
di Alice Salvatore
Nonostante gli annunci funebri, le province sono ancora vive e vegete (più o meno). Anni di riforme, promesse di “abolizione definitiva” e referendum non sono riusciti a cancellarle.
Le province italiane sono ancora lì, sopravvissute a tagli e rivoluzioni amministrative, ma svuotate di potere, risorse e persino di legittimità democratica. La legge Delrio del 2014 doveva essere il colpo di grazia, una norma-ponte di due anni verso una riforma costituzionale che avrebbe dovuto eliminarle. Ma con il referendum del 2016, sono rimaste sospese in un limbo burocratico: enti fantasma, in bilico tra passato e futuro.
Eppure, per capire perché le province continuano a resistere, bisogna tornare indietro nel tempo. Dagli anni ’70, quando erano il cuore dell’amministrazione territoriale, fino alla decadenza sancita dalle riforme degli ultimi decenni, la storia delle province è un groviglio di buone intenzioni, pasticci normativi e incertezze politiche.
Vediamo come tutto è iniziato e le principali tappe della storia di questi enti amministrativi.
Dalle origini al 2014: le tappe fondamentali
Le province italiane, a lungo protagoniste della gestione locale, hanno visto il loro ruolo mutare radicalmente nel corso degli anni. All’apice della loro importanza amministrativa, si sono ritrovate ad affrontare un progressivo svuotamento, tra tagli di competenze e riforme ambiziose che spesso hanno prodotto più caos che soluzioni.
Gli anni ’70: le province e l’arrivo delle regioni ordinarie

Negli anni ’70, le province erano l’unico livello intermedio tra comuni e Stato centrale, con responsabilità che spaziavano dalle infrastrutture alla pianificazione territoriale. Poi arrivarono le regioni a statuto ordinario, e il panorama amministrativo si complicò. Fino ad allora, le uniche regioni operative erano quelle a statuto speciale, cioè Friuli-Venezia Giulia, Val d’Aosta, Sardegna, Sicilia e Trentino-Alto Adige, nate per gestire esigenze particolari. L’introduzione delle regioni ordinarie doveva migliorare il coordinamento e suddividere meglio le responsabilità tra gli enti. Sulla carta, tutto era perfetto: alle province le questioni locali, alle regioni quelle di più ampio respiro (come la sanità, le politiche sociali ecc.).
In realtà, accadde il contrario. Le competenze iniziarono a sovrapporsi, creando un caos amministrativo degno di una commedia degli errori. Pianificazione e sviluppo economico divennero terre di nessuno, contese tra enti che non volevano cedere terreno. A ogni riunione si ripeteva la stessa domanda: “Ma che ci stanno a fare le province, se le regioni possono gestire tutto questo e, forse, anche meglio?”
Nel tempo, le province furono etichettate come un livello amministrativo ridondante, con una crescente spinta politica a cancellarle. La promessa di un sistema funzionale si trasformò in una relazione caotica, fatta di competenze sovrapposte e scaricabarile istituzionali. Iniziava così il lungo declino di questi enti, che, da protagonisti dell’amministrazione locale, cominciarono a essere percepiti come pesi morti del sistema.
La riforma del 1993: democratizzare le province
Negli anni ’90, le province italiane ricevettero una vera scossa di modernità grazie alla riforma del 1993, che introdusse l’elezione diretta del presidente.
Ma, prima di allora, come funzionava il sistema? Diciamo che la trasparenza e il rapporto diretto con i cittadini non erano esattamente il punto di forza delle province. Il presidente della provincia non veniva scelto dalla gente comune, ma dal consiglio provinciale, un organo formato tramite elezioni amministrative in cui i cittadini votavano liste di partito.

E qui le cose si facevano piuttosto prevedibili: ogni lista riceveva un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti, e i partiti o le coalizioni più forti prendevano il controllo del consiglio. Da lì, il consiglio eleggeva il presidente e approvava la sua giunta, il che rendeva tutta l’operazione un affare piuttosto “in famiglia”. I cittadini, insomma, avevano la soddisfazione di votare i consiglieri, ma il vero potere decisionale si giocava nelle stanze chiuse della politica locale.
Questo sistema, pur essendo formalmente rappresentativo, aveva un limite gigantesco: non c’era nessun legame diretto tra gli elettori e i vertici dell’amministrazione provinciale. Il risultato? Le province spesso sembravano feudi politici più che enti al servizio del pubblico, dominate da giochi di partito e accordi dietro le quinte.
La riforma del 1993 si propose di mettere fine a questa distanza fra elettorato ed eletti, portando un po’ di innovazione in senso democratico. L’elezione diretta del presidente aveva proprio questo scopo: dare ai cittadini la possibilità di scegliere chi guidava l’ente, con l’idea di avvicinare le province alle persone e garantire una maggiore trasparenza.
E per un po’ sembrò davvero funzionare. Le province riacquistarono una certa dignità politica e, almeno sulla carta, si misero al servizio dei cittadini. Ma ogni epoca d’oro sembra destinata a essere breve, e presto le province avrebbero affrontato nuove sfide, e nuove critiche, sul loro ruolo e sulla loro utilità.
2001: Il Titolo V e la nuova autonomia

Nel 2001, l’Italia decise di mettere mano al Titolo V della Costituzione, quella parte della Carta che regola il rapporto tra Stato, regioni, province e comuni. Una riforma ambiziosa, salutata come un passo verso il federalismo, che riconobbe finalmente alle province un’autonomia ufficiale.
Le tanto discusse province, ottennero il loro momento di gloria, diventando enti autonomi dotati di statuti propri e competenze ben definite. Sulla carta, sembrava una rivoluzione: a loro venivano affidati compiti di peso come la pianificazione territoriale, la tutela ambientale e la manutenzione delle infrastrutture locali. Sembrava quasi che fossero pronte a farsi carico del destino del Paese.
Ma tra la teoria e la pratica c’era di mezzo… il caos. Perché se è vero che le province ricevevano nuovi poteri e competenze specifiche, è altrettanto vero che molte di queste erano le stesse delle regioni. Il risultato è che si ebbe un’altra sovrapposizione di competenze, stavolta degna del più complesso dei rebus. Chi si occupava davvero della pianificazione? E la tutela ambientale? Era come organizzare una cena con troppi cuochi e nessuno che decidesse il menù.
In questo scenario confuso, la domanda di fondo rimaneva: “Le province servono davvero o sono solo un livello amministrativo di troppo?” La riforma del Titolo V, pur avendo buone intenzioni, finì per alimentare ulteriormente il dibattito sull’utilità di questi enti, che ormai viaggiavano sempre più spesso in bilico tra il ruolo di protagonisti e quello di comparse di lusso nel teatro della pubblica amministrazione. Insomma, autonomia sì, ma con il solito retrogusto tutto italiano di incertezza gestionale.
La legge Delrio del 2014: la (quasi) fine delle province

Nel 2014, la legge Delrio fece il suo ingresso in scena, salutata da molti come una svolta storica per il panorama amministrativo italiano. Doveva essere una sorta di preludio alla grande riforma costituzionale che avrebbe finalmente detto addio alle province, trasformandole in un ricordo lontano.
Il piano era chiaro: eliminare l’elezione diretta di presidenti e consigli provinciali, trasformare le province in enti di secondo livello gestiti da sindaci e consiglieri comunali, e ridurre il loro raggio d’azione a funzioni di pianificazione e coordinamento, lasciando solo alcune attività puntuali ma essenziali, come l’edilizia scolastica delle scuole superiori e la manutenzione delle strade provinciali.
La trasformazione in organi elettivi di secondo livello è stato un passo indietro epocale, persino rispetto al vecchio sistema pre-1993. Allora almeno i cittadini potevano votare i consiglieri, che poi eleggevano il presidente. Adesso tutto si risolve in un gioco di palazzo tra pochi eletti. Insomma, un declassamento elegante, pensato non solo per snellire l’architettura istituzionale, ma per rendere le province un peso così leggero che nessuno avrebbe protestato al momento dell’abolizione definitiva.
La legge Delrio era stata pensata come un pit stop: due anni, un rapido cambio gomme, e poi via verso la riforma costituzionale Renzi-Boschi, che avrebbe dovuto eliminarle definitivamente dal panorama istituzionale italiano. Un piano tutto sommato brillante, se non fosse per un piccolo dettaglio: il referendum del 2016 è naufragato con una sonora bocciatura popolare, lasciando la riforma a metà e le province sospese in un limbo di provvisorietà. Ma in Italia non c’è nulla di più permanente di ciò che nasce come temporaneo.

E così, eccoci qui, dieci anni dopo, con le province ancora al loro posto, ma trasformate in qualcosa che assomiglia più a una riunione condominiale che a un organo democratico. Non sorprende che trasmettano ai cittadini una sensazione di distanza e autoreferenzialità, come fossero un club esclusivo chiuso in se stesso e lontano dai problemi dei cittadini. Sopravvivono per inerzia, come una vecchia abitudine che non si riesce a eliminare.
Ma i guai non finiscono qui. Parliamo dei risparmi: uno degli obiettivi dichiarati della riforma. La cifra risparmiata è modesta: appena 52 milioni e 473mila euro in dieci anni, un’inezia rispetto ai costi miliardari della macchina pubblica per lo stesso periodo di riferimento – circa 3 miliardi in dieci anni, ed è una stima al ribasso basata sui dati parziali a disposizione. In pratica, il risparmio medio annuo basta a malapena per finanziare un paio di ponti ben fatti o qualche chilometro di strada asfaltata. E i dipendenti provinciali? Non sono stati licenziati, ma semplicemente trasferiti in altri enti, spesso con stipendi più alti grazie ai premi di produttività maggiori degli enti di livello superiore di approdo – come le regioni e i ministeri.
Per non parlare della sovrapposizione di competenze tra regioni e province, che la legge Delrio ha mantenuto (e spesso amplificato), soprattutto nella gestione ambientale, dove la confusione normativa rallenta interventi e decisioni su temi cruciali come la gestione dei rifiuti: un labirinto in cui nessuno sembra sapere quale ente deve fare cosa, mentre i problemi si accumulano.
Questa situazione è la perfetta sintesi di un certo modo di fare riforme in Italia: grandi promesse, piccoli risultati e una straordinaria capacità di complicare ciò che doveva essere semplificato, trasformando ogni intervento in una visita obbligata all’ufficio complicazioni affari semplici. Una dinamica che, anziché risolvere i problemi, sembra spesso alimentarli, stratificando nuovi livelli di complessità su una struttura già confusa.
Le province oggi: funzioni e difficoltà
Nonostante il ridimensionamento subito con la legge Delrio, le province italiane continuano a portare avanti alcune attività fondamentali. Potremmo dire che, pur private della ribalta politica, restano dietro le quinte del teatro amministrativo, occupandosi di quei compiti che, se trascurati, finiscono per farsi notare eccome.
Facciamo un esempio: le strade.

Le province gestiscono oltre 132.000 chilometri di strade (appunto) provinciali, un reticolo essenziale per collegare territori spesso dimenticati dalle grandi infrastrutture nazionali. E quando una strada provinciale non viene mantenuta te ne accorgi subito: buche, ponti pericolanti, o deviazioni che trasformano un semplice tragitto in un percorso a ostacoli degno di un rally improvvisato.
Non è finita qui. Le province sono anche le custodi degli edifici scolastici delle scuole superiori: da esse dipende la manutenzione delle aule dove i ragazzi oggi studiano. E, considerando quanto siano cruciali queste infrastrutture scolastiche, la questione non è proprio secondaria. Poi c’è la pianificazione territoriale, una delle competenze più strategiche: coordinare lo sviluppo del territorio con un occhio di riguardo per la tutela ambientale.
Infine, non dimentichiamo l’assistenza tecnica ai comuni. Le province, infatti, forniscono supporto amministrativo e tecnico ai piccoli comuni, soprattutto quelli con meno risorse.
E così, nonostante il caos normativo e il ridimensionamento subìto, le province riescono ancora a tirare fuori risultati che sanno di miracolo amministrativo. Con risorse ridotte all’osso e competenze frammentate, continuano a rattoppare strade, sistemare scuole e tenere in piedi comuni che altrimenti sarebbero allo sbando. Certo, non parliamo di rivoluzioni, ma di soluzioni pratiche: ripristino di infrastrutture dopo disastri naturali, scuole più efficienti dal punto di vista energetico, supporto ai piccoli comuni e persino progetti di digitalizzazione e promozione culturale. Insomma, nonostante tutto, questi enti dimostrano di avere ancora un po’ di benzina nel serbatoio per fare quello che le altre istituzioni non fanno.
Le difficoltà operative

Sovrapposizioni a parte, le province potrebbero sembrare ancora il baluardo della gestione territoriale. Ma c’è un piccolo dettaglio: devono farlo con le tasche vuote. I loro bilanci sono stati massacrati già nel 2009 con una manovra finanziaria che ha dato il via ai tagli selvaggi. Poi è arrivato il Decreto “Salva Italia” del 2011, seguito da una sfilza di spending review nel 2012 e nel 2014, che le hanno letteralmente lasciate a boccheggiare.
Il risultato, scontato, è che i servizi essenziali sono garantiti a malapena, mentre le infrastrutture abbandonate al loro destino. I ponti e le strade non finiscono sui giornali per la manutenzione esemplare, ma per crolli e chiusure.
Ma il vero colpo di grazia alla reputazione delle province, è stata l’elezione indiretta. Niente più voto popolare: presidenti e consiglieri provinciali non li sceglie più nessuno, a parte sindaci e consiglieri comunali chiusi in qualche sala a spartirsi le poltrone, che contano di più delle buche sulle strade.
Eppure, le province resistono. Fanno il lavoro sporco, quello che nessuno vuole fare, ma con un budget da fame e una legittimità democratica ridotta a zero. Il paradosso è lampante: un ente moribondo, ma ancora necessario per tenere insieme un territorio che cade a pezzi – proprio come certi ponti provinciali.
Città metropolitane: un esperimento mancato

Le città metropolitane sono state istituite con grandi ambizioni: dovevano essere il cuore pulsante di una nuova stagione amministrativa, progettate per affrontare le sfide delle grandi aree urbane in modo moderno ed efficiente. L’idea era di rispondere ai bisogni specifici delle città più complesse e dei territori circostanti, promuovendo al tempo stesso una governance integrata e centralizzata per questioni strategiche come la pianificazione territoriale, la mobilità, la sostenibilità ambientale e lo sviluppo economico. Insomma, una riforma che doveva rappresentare la risposta italiana al dinamismo delle grandi città europee, con un modello amministrativo finalmente all’altezza.
Il progetto nasceva dalla necessità di risolvere problemi annosi come la frammentazione decisionale e la duplicazione di competenze tra comuni e province. L’obiettivo era chiaro: semplificare, coordinare e migliorare l’efficienza dei servizi pubblici, avvicinando l’Italia agli standard europei. Con la riforma costituzionale del 2001, le città metropolitane erano state inserite nell’articolo 114 della Costituzione come enti fondamentali della Repubblica, ma solo con la legge Delrio, di 13 anni dopo, si è potuto tradurre questa previsione in realtà.
Non si trattava solo di semplificazione burocratica: le città metropolitane dovevano incarnare il principio di sussidiarietà, cioè portare le decisioni il più vicino possibile al territorio, ai cittadini, e risolvere i problemi specifici delle aree urbane in modo mirato e coordinato. Erano pensate per fungere da motore dello sviluppo locale, armonizzando la gestione delle infrastrutture, la tutela dell’ambiente e la promozione culturale in una visione d’insieme.
In pratica, le città metropolitane hanno sostituito le province omonime, mantenendo gli stessi confini territoriali. La legge Delrio del 2014 ha individuato dieci città metropolitane nelle regioni a statuto ordinario: Roma Capitale, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. A queste si sono aggiunte quattro città metropolitane nelle regioni a statuto speciale: Cagliari, Catania, Messina e Palermo.
Le 14 province individuate per diventare città metropolitane sono state scelte in base a una combinazione di criteri: il peso economico e sociale delle città capoluogo, la loro rilevanza culturale e storica, oltre alla densità abitativa e all’estensione territoriale. Questo approccio mirava a coordinare l’amministrazione in aree di importanza strategica per il Paese.
Un vuoto democratico
Le città metropolitane dovevano essere il simbolo della rivoluzione amministrativa, e invece si portano dietro un problema che grida vendetta: il sindaco metropolitano non è eletto da nessuno. Non direttamente dai cittadini, né indirettamente dai consiglieri metropolitani. No, lui si ritrova in carica “di default” perché già sindaco del comune capoluogo. È come vincere un premio senza partecipare alla gara. Ne deriva un sistema che non solo fa rimpiangere l’elezione di secondo livello delle province, ma al confronto le fa sembrare un modello di trasparenza e partecipazione.
Non stupisce che la Corte Costituzionale abbia fatto notare come il principio di uguaglianza del voto sia stato bellamente mandato in soffitta. Per i piccoli comuni dell’area metropolitana è un po’ come giocare in una squadra di calcio dove solo il capitano può tirare i rigori. Il capitano, in questa metafora calcistica, è ovviamente il sindaco del comune capoluogo, che fa e disfa mentre gli altri guardano dalla panchina. Parità di trattamento? Neanche l’ombra. Inclusività? Persa nei meandri delle buone intenzioni mai realizzate.
Le città metropolitane sono diventate l’esatto opposto di ciò in cui si sperava. Invece di avvicinare i cittadini alle istituzioni, ha creato un vuoto democratico che li allontana ancora di più. Il principio di sussidiarietà, quello che doveva portare le decisioni vicino al territorio, è rimasto uno slogan vuoto. Il potere resta saldamente nelle mani di pochi, con buona pace di chi sperava in un modello più moderno e partecipativo.
Le città metropolitane potevano essere un esempio di innovazione e inclusività, il motore di un’amministrazione pubblica finalmente al passo con le sfide delle grandi aree urbane. Invece, si sono trasformate nell’ennesimo capitolo della saga italiana delle riforme incompiute: grandi promesse, zero sostanza. Resta il retrogusto amaro di un’occasione persa.
E ora? Il futuro delle province
Le province, quegli enti dati più volte per spacciati, sono improvvisamente tornate al centro del dibattito politico. Non per un’improvvisa ondata di nostalgia, ma perché, piaccia o meno, continuano a essere indispensabili per la gestione di funzioni fondamentali come appunto la manutenzione delle strade o l’edilizia scolastica. Eppure, il loro destino rimane sospeso: rilanciarle, ridimensionarle o eliminarle definitivamente?
Una delle proposte più sostenute è il ritorno all’elezione diretta dei rappresentanti provinciali. L’idea è semplice: ridare ai cittadini il potere di scegliere chi li governa, perché, diciamocelo, un ente che funziona come un club esclusivo di sindaci e consiglieri comunali non è esattamente il trionfo della democrazia. Ma la legittimità popolare da sola non basta: senza risorse e poteri chiari, resterebbero scatole vuote, buone solo per far parlare i politici.
Il dibattito sulla governance locale: partiti a confronto
Negli ultimi mesi, la riforma delle province è tornata prepotentemente al centro del dibattito politico, trasformandosi in un vero laboratorio di idee e visioni strategiche. Tutti i principali schieramenti si sono lanciati nella mischia con le loro proposte, talvolta convergenti, altre volte profondamente divergenti. A fare da fulcro alla discussione c’è il Testo Unificato per la Riforma delle Province, presentato nel giugno 2023 alla Commissione Affari Costituzionali del Senato. Questo testo rappresenta il punto di sintesi di otto disegni di legge, frutto del lavoro congiunto di parlamentari appartenenti a diversi gruppi politici, con un obiettivo comune: superare definitivamente il lascito della contestata Legge Delrio del 2014.
Le proposte dei partiti: un caleidoscopio di visioni
Fratelli d’Italia spinge per una riforma che restituisca centralità alle province, proponendo il ripristino dell’elezione diretta di presidenti e consiglieri provinciali. Le province dovrebbero tornare a essere il fulcro della governance locale, capaci di gestire in modo strategico infrastrutture, scuole e viabilità, naturalmente con risorse adeguate.
La Lega condivide una visione simile, immaginando presidenti provinciali che possano anche nominare una giunta proporzionata alla popolazione della provincia. Il partito di Salvini vuole spingere ulteriormente, proponendo che il modello delle città metropolitane venga esteso a tutto il territorio nazionale, trasformando le province in un raccordo essenziale tra comuni e regioni.
Anche Forza Italia si allinea alla necessità di ridare alle province un ruolo pienamente operativo. L’accento, però, è posto sull’implementazione di strumenti finanziari stabili, indispensabili per garantire una gestione efficace e sostenibile delle competenze assegnate.
Sul fronte opposto, il Partito Democratico si presenta con un ventaglio di proposte articolato. In primo piano, un compromesso capace di bilanciare innovazione e continuità. Il PD propone il ritorno all’elezione diretta, affiancato da una revisione più ampia delle competenze territoriai, ma con una chiara apertura alla possibilità di lasciare margini di autonomia nella nomina delle giunte provinciali. La parola d’ordine è semplificazione, senza però ripristinare tout court il sistema pre-Delrio.
Un’apparente armonia bipartisan
Nonostante le differenze, i partiti convergono su alcuni punti centrali, come la necessità di archiviare definitivamente la Legge Delrio e restituire alle province risorse adeguate. Tuttavia, dietro questa armonia di facciata si nascondono obiettivi politici molto diversi. Per la maggioranza, la riforma rappresenta un’occasione per consolidare il controllo sui territori, mentre l’opposizione la vede come uno strumento per ridare legittimità democratica agli enti locali e migliorare la gestione dei servizi pubblici.
Uno sguardo al futuro: riforma o illusione?
Le province, dopo anni di incertezze, sembrano pronte a ritagliarsi nuovamente un ruolo di primo piano. Il Testo Unificato prevede che, entro diciotto mesi dall’approvazione della legge, il governo emani decreti legislativi per definire nel dettaglio funzioni e risorse degli enti provinciali. Questa sarà la vera prova del nove: una riforma capace di segnare una nuova era o l’ennesima occasione persa?
In fondo, come ha dichiarato lo stesso Graziano Delrio: “Il vero problema delle province non è la loro esistenza, ma le risorse che mancano per farle funzionare.” Una riflessione trasparente che porta con sé un interrogativo naturale: cosa ha gli impedito di intervenire per affrontarla durante il mandato?
Il contesto di austerità e la legge Delrio: una riforma in crisi di risorse
Il ridimensionamento delle province non è avvenuto in un periodo di vuoto politico, ma in uno segnato da una crisi economica senza precedenti. Quando Graziano Delrio era al governo, l’Italia si trovava nel pieno dell’austerità e dei tagli alla spesa pubblica, con politiche che avevano già iniziato a stringere il cappio intorno ai bilanci provinciali dal 2009.
La legge Delrio del 2014, come abbiamo già visto una riforma incompleta e controversa, non fece altro che spingere questi enti sull’orlo dell’irrilevanza. Ridimensionati a enti di secondo livello, privati di elezioni dirette e con competenze sempre più limitate, furono condannati a un’esistenza da comprimari nel panorama amministrativo italiano.
Delrio difese la sua riforma con una promessa accattivante: risparmiare circa un miliardo di euro. Una cifra ambiziosa, certo, ma che sembra più un prodotto di ottimismo creativo che di calcoli concreti. I numeri veri, quelli riportati dall’Unione delle Province d’Italia, raccontano un’altra storia: appena 52 milioni di euro risparmiati in dieci anni, contro i costi miliardari degli enti provinciali mantenuti intatti.
Una vera miseria, se confrontata con il caos amministrativo generato. Con funzioni ridotte all’osso e risorse quasi inesistenti, le province sono rimaste come scheletri di ciò che erano, prive di una direzione chiara e con una dirigenza politica che assomiglia più a un’agonia burocratica che a una riforma.
A ben guardare, il risparmio reale poteva arrivare solo perseguendo il secondo, e in fondo principale, obiettivo della legge: rendere le province talmente irrilevanti – leggere al punto giusto per non pesare più – da farle sparire senza sollevare proteste. Dunque non un piano per snellirle e renderle più efficienti, ma una dieta drastica studiata portarle alla cancellazione definitiva.
Peccato che avessero fatto i conti senza l’oste: la riforma costituzionale è stata bocciata tramite il referendum del 2016, lasciando le province a metà strada tra il passato e il nulla, in una crisi permanente di competenze e risorse, con cittadini sempre più lontani e servizi sempre meno efficaci.
I rischi di una chiusura definitiva
I fautori dell’abolizione definitiva delle province puntano tutto su una promessa: semplificare l’architettura amministrativa, trasferendo competenze e funzioni a regioni e comuni. Sulla carta sembra un’idea razionale, ma la realtà rischia di trasformarla in un disastro annunciato. Le province attualmente gestiscono oltre 132.000 chilometri di strade e più di 5.100 edifici scolastici superiori. Affidare queste responsabilità direttamente ai comuni, molti dei quali – soprattutto quelli più piccoli – faticano già a mantenere i servizi di base, significherebbe creare una bomba a orologeria amministrativa.
La crisi economica e i tagli strutturali degli ultimi dieci anni hanno già indebolito il sistema locale, con molti comuni che arrancano tra bilanci risicati e risorse insufficienti. Come potrebbero gestire anche la manutenzione delle strade provinciali o delle scuole superiori? Si rischierebbe di amplificare le disuguaglianze territoriali, lasciando le periferie e le aree interne senza un coordinamento strategico. Ecco perché molti vedono le province come una necessità, un ente intermedio capace di assicurare una visione d’insieme tra regioni e comuni.
Il rischio è chiaro: trasformare la semplificazione amministrativa in un abbandono dei territori, creando una frammentazione che penalizzerebbe i cittadini. Del resto, la stessa legge Delrio ha dimostrato quanto sia facile smantellare funzioni senza prevedere chi dovrà farsene carico. Lo spettro di una gestione inefficace e disarticolata, soprattutto in ambiti cruciali come la viabilità e l’edilizia scolastica, rende l’ipotesi della chiusura definitiva un salto nel buio.
I cittadini tra scetticismo e necessità
I cittadini italiani osservano le province con un misto di scetticismo e pragmatismo. Per molti, sono diventate entità evanescenti, percepite come inutili e lontane dalla vita quotidiana. Ma, quando si tratta di problemi concreti – strade dissestate o scuole superiori pericolanti – l’importanza delle province ritorna prepotentemente alla ribalta. È un rapporto ambivalente, paragonabile a quello con un parente distante: invisibile fino a quando non c’è un’emergenza, improvvisamente essenziale quando serve un aiuto pratico.
Tuttavia, l’indifferenza dei cittadini non nasce dal nulla. La percezione negativa delle province è il frutto di anni di tagli al bilancio e di una riforma che le ha svuotate di legittimità democratica e risorse. I presidenti e i consigli provinciali, oggi eletti indirettamente, sembrano lontani dalle esigenze reali del territorio, mentre i servizi essenziali peggiorano di anno in anno.
Questa distanza alimenta il risentimento verso le istituzioni, percepite come incapaci di rispondere ai bisogni locali. Eppure, l’assenza di un ente intermedio funzionale rischia di essere ben più problematica. Pur nel loro stato pessimo attuale, le province svolgono ancora un ruolo insostituibile: garantiscono infrastrutture strategiche e supportano i comuni più piccoli, quelli che senza assistenza rischiano di essere schiacciati dal peso delle responsabilità.
È forse arrivato il momento di riconoscere che l’apparente irrilevanza delle province è, in realtà, un riflesso delle scelte politiche che le hanno marginalizzate.
Verso una riforma (finalmente) chiara?
Il futuro delle province si gioca su tre aspetti fondamentali: democrazia, risorse e semplificazione. La riforma ideale dovrebbe partire da un ripensamento radicale del loro ruolo, chiarendo in modo definitivo le competenze e garantendo un finanziamento stabile. Ma c’è un problema: la politica italiana sembra più incline a rincorrere compromessi di breve termine che a pianificare riforme lungimiranti.
La storia recente delle province lo dimostra: dalla legge Delrio al fallimento del referendum del 2016, ogni tentativo di trasformazione si è arenato in un limbo di proposte a metà e aspettative disattese. Senza una visione strategica, c’è il rischio che anche questa volta si torni a un compromesso incapace di risolvere le ambiguità storiche.
Eppure, le province hanno il potenziale per diventare un pilastro della politica locale moderna. Per farlo, devono essere dotate di strumenti concreti per rispondere alle esigenze del territorio, mantenendo il collegamento tra comuni e regioni. La politica sarà in grado di cogliere questa opportunità? O assisteremo all’ennesima riforma zoppa, destinata a lasciare le province nel loro ruolo di relitti amministrativi?
La risposta resta sospesa. Proprio come i ponti delle strade provinciali: fermi, in bilico, e in attesa di una manutenzione che sembra non arrivare mai.
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