddetto “decreto carceri” che reintroduce parziali sanzioni penali per gli illeciti patrimoniali dei pubblici ufficiali. In pratica è stato riesumato un vecchio reato chiamato “peculato per distrazione” (vigente prima del 1990), che punisce chi, disponendo di denaro pubblico per una certa finalità, lo destina altrove arrecando danno. Ad esempio, se un funzionario dirottasse fondi pubblici da un progetto a un altro contra legem(in contrasto con quanto previsto dalla legge), oggi potrebbe rispondere di questa nuova fattispecie (punita con la reclusione da 6 mesi a 3 anni). È una sorta di “mini-abuso d’ufficio” circoscritto agli aspetti finanziari. Ma rimane fuori tutto il resto: l’abuso d’ufficio classico, quello delle delibere illegittime ma non corruttive, non esiste più come reato penale. Sarà possibile magari contestarlo come illecito amministrativo o contabile, ma non più mandare a giudizio penale un amministratore per questo. Gli effetti saranno da valutare: c’è chi prevede un’ondata di archiviazioni immediate per i processi in corso (essendo il reato abolito, i procedimenti pendenti decadranno), altri invece temono un vuoto di tutela per la legalità nella P.A.
- Modifica del reato di traffico di influenze illecite.
Il secondo articolo del Ddl Nordio ha rivisto un altro reato controverso: il traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.). Anche questo era stato introdotto nel 2012 per punire le condotte di mediazione illecita verso un pubblico ufficiale in cambio di vantaggi: in pratica, colpire i faccendieri che, millantando o esercitando influenza su funzionari, si fanno pagare per orientarne le decisioni. Un reato “ponte” tra la corruzione e il millantato credito. La riforma restringe l’ambito di applicazione: d’ora in poi c’è traffico di influenze solo se la mediazione è finalizzata a far compiere un reato a un pubblico ufficiale. Viene eliminata l’ipotesi di mediazione per un atto lecito ma indebito (la cosiddetta millanteria), conservando solo le condotte più gravi. Allo stesso tempo però aumentano le pene per chi vi incorre: la reclusione minima passa da 1 anno e mezzo a 4 anni e mezzo (un balzo notevole, che rende il reato più temibile). In sintesi, meno casi punibili ma puniti più severamente.
L’idea di fondo è concentrare le energie giudiziarie sui veri trafficanti di tangenti e non su chi magari si vanta a vuoto di amicizie altolocate. Anche qui i numeri parlavano di pochi processi ma di difficile definizione. Resta comunque un reato delicato: critici come Transparency International (organizzazione non governativa che monitora la corruzione a livello globale) temono che restringerlo significhi indebolire l’arsenale anti-corruzione, considerando che molta corruzione si annida proprio in zone grigie di intermediazione. Dal lato opposto, esponenti garantisti notano che la vaghezza della norma precedente rischiava di punire anche condotte non realmente pericolose (come il lobbismo opaco ma non criminoso). In ogni caso, d’ora in avanti per configurare il traffico illecito bisognerà provare che il mediatore mirava a far commettere un reato al funzionario, non semplicemente a orientarlo. Ad esempio: se una persona riceve denaro per convincere un sindaco a violare la legge – per assegnare un appalto truccato o concedere un permesso abusivo – si configura chiaramente un reato.
Ma se invece il denaro viene versato solo per ottenere una “spinta” informale – una raccomandazione o una segnalazione a favore di un atto formalmente legittimo (come un’autorizzazione regolare o una nomina possibile), allora quel comportamento potrebbe non essere più punibile secondo l’interpretazione restrittiva introdotta dalla nuova norma.
- Intercettazioni e tutela della privacy dei terzi estranei.
Un capitolo che tocca nervi scoperti è quello delle intercettazioni telefoniche e ambientali. In Italia si intercetta moltissimo – con indubbio beneficio per molte indagini, ma spesso con fuoriuscita di conversazioni irrilevanti sui media, causando danni alla reputazione di persone estranee. La riforma Nordio interviene in modo chirurgico: stabilisce che nelle richieste dei PM e nelle ordinanze dei giudici sulle misure cautelari non debbano più comparire riferimenti a soggetti estranei all’indagine, salvo che strettamente indispensabili (36). Inoltre, le conversazioni captate che riguardano terzi non indagati e non rilevanti per l’indagine devono essere stralciate (escluse) e non trascritte (37). Questo per evitare che finiscano agli atti e poi magari pubblicate sui giornali. In pratica: se durante un’intercettazione su un sospetto, viene fuori la telefonata imbarazzante di un suo parente che nulla ha a che vedere col reato, quella parte non deve comparire da nessuna parte.
È una sorta di garanzia di privacy per chi finisce casualmente nel reticolo delle microspie. Negli ultimi anni casi clamorosi – conversazioni private di personaggi non indagati, finite sui quotidiani solo perché captate in indagini altrui – avevano alimentato la narrativa del “gossip giudiziario”. Ora il giudice, ricevendo le registrazioni dal PM, dovrà materialmente espungere questi spezzoni irrilevanti che coinvolgono terzi. I detrattori gridano al “bavaglio”: temono che sotto questa etichetta di privacy si nasconda la volontà di limitare la pubblicità delle inchieste e rendere più difficile il lavoro della stampa. Alcuni giornalisti d’inchiesta hanno protestato dicendo che così si rischia di non poter più raccontare certi retroscena emersi dalle carte giudiziarie. Il ministro Nordio ha replicato seccamente: “Nessun bavaglio alla stampa: continuiamo a intercettare i criminali, ma non vedo perché debbano finire sui giornali le chiacchiere private di chi non c’entra nulla”. In realtà, questa parte della riforma non incide sul diritto di cronaca in sé (nessuna sanzione nuova per i giornalisti è stata introdotta), ma impedendo che certi verbali escano dagli uffici, indirettamente ridurrà la materia prima su cui il cronista può mettere le mani.
Da notare che, parallelamente, un emendamento (di iniziativa parlamentare, firmato da Enrico Costa, deputato di Azione ed ex viceministro della Giustizia) ha vietato la pubblicazione testuale delle ordinanze di custodia cautelare: i giornali non possono più pubblicare integralmente l’ordinanza di arresto, ma solo riassumerla. Anche questo è stato visto dall’Unione Europea come un possibile “effetto intimidatorio” sui cronisti (38), tanto da finire nel rapporto 2024 sullo Stato di diritto con toni molto critici. Nel complesso, dunque, sulla materia intercettazioni e informazione il governo ha voluto mantenere le intercettazioni come strumento investigativo – nessuna stretta sulle possibilità di disporle per i reati gravi è avvenuta – ma ha voluto blindare la privacy dei non indagati e limitare i riflettori mediatici su atti d’indagine non definitivi. Resta da vedere se questo equilibrio reggerà: per i reati di mafia e terrorismo, ad esempio, le intercettazioni restano fondamentali e spesso coinvolgono persone collaterali; trovare il confine tra “estraneo irrilevante” e “persona informata dei fatti” potrebbe non essere semplice e potrebbe dar luogo a contenziosi.
- Avviso di garanzia “light” e più riservatezza.
Sempre in tema di atti preliminari alle indagini, la legge introduce una modifica all’informazione di garanzia (il famoso avviso di garanzia che viene notificato a un indagato per informarlo che è sottoposto a indagine). D’ora in poi, nell’avviso dovrà esserci solo una descrizione sommaria del fatto su cui si indaga, non tutti i dettagli. Inoltre, la notifica dell’avviso andrà fatta con modalità che garantiscano la riservatezza del destinatario. In altre parole, si cerca di evitare i casi in cui un indagato viene praticamente “sputtanato” mediaticamente appena riceve l’avviso, magari con clamore. Meno dettagli scritti significano anche meno elementi che possano trapelare all’esterno. È una misura che tende a ridurre l’impatto reputazionale dell’essere indagati, almeno nella fase iniziale. - Più contraddittorio prima delle misure cautelari.
Un capitolo molto sentito dagli avvocati difensori e affrontato dal Ddl Nordio è quello delle misure cautelari (arresti, domiciliari, divieti, ecc. disposti dal giudice prima del processo, in fase d’indagine). La legge introduce il diritto dell’indagato a essere interrogato dal giudice prima che sia decisa una misura cautelare restrittiva. In pratica, se la Procura chiede di arrestare qualcuno, il giudice (salvo urgenze particolari) dovrà convocare l’indagato, rendergli noti gli atti su cui si basa la richiesta e sentirlo con l’assistenza del suo avvocato, prima di decidere se metterlo in carcere o ai domiciliari. È una piccola rivoluzione copernicana nel procedimento penale: finora le misure cautelari venivano decise inaudita altera parte, cioè senza sentire l’indagato (che semmai poteva fare ricorso dopo). Adesso invece si introduce un contraddittorio anticipato, una chance di difesa preventiva per evitare possibili errori o abusi.
Questo dovrebbe garantire maggiore equilibrio: il giudice sentirà entrambe le campane – accusa e difesa – prima di privare una persona della libertà in attesa di giudizio. I fautori dicono che così si eviteranno arresti ingiustificati o basati su elementi fragili, che sarebbero poi revocati dai tribunali del Riesame dopo settimane: meglio prevenire. I critici replicano che potrebbe però allungare i tempi o compromettere indagini delicate (immaginiamo dover avvisare un sospettato prima di arrestarlo: potrebbe inquinare prove o darsi alla fuga). La norma infatti dovrà convivere con le esigenze investigative: presumibilmente in casi di urgenza o di pericolo concreto, il PM potrà ottenere l’ordinanza immediata e l’interrogatorio avverrà contestualmente all’arresto. È un punto da monitorare nell’applicazione pratica. Di certo, per i casi meno allarmanti, la difesa preventiva è un rafforzamento delle garanzie individuali che sposta un po’ il pendolo verso il garantismo.
In parallelo a ciò, viene introdotta anche la collegialità nelle decisioni di custodia cautelare. Finora un singolo giudice (GIP) poteva decidere di incarcerare un indagato; la riforma stabilisce che, per disporre la custodia cautelare in carcere, debba deliberare un collegio di tre giudici. L’idea è che una decisione così impattante sulla libertà personale sia presa con maggiore ponderazione e pluralità di vedute. Questa novità però non sarà immediata: l’entrata in vigore è differita di due anni, per permettere di assumere il personale necessario (serviranno più giudici per formare i collegi). Inoltre, la collegialità varrà solo per la fase delle indagini preliminari, non se la misura viene decisa in udienza di convalida immediata di un arresto in flagranza o simili. Dunque, se la polizia arresta qualcuno in flagrante e il giudice deve convalidare l’arresto entro 48 ore, potrà farlo monocraticamente come oggi; ma se il PM chiede un arresto “a freddo” in un’indagine, decideranno in tre (una sorta di tribunalino della libertà, per così dire). Anche qui, i sostenitori plaudono al maggior equilibrio, i detrattori temono rallentamenti e complicazioni burocratiche.
- Limiti all’appello del PM contro le assoluzioni.
Un ultimo tassello importante: la legge limita i casi in cui il Pubblico Ministero può appellare una sentenza di assoluzione in primo grado (48). In Italia, sia l’imputato condannato sia il PM in caso di assoluzione potevano fare appello, tranne rari casi. La riforma stabilisce che il PM non può appellare le assoluzioni per reati minori, mentre mantiene la possibilità per i reati più gravi (ad esempio per mafia, terrorismo, omicidio e altri sarà ancora possibile). È un parziale recepimento del principio del “ne bis in idem processuale” (cioè il divieto di essere processati due volte per gli stessi fatti): se una persona è stata assolta, non costringerla a subire troppi gradi di giudizio a meno che non sia davvero necessario. Si evita quella che alcuni definivano una “persecuzione processuale” in caso di assoluzioni chiare. Anche qui Nordio aveva espresso sensibilità, ricordando vicende di imputati assolti più volte ma perseguiti all’infinito. D’ora in poi, per vari reati comuni, l’assoluzione in tribunale diverrà definitiva subito (salvo ricorso in Cassazione su punti di diritto, ma non appello sul fatto).
È una vittoria per l’area garantista e una sconfitta per l’approccio più rigoroso: certe associazioni di vittime temono che così qualche colpevole possa sfuggire a una condanna solo perché in primo grado l’ha fatta franca e l’accusa non può appellare. Ma i dati mostravano che gli appelli del PM raramente ribaltavano il risultato se non in processi complessi. Anche su questo, il tempo dirà se la giustizia sarà più rapida (meno appelli) o se qualche ingiustizia non verrà corretta.
- Altre disposizioni minori.
La legge tocca infine anche questioni minori come l’età massima dei giudici popolari nelle Corti d’Assise (fissata a 65 anni al momento della nomina, per svecchiare un po’ le giurie popolari). Non è un punto che abbia suscitato dibattito pubblico, ma segnala la cura dei dettagli del sistema.
In parallelo a queste norme, il governo ha anche annunciato una serie di misure amministrative per rendere più certa l’esecuzione delle pene: investimenti in nuove carceri (per risolvere il cronico problema del sovraffollamento) e riforme dell’ordinamento penitenziario per bilanciare rieducazione e sicurezza. “Abbiamo triplicato gli investimenti sulle carceri”, ha detto Nordio nel 2024, segnalando attenzione al tema. Tuttavia, su questo fronte molti osservatori notano che poco è cambiato nelle condizioni reali: i suicidi in carcere restano numerosi e i progetti di nuovi istituti procedono a rilento. La filosofia sottesa, comunque, è che certezza della pena non deve significare necessariamente più carcere, ma carcere quando serve e alternative credibili dove possibile, in un sistema efficiente. È un orizzonte più ampio, forse il prossimo capitolo che il governo vorrebbe affrontare dopo la riforma normativa.
Le critiche e i timori: magistrati, opposizioni e l’Europa
Una riforma così vasta e incisiva non poteva che incontrare forti resistenze. Le voci critiche provengono principalmente da tre fronti: la magistratura associata (ANM in testa), le forze di opposizione in Parlamento (Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e altri) e alcuni organismi internazionali preoccupati per le implicazioni sullo Stato di diritto.
La magistratura sul piede di guerra
L’Associazione Nazionale Magistrati, che rappresenta la quasi totalità delle toghe italiane, ha assunto una posizione durissima. Già appena trapelate le prime bozze, l’ANM ha parlato di riforma “sbagliata e pericolosa”. In particolare, la separazione delle carriere è considerata dall’ANM come una “sconfitta per la giustizia” e la prova di una “intenzione di attuare un controllo sulla magistratura da parte della politica”, arrivando a definire ciò che deriverebbe dalla riforma una “Costituzione sfregiata”. Parole pesantissime, che danno il senso di come la categoria viva il progetto quasi come un’aggressione istituzionale.
Uno degli strumenti di protesta scelti dall’ANM è stato addirittura lo sciopero. Non accade spesso: lo sciopero dei magistrati è evento raro (che su conta sulle dita di due mani negli ultimi decenni). Eppure, il 27 febbraio 2024 le toghe italiane hanno incrociato le braccia in massa: oltre l’80% di adesione secondo i dati della stessa ANM. I tribunali quel giorno hanno rallentato i lavori per dar modo ai magistrati di riunirsi in assemblee straordinarie e spiegare ai cittadini le loro ragioni. Perché uno sciopero così partecipato? La motivazione, spiegata nei documenti ufficiali, era di “sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli della riforma”, in particolare della parte costituzionale. I magistrati temono che separare le carriere e sorteggiare i CSM crei un sistema meno indipendente, più esposto agli umori della politica. Inoltre, vedono l’Alta Corte disciplinare come un’esautorazione. “Intento punitivo” è l’espressione ricorrente, per quanto il governo la rigetti.
Durante le audizioni parlamentari, autorevoli magistrati e giuristi hanno messo in guardia: se un PM e un giudice non condividono più la stessa cultura e status, il primo potrebbe finire, in prospettiva, sotto l’ombra del Ministro della Giustizia (che per Costituzione ha facoltà di iniziativa sull’azione penale, se fosse riformata). Insomma, vedono il rischio di una china scivolosa verso un PM gerarchico e, magari in futuro, sottoposto al governo. Anche se la riforma attuale non prevede nulla del genere, la separazione viene letta come il primo passo di quel percorso. Non aiuta il fatto che alcuni esponenti della maggioranza abbiano, in interviste, evocato modelli come quello statunitense (dove i PM locali sono eletti o nominati politicamente). Meloni e Nordio hanno invece garantito che “il PM resterà indipendente”, ma la fiducia delle toghe è scarsa.
Un altro aspetto criticato è che questa riforma non affronta i veri problemi della giustizia. “Non risolverà alcuno dei problemi che affliggono i tribunali”, riferito alle carenze di organico, lungaggini, carichi di lavoro eccessivi. Per l’ANM, separare le carriere non riduce di un giorno la durata dei processi, anzi rischia di creare conflitti di competenza nuovi. Allo sciopero, l’ANM ha affiancato anche una forte campagna mediatica, con convegni e comunicati dal titolo inequivocabile: “No alla controriforma della giustizia”. Non sono mancate però divisioni interne: una minoranza di magistrati, più vicini a posizioni moderate, ha invitato a non alzare troppo lo scontro e a discutere nelle sedi istituzionali. Ma la linea dura ha prevalso.
Il governo, dal canto suo, ha cercato un minimo di dialogo: prima di varare la riforma Nordio e il disegno di legge costituzionale, la premier Meloni e il sottosegretario Alfredo Mantovano (figura chiave, ex magistrato e ideologo della riforma) hanno incontrato sia l’ANM che l’Unione delle Camere Penali (l’associazione degli avvocati penalisti). Con i penalisti, storicamente favorevoli alla separazione delle carriere, c’è intesa su molti punti; con l’ANM l’incontro è servito solo a chiarire le posizioni, rimaste distanti. Mantovano ha tenuto aperto uno spiraglio dicendo che “il testo non è blindato, aperto al contributo di tutti”, segnalando quindi la disponibilità a modifiche in Parlamento. In concreto, però, la maggioranza ha poi respinto gran parte degli emendamenti delle opposizioni, approvando i testi quasi invariati. Ciò ha ulteriormente irritato le toghe.
Dal punto di vista politico, l’aver compattato i magistrati in una protesta così forte può avere conseguenze. Non va dimenticato che 90% dei magistrati aderisce all’ANM e che un clima di aperto conflitto tra magistratura e politica può riflettersi anche nei singoli processi. È interesse di tutti evitare una “guerra”. Alcuni osservatori neutrali hanno auspicato toni più miti: “La riforma non è una vendetta, ma neppure la panacea di tutti i mali: si può discutere nel merito senza demonizzarsi a vicenda”. Finora, però, lo scontro verbale è stato frontale.
I dubbi delle opposizioni parlamentari
Le forze di opposizione – in primis PD e M5S – hanno fatto fronte comune contro la riforma, pur provenendo da tradizioni diverse (il PD è erede di una cultura più garantista ma rispettosa della magistratura, i 5 Stelle di una stagione giustizialista ai tempi di Bonafede). Entrambi i gruppi hanno denunciato che l’abolizione dell’abuso d’ufficio e la modifica delle intercettazioni sono un regalo ai disonesti e un colpo alla trasparenza. Hanno anche sottolineato come questa maggioranza, dopo aver criticato quella precedente per la lentezza nella giustizia, stia in realtà invertendo o annacquando alcune riforme fatte. Un esempio: il “fine processo mai”. Con il governo Conte II (ministro Bonafede) era stata eliminata la prescrizione dopo il primo grado per evitare che i processi d’appello si estinguessero col tempo; la ministra Cartabia (governo Draghi) aveva poi introdotto una forma di improcedibilità dopo tempi prestabiliti in appello. Ebbene, l’attuale maggioranza vorrebbe rivedere anche queste norme. Nel rapporto UE si cita una “nuova prescrizione che può ridurre il tempo per celebrare i processi” come fonte di preoccupazione: segno che qualcosa bolle in pentola (forse un allargamento dei casi di improcedibilità). PD e M5S accusano Meloni di ipocrisia, perché a parole parla di certezza della pena, nei fatti abolisce reati e potenzialmente accorcia i termini dei processi.
Un altro cavallo di battaglia dell’opposizione è il rischio di mettere il PM sotto controllo del governo. Nella riforma attuale, come detto, non c’è nulla del genere nero su bianco: il PM resta indipendente. Tuttavia, esponenti come l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando (PD) sostengono che con il doppio binario si spalanca la porta per una futura modifica dell’azione penale obbligatoria (principio costituzionale per cui i PM devono perseguire ogni reato, senza priorità decise dalla politica). Non a caso, nello stesso periodo, la maggioranza ha iniziato a parlare di introdurre in Costituzione la facoltà per il Parlamento di indicare priorità alle procure. Messa insieme alla separazione, questa ipotesi fa intravedere un modello in cui il governo-direzione politica influenza cosa indagano i PM, mentre i giudici restano autonomi. Sarebbe un cambio epocale per l’Italia. “Non fidatevi, è solo il primo passo”, ripetono i parlamentari di centrosinistra.
Anche sul sorteggio dei CSM l’opposizione ha dato battaglia: molti costituzionalisti sentiti in Commissione hanno espresso perplessità sulla compatibilità con l’idea di rappresentanza. Un CSM per sorteggio è qualcosa che sconfessa il dettato costituzionale attuale, pensato su base elettiva. Dunque servirà cambiare la Costituzione: il testo di riforma infatti modifica l’articolo 104 e seguenti. I numeri in Parlamento per farlo ci sono (maggioranza assoluta), ma non i due terzi necessari per blindarla da un eventuale referendum confermativo richiesto dai cittadini. E qui sta una delle strategie: il PD e gli altri già minacciano che, se la riforma passerà senza accordo, raccoglieranno le firme per un referendum confermativo, rimettendo la parola al popolo – magari sperando che, come fu per la riforma Renzi nel 2016, il popolo la bocci.
Va detto che alcune forze centriste di opposizione (come Italia Viva di Renzi e Azione di Calenda) in realtà concordano su alcuni punti della riforma, ad esempio proprio sulla separazione delle carriere, storicamente nel loro programma. Tant’è che in prima lettura alla Camera alcuni di questi parlamentari hanno votato a favore della riforma costituzionale. Meloni spera di sfruttare queste convergenze per dare un taglio più bipartisan al testo ed evitare il referendum ottenendo magari i due terzi in seconda lettura. Calcoli politici a parte, il confronto resta acceso.
Il giudizio severo dell’Unione Europea
In questo dibattito interno, si è inserita anche la voce dell’Unione Europea, attraverso il Rapporto sullo Stato di diritto 2024 pubblicato dalla Commissione europea. E la voce è stata tutt’altro che diplomatica: Bruxelles ha elencato una serie di riserve e critiche puntuali proprio verso le novità introdotte dal governo Meloni. Nel dossier dedicato all’Italia, accanto a questioni di vecchia data (come l’indipendenza dei media o la lotta alla corruzione), si legge che “la riforma della giustizia firmata da Carlo Nordio può avere effetti negativi sulle indagini anti corruzione”, riferendosi all’abolizione dell’abuso d’ufficio e alla modifica del traffico di influenze. Inoltre, si cita il “bavaglio” sulle ordinanze cautelari come potenzialmente intimidatorio per i giornalisti. Quanto alla parte costituzionale, il rapporto manifesta preoccupazione per la separazione delle carriere e anche per l’altra riforma – parallela – del premierato. In sostanza, la Commissione UE ha dato una bocciatura quasi totale delle politiche italiane in materia di giustizia dell’ultimo anno (63).
Si tratta di un fatto politicamente rilevante: raramente l’Europa entra così nel merito di riforme nazionali di giustizia (lo fa in casi estremi come Polonia o Ungheria, dove però c’erano violazioni palesi dell’indipendenza giudiziaria). Nel caso italiano, il giudizio è più sfumato ma comunque severo. Il governo Meloni ovviamente ha respinto al mittente le critiche, con il ministro degli Esteri Tajani (Forza Italia) che ha dichiarato: “L’Europa non deve interferire, la nostra riforma rispetta lo Stato di diritto e anzi lo migliora”. Tuttavia, l’episodio segnala che la vicenda viene seguita con attenzione anche fuori dai confini. L’Italia ha ottenuto fondi europei (PNRR) anche impegnandosi in riforme per l’efficienza della giustizia – e infatti il precedente governo Draghi aveva approvato le riforme Cartabia proprio in quell’ottica. Ora Bruxelles teme un passo indietro.
Un punto evidenziato è che nessun progresso è stato fatto su altre riforme attese come la protezione del segreto professionale dei giornalisti e una legge sul lobbying – come a dire: vi concentrate sulle cose sbagliate. Nel complesso, anche a livello internazionale la riforma Meloni viene percepita più come una questione di equilibri di potere interno (politica vs magistratura) che come un miglioramento del servizio di giustizia per i cittadini.
Un percorso a ostacoli: dall’approvazione alla prova del Parlamento
Dopo aver esaminato contenuti e reazioni, vale la pena ricapitolare a che punto è la riforma e qual è il percorso che la attende. Sul fronte del disegno di legge ordinario (ddl Nordio), come detto, la partita è chiusa: è stato approvato in via definitiva l’11 luglio 2024, con 199 voti favorevoli alla Camera nell’ultima lettura (66), ed è dunque legge dello Stato. Le sue disposizioni (abolizione dell’abuso d’ufficio, ecc.) sono operative – alcune immediatamente, altre come la collegialità differite di due anni.
Sul fronte della riforma costituzionale, invece, il cammino è più lungo. Il governo ha approvato il disegno di legge costituzionale in Consiglio dei Ministri a maggio 2024 (con tanto di conferenza stampa illustrativa di Nordio e Mantovano). Poi il testo è passato al Parlamento. In Italia per cambiare la Costituzione serve una doppia approvazione conforme di Camera e Senato a distanza di almeno 3 mesi l’una dall’altra. La prima lettura c’è già stata: il 16 gennaio 2025 la Camera dei Deputati ha approvato in prima deliberazione la riforma della giustizia, con i voti della maggioranza e di parte dell’opposizione moderata (68). Adesso il testo è all’esame del Senato, dove dovrà essere approvato una prima volta (verosimilmente entro la primavera 2025) e poi di nuovo la Camera e di nuovo il Senato in seconda lettura. L’obiettivo dichiarato del governo è chiudere il tutto entro l’inizio del 2026, in modo da evitare il referendum confermativo. Infatti, se in seconda lettura il testo ottenesse almeno i due terzi dei voti in entrambe le camere, la riforma entrerebbe in vigore direttamente senza referendum; se invece – come è probabile – la maggioranza non raggiungerà quella soglia (mancano pochi voti al momento, specialmente al Senato), allora a riforma approvata ci sarà la possibilità di chiedere un referendum confermativo popolare. Il governo vorrebbe evitarlo sia per ragioni di tempo (sarebbe nel 2026), in piena campagna elettorale per le Politiche successive) sia per il rischio intrinseco di perdere la consultazione, trasformandola in un plebiscito pro o contro il governo stesso.
Al momento, maggio 2025 è una tappa cruciale: la maggioranza punta ad avere entro quel mese il sì del Senato in prima lettura. Sul percorso potrebbero influire le elezioni europee di giugno 2025: se il clima politico cambiasse o la maggioranza subisse scossoni, la riforma costituzionale potrebbe rallentare o essere modificata. La premier Meloni si è detta disponibile a miglioramenti in Parlamento per allargare il consenso. Ad esempio, non è escluso che qualche elemento più estremo (come il doppio CSM rigido) possa essere attenuato, magari optando per un unico CSM con due sezioni interne invece di due completamente separati – ipotesi che alcuni centristi preferirebbero. Tutto dipenderà dai numeri e dalle trattative.
Nel frattempo, governerà un certo status quo: fino a che la riforma costituzionale non sarà definitivamente approvata e promulgata, resterà in vigore l’attuale assetto. Quindi le prossime elezioni del CSM (previste nel 2026) potrebbero svolgersi già col nuovo sistema, se tutto fila liscio, oppure ancora col vecchio se i tempi si allungano. È un iter complesso e tutt’altro che concluso: “una lunga vicenda destinata a protrarsi ben oltre l’approvazione parlamentare”, ha scritto qualcuno. E all’orizzonte c’è anche l’eventualità di un referendum.
Un finale ancora da scrivere (in attesa del Senato)
Siamo dunque davanti a un cantiere aperto, dalle molte incognite. Da un lato c’è un governo compatto nel rivendicare questa riforma come necessaria e storica: Giorgia Meloni l’ha persino firmata di suo pugno accanto a Nordio, quasi a suggellare l’importanza che le attribuisce. Dall’altro c’è una fetta consistente della magistratura, della politica e della società civile che guarda con preoccupazione alle possibili derive. La verità è che nessuno può dire con certezza oggi quale sarà l’esito finale. La riforma potrebbe essere limata, confermata in toto, oppure – scenario estremo ma non impossibile – affossata se mancassero i voti nelle letture finali o nel referendum popolare. Del resto, la storia italiana è piena di riforme della giustizia annunciate e mai arrivate in porto.
Quel che è certo è che entro maggio 2025 è atteso il voto del Senato in prima lettura, un passaggio decisivo che ci dirà molto sul destino della riforma. Fino ad allora il dibattito continuerà, probabilmente con toni sempre appassionati. I cittadini comuni, spesso disorientati di fronte a tecnicismi e sigle, potranno solo sperare che, al di là delle dispute, l’obiettivo finale resti quello giusto: una giustizia più equa, veloce ed efficiente. Se la strada scelta sarà quella corretta, lo scopriremo vivendo.
Questo dossier termina qui la sua prima parte, ma la storia non finisce oggi. Dopo la votazione in Senato – attesa entro la fine di maggio 2025 – sapremo se la riforma avrà superato il suo ultimo grande ostacolo parlamentare. A quel punto sarà doveroso un aggiornamento: quali correzioni saranno state apportate? Come reagiranno i magistrati e l’opinione pubblica al testo definitivo? Eywa, la piattaforma che vi accompagna in questo viaggio informativo, tornerà sulla vicenda per raccontarne gli sviluppi conclusivi e gli eventuali nuovi scenari. Per ora, rimaniamo con questa immagine: il Palazzo Madama a Roma, sede del Senato, illuminato dalle prime luci estive. Tra quelle austere mura si deciderà a breve un pezzo importante del futuro della giustizia italiana. Il finale è ancora da scrivere, e lo scriveremo insieme, aggiornandovi passo dopo passo.
Nel frattempo, non resta che attendere, mantenendo vivo l’interesse e il senso critico. La giustizia, dopotutto, riguarda tutti noi da vicino: è il patto di fiducia tra cittadini e Stato, ed è giusto seguirne le sorti con attenzione. Continua… (in attesa del prossimo aggiornamento dopo il voto in Senato!).
Bibliografia Fonti giornalistiche e di approfondimento
La riforma della giustizia, punto per punto: cosa cambia, cosa succede adesso, quali sono le criticità – Corriere della Sera
Giustizia, il report Ue stronca l’Italia: “La riforma Nordio danneggia le indagini su corruzione. Col bavaglio effetto intimidatorio sui cronisti” – Il Fatto Quotidiano
Dall’abuso d’ufficio alle intercettazioni: gli 8 articoli del ddl Nordio – ANSA
Solo 9 condanne ogni 5 mila processi? I dati sull’abuso d’ufficio – Pagella Politica
Riforma della giustizia, cosa prevede: dalla separazione delle carriere allo scorporo del CSM – Il Sole 24 Ore
Carceri, Nordio: “Dal governo Meloni triplicati gli investimenti” – Sky TG24
Sciopero magistrati, partecipazione oltre l’80 per cento – Il Dubbio
Pronti allo sciopero: l’ANM contro la riforma della giustizia – Associazione Nazionale Magistrati (comunicati stampa)
Riforma della giustizia, il Governo incontra ANM e UCPI a Palazzo Chigi – GNews – Governo.it
Abuso d’ufficio, il Ddl Nordio alla Camera il 24 giugno – Il Sole 24 Ore
Conferenza stampa del Consiglio dei Ministri n. 83 – Governo.it
Riforma costituzionale della giustizia: luci e ombre della proposta Meloni – Valigia Blu
Meloni blinda Nordio sulla riforma e punta ai voti di Forza Italia – La Repubblica
Meloni firma il testo della riforma insieme a Nordio: il messaggio ai PM (e a Forza Italia) – Il Giornale
Fonti istituzionali e normative
Disegno di legge costituzionale S. 1315 – Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione – Senato della Repubblica
Decreto-legge n. 178/2024, convertito con modificazioni dalla Legge n. 4/2025 – Gazzetta Ufficiale
Relazione illustrativa al DDL costituzionale S. 1315 – Ministero della Giustizia
Documenti ufficiali ANM (Associazione Nazionale Magistrati) – Proposte per una giustizia più efficace – www.anm.it
Lettera aperta dei magistrati della Corte dei Conti sulla riforma – www.amcorteconti.it
Report 2024 sulla giustizia nell’Unione Europea – Commissione Europea – EU Justice Scoreboard
Costituzione della Repubblica Italiana – Articoli 101-113
Convenzione ONU contro la corruzione – United Nations Convention against Corruption (UNCAC)