Femminicidio: una legge che vorrebbe punire

Legge femminicidio

L’8 marzo 2025, proprio nella Giornata internazionale della donna, il Parlamento italiano ha approvato con grande clamore una legge che introduce il reato autonomo di femminicidio nel codice penale. Un provvedimento salutato dalla maggioranza come una svolta storica nella lotta contro la violenza di genere. Ma è davvero così?
A sollevare dubbi non sono solo le opposizioni, ma anche esperti e associazioni, che denunciano un paradosso evidente: questa legge arriva dopo il delitto, senza prevedere misure concrete per evitarlo.

Peggio ancora, mentre si introduce un nuovo reato, si tagliano i fondi per l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole, l’unico strumento che, dati alla mano, ha dimostrato di ridurre la violenza di genere nei Paesi dove è stato adottato. Nello stesso periodo in cui il governo ha introdotto il reato di femminicidio, ha deciso di dirottare altrove i fondi destinati all’educazione affettiva e sessuale nelle scuole, un intervento che, secondo esperti e associazioni, sarebbe stato molto efficace nel prevenire la violenza. I 500 mila euro inizialmente stanziati per avviare programmi educativi dedicati agli adolescenti sono stati invece riassegnati alla formazione degli insegnanti su tematiche legate alla fertilità. Questa scelta politica, fortemente voluta dalla maggioranza di governo, rispecchia un atteggiamento che si concentra esclusivamente sulla repressione, ignorando la necessità di fare in modo che non si verifichi il problema.

Un’educazione che non arriva mai: ecco perché l’Italia resta indietro
Il problema della violenza di genere non si risolve a colpi di codice penale. Si previene a monte, educando le nuove generazioni al rispetto, al consenso, alla gestione delle emozioni. Eppure, nessun governo ha mai istituito l’educazione affettiva, sessuale e sentimentale nelle scuole!
E non perché manchino le prove della sua efficacia: nei Paesi Bassi, in Svezia e in Germania, dove questi programmi sono parte integrante del sistema scolastico, si è registrata una riduzione significativa di molestie, violenze e persino gravidanze adolescenziali. In Italia, invece, da decenni si parla di “femminicidio” senza mai affrontarne le cause alla radice. Il termine è entrato nel dibattito pubblico negli anni ‘90, ha trovato spazio nelle statistiche ufficiali a partire dal 2013, e oggi, nel 2025, si continua a intervenire con misure tardive e parziali.

Una legge a rischio: le falle giuridiche che potrebbero svuotarla di senso
Ma non è solo la mancanza di prevenzione a far discutere. Ci sono falle giuridiche enormi che potrebbero persino favorire gli aggressori nei tribunali.
La prima questione è la difficoltà di dimostrare il movente di genere. Questa legge, infatti, richiede che l’omicidio sia provato come atto misogino, commesso perché la vittima era donna. Un aspetto che rischia di diventare un boomerang nei processi, con la difesa pronta a contestare questa motivazione per ottenere pene più leggere.
Il secondo problema è ancora più grave: il sospetto di incostituzionalità. Il nuovo reato di femminicidio potrebbe essere attaccato in quanto discriminatorio nei confronti degli uomini, in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. E se un avvocato della difesa solleva la questione davanti alla Corte Costituzionale? Il rischio è che la legge venga annullata o svuotata, lasciando le vittime ancora più esposte.

Giustizia o ingiustizia? Quando i tribunali umiliano le vittime
E poi c’è la realtà quotidiana, quella che le donne incontrano nei tribunali. Perché se l’inasprimento delle pene può servire, resta un problema enorme: i pregiudizi sessisti della magistratura.
Basta guardare alcuni casi recenti, esempi lampanti di come la giustizia italiana riesca a trasformare le vittime in colpevoli.

A Salerno, assoluzione per stupro violento. Una ragazza denuncia un’aggressione brutale, porta prove mediche, racconta dettagli raccapriccianti. Il tribunale? Assolve l’imputato, sostenendo che la testimonianza della vittima non fosse sufficiente.

A Milano, il caso della hostess. Una donna viene violentata da un sindacalista al quale si era rivolta, ma in aula il giudice ribalta tutto: se non ha reagito subito, vuol dire che non era davvero uno stupro. La vittima aveva impiegato ben 20 secondi per riprendersi dallo shock e reagire… Sentenza: assoluzione. Il messaggio? Se sei troppo spaventata per difenderti, non ti crederemo.

A Roma, lo scandalo del bidello. Un uomo palpeggia una studentessa minorenne. Dura solo dieci secondi, dicono i giudici, quindi non può essere considerata una molestia grave. Assolto.

Tre casi, tre verdetti assurdi che ci mostrano la realtà: non bastano le leggi, serve un cambiamento profondo nella cultura giuridica del Paese.

Una battaglia che non si vince con la sola repressione
L’approvazione di questa legge dimostra che il governo ha scelto la strada più facile: inasprire le pene, senza affrontare il problema alla radice. E così, la politica si fa vanto di un provvedimento che difficilmente cambierà qualcosa, mentre i fondi per la prevenzione vengono tagliati senza fare rumore.
Per combattere davvero la violenza di genere servono due azioni, non una sola: punire i colpevoli, senza scappatoie legali; prevenire, insegnando il rispetto e il consenso fin dalla scuola.
Fino a quando mancherà questa seconda parte, continueremo a contare le vittime, a indignarci per le sentenze, a chiederci perché tutto questo non si fermi mai. E la risposta sarà sempre la stessa: perché non abbiamo ancora avuto il coraggio di agire nel modo giusto.