
Farmaci per lui, rischi per lei: la medicina che non considera le donne
Il mistero di due cuori
Anna e Marco non si conoscevano. Le loro vite scorrevano parallele, separate da abitudini diverse, città diverse, sogni diversi. Anna aveva trentacinque anni, due bambini che riempivano le sue giornate e un lavoro che amava, ma che, allo stesso tempo, le toglieva il sonno. Viveva con la costante pressione di dover essere all’altezza, in un equilibrio fragile tra responsabilità familiari e ambizioni professionali. Marco invece aveva superato i quarant’anni ed era un manager in carriera. La sua agenda era fitta di appuntamenti, incontri e scadenze. Portava un sorriso sicuro, quasi un’armatura invisibile che celava una stanchezza cronica, nascosta sotto strati di efficienza e controllo.
Non c’era motivo perché le loro strade si incrociassero. Eppure, fu proprio il destino a disegnare una traiettoria inaspettata, scegliendo un momento di fragilità condivisa. Un dolore improvviso al petto, un senso di oppressione che nessuno dei due poteva ignorare. Due ambulanze, due corse verso l’ospedale, due barelle che si fermano a pochi metri di distanza, separate solo da un muro sottile e impersonale. Stesso pronto soccorso, stessa urgenza. I medici si mossero rapidi, esami su esami, fino a una diagnosi identica: una condizione cardiaca acuta, la stessa per entrambi. Il protocollo era chiaro, la terapia definita: pillole prescritte con rigore, dosaggi calibrati secondo linee guida che promettevano risultati concreti.
E in un caso sembrava funzionare. Marco, nel giro di pochi giorni, riprese a camminare con sicurezza, il dolore scomparso, l’energia ritrovata. Anna, invece, rimaneva prigioniera di un corpo che sembrava non voler collaborare. Il dolore continuava a stringerle il petto, il cuore affaticato, lento, come se qualcosa al suo interno si ribellasse silenziosamente. I medici provarono di tutto: aggiustarono le terapie, cambiarono farmaci, rivalutarono la diagnosi. Ma non migliorava. Marco guariva. Anna no.
Perché? Era una questione di sfortuna? Oppure un caso clinico più complesso, magari una predisposizione genetica o un’anomalia nascosta? O c’era qualcosa di più grande, un dettaglio sfuggito agli occhi di chi pensava solo ai numeri e alle statistiche? La risposta era lì, nascosta in una verità scomoda, invisibile nelle cartelle cliniche ma evidente nei risultati. Bastava osservare con uno sguardo diverso, più profondo, capace di cogliere le sfumature che la medicina, a volte, tende a ignorare.
Quando finalmente fu scoperta, quella risposta sollevò domande difficili, minando certezze consolidate e costringendo a ripensare non solo il modo di curare, ma il modo stesso di guardare alla salute. Perché il mistero di due cuori non era solo la storia di Anna e Marco, ma di un sistema di pregiudizi invisibili, di differenze che vanno oltre i sintomi e che non possono essere ignorate.
La biologia non segue le regole del gioco
Quello che è accaduto ad Anna e Marco non è un’eccezione, né un enigma irrisolvibile. È il riflesso di una verità che la medicina ha troppo a lungo trascurato: le differenze biologiche tra uomini e donne non sono solo dettagli marginali o semplici curiosità anatomiche. Bensì variabili decisive che influenzano in modo profondo il modo in cui un farmaco viene assorbito, metabolizzato, distribuito ed eliminato da un corpo. Lo stesso principio attivo può curare un uomo ma essere inefficace, o addirittura dannoso, per una donna.
Un aspetto chiave è la composizione corporea. Le donne hanno una percentuale di tessuto adiposo significativamente più alta rispetto agli uomini, ovvero il tessuto corporeo che immagazzina i grassi e funge da riserva energetica, isolante termico e protezione per gli organi. Questo ha un impatto concreto: i farmaci lipofili, cioè che si sciolgono nei grassi, tendono ad accumularsi in questi depositi. Il rilascio del farmaco nel sangue è quindi più lento e può prolungarne l’effetto terapeutico, ma anche aumentare il rischio di effetti collaterali e tossicità. Questo vale in particolare per alcuni sedativi e anestetici, che restano più a lungo nell’organismo femminile, prolungandone gli effetti e aumentando la probabilità di reazioni avverse.
Un altro elemento cruciale è la clearance renale, ovvero la capacità dei reni di eliminare i farmaci. Anche a parità di peso corporeo, le donne presentano una velocità di filtrazione glomerulare (cioè di clearance renale) inferiore rispetto agli uomini in media del 10%. Ciò significa che i farmaci idrosolubili, come alcuni antibiotici e farmaci cardiovascolari, possono permanere più a lungo nell’organismo femminile, alterando l’equilibrio tra beneficio e rischio e aumentando le possibilità di accumulo e di effetti collaterali indesiderati.
Ad esempio, lo zolpidem, un farmaco per l’insonnia, viene eliminato più lentamente nelle donne, aumentando il rischio di sedazione prolungata e la compromissione delle capacità motorie il mattino successivo. Nel 2011, la FDA ha approvato dosaggi differenti per uomini e donne, riconoscendo queste differenze metaboliche. Un altro caso riguarda l’aspirina, che presenta un maggiore effetto antiaggregante (la capacità di impedire i coaguli di sangue) negli uomini, mentre nelle donne si osserva più frequentemente una minore efficacia. Ignorare queste differenze significa compromettere la sicurezza dei trattamenti.
Differenze simili esistono anche nel metabolismo epatico, regolato da enzimi specifici che trasformano i farmaci prima della loro eliminazione. Alcuni di questi enzimi, in particolare della famiglia del citocromo P450, possono essere più attivi nelle donne, accelerando la degradazione di certi farmaci e riducendone l’efficacia. Altri, invece, lavorano più lentamente, prolungando la presenza del farmaco nel sangue e aumentando il rischio di sovradosaggio. Ad esempio, il diazepam (Valium), sedativo molto diffuso, viene eliminato più lentamente nelle donne, aumentando il rischio di sedazione prolungata. Al contrario, l’eritromicina, un antibiotico, può causare più frequentemente nelle donne Torsades de Pointes, una pericolosa aritmia cardiaca, a causa di differenze nel metabolismo del farmaco. Queste variazioni farmacocinetiche sottolineano l’importanza di considerare il genere nella prescrizione e nel dosaggio dei farmaci.
E poi ci sono gli ormoni. Gli estrogeni, il progesterone e il testosterone influenzano la velocità con cui il corpo metabolizza i farmaci, alterando la distribuzione e la risposta terapeutica. Questo significa che una donna potrebbe avere una reazione diversa a uno stesso farmaco in momenti diversi della sua vita, a seconda della fase ormonale in cui si trova. Le fluttuazioni ormonali influenzano anche il metabolismo di farmaci comuni. Ad esempio, l’effetto sedativo delle benzodiazepine può variare in base alle diverse fasi del ciclo mestruale, influenzando la risposta terapeutica. I beta-bloccanti, utilizzati per il controllo della pressione arteriosa, possono avere un’efficacia diversa nelle donne rispetto agli uomini, in base alle variazioni ormonali. Inoltre, le donne presentano una maggiore attività dell’enzima CYP2C19 rispetto agli uomini, che interessa il metabolismo di alcuni antidepressivi e ansiolitici. Queste differenze evidenziano la necessità di un approccio personalizzato per le terapie farmacologiche.
Quando si pianificano studi per valutare le differenze di genere in medicina, è dunque essenziale considerare tutta una serie di fattori: genetici ed epigenetici, ormonali, ambientali, culturali, psicologici e relativi agli stili di vita.
Differenze che non sono mai dettagli irrilevanti. Ma fattori che determinano se un farmaco sarà efficace o pericoloso. Eppure, per anni questi parametri sono stati totalmente ignorati dalla ricerca. La maggior parte degli studi clinici è stata condotta su uomini, come se il corpo femminile fosse una sorta di variante minore. Il risultato? Una medicina che, ancora oggi, non è progettata per le donne.
Già nel 1991, Bernardine Healy pubblicò il celebre editoriale “The Yentl Syndrome” pubblicato sul New England Journal of Medicine, dove denunciava come le donne fossero spesso sottodiagnosticate e sottoposte a meno procedure diagnostiche e terapeutiche rispetto agli uomini. Healy si chiedeva se anche per ottenere cure adeguate fosse necessario essere un paziente maschio. Una simile discriminazione ha radici profonde, compresa la scarsa inclusione delle donne negli studi clinici. Nonostante i progressi, le donne sono ancora sottorappresentate negli studi clinici, così molti farmaci sono approvati sulla base di risultati ottenuti su una popolazione prevalentemente maschile.
Diagnosi tardive o errate: quando il modello di riferimento è maschile
Se il modello diagnostico si basa su parametri maschili, chiunque non rientri in quegli schemi potrebbe non ricevere terapie adeguate. Le malattie ad esempio non si manifestano sempre allo stesso modo nei due sessi e l’errore di considerare i sintomi maschili come standard universale ha conseguenze gravissime.
Prendiamo una patologia grave come l’infarto, come nel caso di Marco e Anna. Negli uomini, l’attacco cardiaco si presenta molto spesso con il classico dolore al petto che si irradia lungo il braccio sinistro. Nelle donne, invece, può manifestarsi con nausea, dolore addominale, affaticamento e ansia. Segnali meno eclatanti, che troppo spesso sono ignorati o attribuiti a disturbi di natura psicosomatica. Questa atipicità ha storicamente portato a una sottodiagnosi dell’infarto nelle donne, che, tuttavia, rappresenta la prima causa di morte tra le donne in Europa e in Italia.
Lo stesso fenomeno si osserva, a parti invertite, in ambito oncologico. Il cancro al seno, per esempio, è erroneamente percepito come una malattia esclusivamente femminile, con la conseguenza che negli uomini viene diagnosticato solo in fase avanzata, quando le possibilità di trattamento sono già drasticamente ridotte. In psichiatria, poi, le differenze di genere nella diagnosi si trasformano in una trappola: le donne vengono più facilmente etichettate con disturbi d’ansia o depressione, mentre negli uomini prevalgono diagnosi legate a comportamenti impulsivi o aggressivi. Questi schemi influiscono anche sulla rilevazione di disturbi neuropsichiatrici nei bambini, dove i criteri diagnostici spesso si basano su sintomi più frequenti nei maschi, lasciando irriconosciute molte manifestazioni tipicamente femminili.
Verso una medicina più equa
Negli ultimi anni, la consapevolezza delle diseguaglianze di genere nella ricerca e nella pratica medica ha iniziato a emergere anche a livello legislativo. L’Italia detiene il primato assoluto: è stata la prima nazione al mondo a riconoscere formalmente l’importanza della medicina di genere, con la Legge 3/2018. Questa legge ha introdotto il parametro “genere” nella sperimentazione clinica dei farmaci e nella definizione di percorsi diagnostico-terapeutici e formativi, inserendolo ufficialmente nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
A seguito di questa normativa, nel 2019 è stato approvato dal Ministero della Salute il “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere”, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Il Piano ha individuato quattro ambiti chiave su cui intervenire: ricerca e innovazione, formazione del personale sanitario, comunicazione e integrazione della medicina di genere nei percorsi di diagnosi e cura.
Un ulteriore passo avanti è stato compiuto nel 2020 con l’istituzione dell’Osservatorio per la Medicina di Genere, sempre presso l’ISS. Questo organismo ha il compito di monitorare l’applicazione delle misure previste, promuovere la ricerca e incentivare la formazione degli operatori sanitari per garantire un cambiamento concreto nella pratica clinica e nella ricerca farmacologica.
Nonostante questi sviluppi, l’attuazione del Piano e l’impatto delle nuove direttive procedono ancora a rilento. Molti farmaci continuano a essere testati prevalentemente su uomini, e l’adeguamento delle linee guida cliniche alle specificità femminili rimane parziale. La strada è tracciata, ma la medicina di genere non può restare solo un principio teorico: servono investimenti, ricerca mirata e un cambiamento culturale per trasformare le buone intenzioni in una reale equità terapeutica.
Tuttavia, negli ultimi anni, la FDA negli Stati Uniti, l’EMA in Europa e l’AIFA in Italia hanno adottato misure più stringenti per garantire una rappresentanza equilibrata di genere nei trial clinici. Questi enti regolatori hanno iniziato a bloccare i protocolli di ricerca che non includono un numero adeguato di partecipanti femminili, costringendo le aziende farmaceutiche a riconsiderare il loro approccio alla sperimentazione.
Ma c’è ancora molta strada da fare. Molti farmaci continuano a essere testati su modelli maschili, senza adeguamenti per il corpo femminile. L’adeguamento delle linee guida cliniche procede a rilento e la consapevolezza del problema è ancora limitata. Secondo uno studio della FDA le donne hanno un rischio ben 1,5-1,7 volte maggiore rispetto agli uomini di sviluppare effetti collaterali per i farmaci. E poi, tra il 1997 e il 2000, il 70% dei farmaci ritirati dal mercato presentava rischi maggiori per la salute femminile. Storicamente, le donne sono state sottorappresentate negli studi clinici, sia per motivi di sicurezza legati alla fertilità, sia – come abbiamo visto – per una percezione errata della loro fisiologia come una semplice variante di quella maschile. Questo approccio ha portato a farmaci che, una volta immessi sul mercato, si sono rivelati meno efficaci o più rischiosi per il corpo femminile. In realtà, anche dopo l’immissione in commercio dei farmaci, è fondamentale continuare a monitorare e valutare eventuali differenze di genere nelle reazioni avverse. La farmacovigilanza di genere permette di identificare segnali di rischio specifici per le donne e di adottare misure per proteggere la loro salute.
La medicina di genere non può restare solo un principio teorico: servono investimenti, ricerca mirata e un cambiamento culturale per trasformare le buone intenzioni in una reale equità terapeutica.
In futuro, sarebbe auspicabile che le autorità regolatorie richiedano protocolli di ricerca e sviluppo dedicati a uomini e donne, per i nuovi farmaci. Inclusi l’analisi separata di linee cellulari maschili e femminili, lo studio della farmacocinetica, della tossicità e della cancerogenicità in modelli animali di entrambi i sessi, e l’inclusione di un numero adeguato di uomini e donne negli studi clinici con analisi separate dei risultati. Solo così potremo garantire che i farmaci siano sicuri ed efficaci per tutti.
Se la medicina fosse stata progettata pensando anche ad Anna, il suo percorso sarebbe stato diverso. Perché la vera equità terapeutica non si misura solo nella quantità di farmaci disponibili, ma nella loro capacità di funzionare per tutti, senza che nessuno sia lasciato indietro.