ReArm Europe – Readiness 2030: cosa c’è dietro il nuovo piano europeo di difesa

ReArm Europe Readiness 2030

Abstract – Di cosa parliamo

Nel 2025 l’Unione Europea ha presentato un piano senza precedenti per rilanciare la propria capacità di difesa: “ReArm Europe – Readiness 2030”. Ma dietro le cifre miliardarie e gli slogan sulla “sovranità strategica”, si nascondono interrogativi concreti: chi paga, chi decide e chi produce?
Questa analisi ricostruisce il percorso politico e normativo che ha portato alla proposta della Commissione, passando per il voto del Parlamento europeo e l’adozione del Libro Bianco della difesa. Spiega come funzioneranno le deroghe al Patto di stabilità, il nuovo fondo europeo SAFE da 150 miliardi, e quali saranno le implicazioni per l’industria bellica europea.
Il testo mette in luce le fratture tra Paesi, gli squilibri industriali e le critiche sul possibile impatto sociale, economico e democratico di una strategia che segnerà il futuro dell’Europa. Una sezione è dedicata alla riflessione su come una difesa europea intelligente – fondata su sistemi antimissile, forze speciali, cybersicurezza e tecnologie quantistiche – potrebbe rivelarsi più efficace e sostenibile di un riarmo indiscriminato.
Un’attenzione particolare è infine riservata all’Italia: il dossier analizza quanto peseranno le nuove spese militari sul bilancio pubblico nazionale, quali conseguenze potrebbero avere per i cittadini e quali rischi si corrono in termini di redistribuzione economica interna all’Unione.

ReArm Europe – Readiness 2030: cosa c’è dietro il nuovo piano europeo di difesa

Una proposta nata in emergenza

Nei primi mesi del 2025, la Commissione europea ha proposto un ambizioso piano per rafforzare la capacità di difesa dell’Unione. L’iniziativa, battezzata inizialmente “ReArm Europe” e poi ridenominata “Readiness 2030”, mira a costruire una vera architettura militare europea entro la fine del decennio. Alla base c’è una preoccupazione crescente per la stabilità del continente, aggravata dalle tensioni con la Russia e dalle incertezze sul ruolo futuro degli Stati Uniti nella NATO.

Il piano è stato annunciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen con un’accelerazione inusuale. Per avviarlo rapidamente, ha invocato l’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, che consente di aggirare il voto del Parlamento in caso di emergenze economiche o energetiche. Una mossa che ha sollevato immediate critiche, soprattutto perché non era chiaro se l’uso di questa procedura fosse legittimo per un progetto di riarmo, dato che il piano ReArm non nasce da un’improvvisa mancanza di risorse militari né da un’emergenza energetica ma da una strategia di lungo periodo per rafforzare la difesa europea. La pressione politica ha costretto la Commissione a rientrare nei ranghi e rinunciare a invocare l’emergenza che non sembrava giuridicamente giustificata: il piano è stato dunque sottoposto al voto dell’Eurocamera.

Il Parlamento vota: tra sostegni, dubbi e spaccature

Il 12 marzo 2025, durante una seduta a Strasburgo, il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza una risoluzione di sostegno al piano. Ma il voto è stato tutt’altro che unanime: 419 favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni. I contrasti hanno attraversato non solo le famiglie politiche europee ma anche i singoli partiti nazionali. In Italia, ad esempio, Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno sostenuto il piano, la Lega – pur essendo nella maggioranza di governo insieme a FDI e FI – ha votato contro, mentre il Partito Democratico si è spaccato a metà.

Il Movimento 5 Stelle ha votato contro e inscenato una protesta, insieme ad altri gruppi contrari al riarmo, sottolineando la necessità di soluzioni diplomatiche e il rischio di uno spostamento radicale verso un’Europa militarizzata; durante la plenaria, i suoi eurodeputati hanno esposto cartelli con slogan pacifisti e indossato fasce bianche con la scritta “PACE”, manifestando in silenzio contro il piano.

parlamento europeo

Dal voto al Libro Bianco: cosa è cambiato

Una settimana dopo il voto, il 19 marzo, la Commissione ha pubblicato un “Libro Bianco sulla difesa”, che riprende i contenuti della proposta iniziale ma ne precisa aspetti pratici e operativi. Il documento conferma l’obiettivo di una difesa comune europea entro il 2030 e mette nero su bianco le misure finanziarie previste per raggiungerlo.
La decisione di redigere il Libro Bianco è maturata anche alla luce delle osservazioni espresse nel corso del Consiglio Europeo, dove i capi di Stato e di governo – pur condividendo l’urgenza di rafforzare la difesa – hanno chiesto maggiore chiarezza e bilanciamento tra ambizione europea e sovranità nazionale. La Commissione, tenendo conto di queste indicazioni, ha rivisto la proposta originaria di von der Leyen, rendendola più strutturata e articolata.
Una delle principali novità riguarda gli acquisti militari: per rafforzare l’industria interna, il Libro Bianco introduce clausole “Buy European”. In pratica, per beneficiare dei fondi europei, almeno il 65% dei componenti delle armi dovrà essere di origine europea. Una soglia che sale ancora per i sistemi strategici, come la difesa aerea, per i quali si pretende il controllo completo della progettazione.

Spese militari fuori dal conteggio del deficit?

Il cuore economico del piano è rappresentato da una proposta che potrebbe cambiare il modo in cui si calcola la spesa pubblica in Europa. Si prevede infatti che gli Stati membri possano spendere fino all’1,5% del loro PIL in armamenti senza che questa spesa venga conteggiata nei deficit nazionali.
In altre parole, si tratterebbe di soldi effettivamente spesi dallo Stato, ma che non verrebbero “ufficialmente” registrati tra le spese che pesano sul bilancio secondo le regole europee. È un po’ come se venissero scritte su un foglio a parte. Questo permetterebbe ai governi di evitare di sforare i limiti imposti dal Patto di stabilità e quindi di non incorrere nelle procedure di infrazione o sanzione previste, ma solo per le spese di riarmo.

Va ricordato che per “deficit” si intende la differenza annuale tra quanto lo Stato spende e quanto incassa: se spende più di quanto guadagna, va in deficit. Il Patto europeo prevede che questo non debba superare il 3% del PIL, e se uno Stato lo supera senza giustificazioni accettate, può essere richiamato o sanzionato.

Questo meccanismo, chiamato “clausola di fuga” dal Patto di stabilità, permetterebbe teoricamente di sbloccare circa 650 miliardi di euro nei prossimi quattro anni, se tutti i Paesi aderissero. Ma non è detto che tutti lo facciano: Paesi con debiti elevati come Italia e Francia potrebbero essere più cauti, mentre altri – come la Germania – sono già pronti a sfruttare questa flessibilità.

Il problema principale, però, è che non esistono ancora criteri condivisi su quali spese verrebbero effettivamente escluse dal deficit e chi avrà l’ultima parola. La Commissione manterrà un ruolo centrale, ma alcuni Stati chiedono garanzie su trasparenza e controllo democratico.

Prestiti europei: nasce lo strumento SAFE

Accanto alla flessibilità di bilancio, il piano prevede un nuovo strumento finanziario: SAFE, acronimo di Security Action for Europe. Si tratta di un fondo da 150 miliardi di euro, che l’UE raccoglierà sui mercati finanziari emettendo obbligazioni. I fondi non saranno distribuiti a fondo perduto, ma prestati agli Stati membri a condizioni favorevoli. Ogni governo dovrà presentare una richiesta entro sei mesi dalla creazione del fondo, specificando come intende usare i soldi.

I prestiti saranno destinati a finanziare progetti congiunti nel settore della difesa, come l’acquisto coordinato di armamenti, l’ammodernamento delle infrastrutture militari o lo sviluppo di tecnologie comuni. Oltre agli Stati membri dell’Unione, potranno accedere al fondo anche alcuni Paesi candidati all’adesione, tra cui l’Ucraina, attualmente in guerra. La sua inclusione riflette una volontà politica dell’UE di sostenere l’avvicinamento istituzionale e militare del Paese, ma solleva interrogativi, perché SAFE nasce come strumento di cooperazione industriale e non dovrebbe, formalmente, finanziare operazioni belliche in corso.

Sono invece esclusi Paesi extraeuropei come gli Stati Uniti, anche se coinvolti in altri programmi di difesa. Il Libro Bianco prevede inoltre che gli acquisti effettuati congiuntamente tramite SAFE possano essere esentati dall’IVA, per ridurre i costi e incentivare la cooperazione tra Stati.

L’industria della difesa europea: chi vince e chi resta indietro

Una delle ragioni che ha spinto la Commissione a introdurre la clausola “Buy European” è la frammentazione dell’industria bellica europea. La produzione è concentrata in pochi grandi Paesi, in particolare Francia e Germania, che da anni esportano armamenti su larga scala. La Francia, ad esempio, è il terzo esportatore mondiale di armi, grazie a colossi come Dassault, Thales e Naval Group. La Germania, invece, ha puntato su veicoli blindati e armi leggere, con aziende come Rheinmetall e Heckler & Koch.

Italia e Spagna giocano un ruolo minore. In Italia, Leonardo rappresenta quasi l’unico attore di peso, mentre la Spagna si è ritagliata uno spazio nel settore aeronautico, ma con volumi ancora lontani dai big europei. Il rischio, secondo molti analisti, è che il piano rafforzi le posizioni di partenza, lasciando i Paesi più deboli ancora più dipendenti da quelli più forti.

Germania Francia

Critiche e divisioni politiche

Nonostante l’apparente consenso istituzionale, il piano ha suscitato molte perplessità. Alcuni partiti criticano l’idea che si possa sforare i vincoli di bilancio solo per la spesa militare, mentre investimenti sociali o ambientali restano soggetti a regole rigide. Altri temono una deriva militarista dell’Unione, che potrebbe allontanare l’Europa dal suo tradizionale ruolo di potenza civile.

Anche il coinvolgimento del settore privato nella produzione bellica preoccupa parte dell’opinione pubblica, così come la revisione del mandato della Banca Europea per gli Investimenti, che potrebbe essere autorizzata a finanziare direttamente progetti militari, superando l’attuale limite ai soli usi “duali” (civili e militari).

Prossime tappe: vertici, scadenze e nuovi equilibri

La roadmap tracciata dalla Commissione punta a chiudere il piano entro l’estate. Il Consiglio europeo di giugno 2025, che seguirà il vertice NATO in Olanda, sarà il momento decisivo. In quell’occasione, i leader dell’UE dovranno decidere se attivare ufficialmente la clausola di bilancio e avviare lo strumento SAFE.

Nel frattempo, si discuterà anche di come finanziare eventuali espansioni del piano. Alcuni, come il presidente francese Emmanuel Macron, spingono per introdurre nuove tasse europee – come la digital tax – o emettere Eurobond per sostenere la difesa comune.

Ma restano forti divergenze tra gli Stati. I Paesi Bassi, ad esempio, sono riluttanti ad aumentare la spesa pubblica. E molti Paesi dell’Est temono che il riarmo si traduca in un rafforzamento sproporzionato delle industrie francesi e tedesche.

Più forte o più divisa?

In apparenza, ReArm Europe – Readiness 2030 è un progetto per rafforzare la sicurezza europea. Ma dietro le formule tecniche e le cifre miliardarie si nascondono scelte politiche che plasmeranno l’Europa del futuro: chi comanda, chi paga, chi produce e chi decide. La sfida, oggi, è capire se questa strategia costruirà un’Europa più forte e autonoma, o se finirà per accentuare gli squilibri già esistenti tra i suoi membri.

Difendere l’Europa con intelligenza

Al di là delle discussioni sui fondi, sui vincoli di bilancio e sulle regole del Patto di stabilità, resta una domanda centrale: come dovrebbero essere spesi i soldi del riarmo europeo?
La struttura attuale del piano ReArm Europe sembra orientata a rafforzare in modo orizzontale tutti i segmenti industriali, privilegiando i grandi produttori esistenti. Ma è lecito chiedersi se non sarebbe molto più utile e lungimirante orientare gli investimenti verso ambiti davvero strategici e mirati, invece di alimentare un riarmo generalizzato.

In un contesto internazionale sempre più frammentato, l’Unione Europea non potrà mai competere numericamente con le forze armate di potenze come Stati Uniti, Cina o Russia. Ma potrebbe invece concentrarsi sull’eccellenza, costruendo un modello di difesa fondato su capacità specifiche e ad alta tecnologia.
È proprio questo il punto su cui oggi convergono molte esperienze internazionali: le forze militari più efficaci non sono quelle più grandi, ma quelle più intelligenti, rapide, specializzate e capaci di cooperare. Per un continente come l’Europa, ricco di competenze ma diviso da molteplici sovranità, la via della specializzazione integrata sarebbe non solo più efficace, ma anche più realistica e sostenibile.

Forze speciali

Una prima priorità dovrebbe essere la creazione di un sistema europeo di difesa antimissile, ispirato a modelli già esistenti come l’Iron Dome israeliano, capace di proteggere le infrastrutture civili e critiche da attacchi aerei, missilistici o droni. Questo tipo di difesa non è solo militare, ma anche civile: garantisce la sicurezza delle città, degli aeroporti, dei porti, delle centrali energetiche.

Una seconda direzione fondamentale riguarda la costruzione di forze d’élite paneuropee, altamente addestrate e coordinate: reparti come gli incursori, le forze speciali di pronto intervento della marina, e unità ad alta capacità di penetrazione operativa. In Italia esistono già esperienze di eccellenza come il GOI (Gruppo Operativo Incursori della Marina) o il GOS (Gruppo Operativo Subacquei), che potrebbero diventare modelli per un’esperienza europea comune.

Un terzo asse – forse il più urgente – è quello della guerra cibernetica, già in atto su più fronti. Il piano Readiness 2030 menziona la cybersicurezza, ma serve un investimento molto più robusto e strutturato, sia sul piano della difesa attiva che nella ricerca avanzata in tecnologie quantistiche (con tecnologie quantistiche si intendono sistemi informatici e di comunicazione basati sui principi della fisica quantistica, capaci di superare di gran lunga la potenza e la velocità dei computer tradizionali, e di rendere quasi impossibile intercettazioni o violazioni), il prossimo terreno decisivo della competizione militare globale.

Infine, un’Unione che vuole davvero essere strategicamente autonoma non può prescindere da un’intelligence europea integrata, che raccolga e analizzi dati, sviluppi scenari e prevenga conflitti. L’attuale frammentazione dei servizi segreti nazionali rende l’UE vulnerabile a manipolazioni e influenze esterne.

Chi paga? quale sarà l’impatto sulla spesa pubblica e sui cittadini italiani

Uno degli aspetti più trascurati nel dibattito sul piano Readiness 2030 riguarda il costo reale di questa strategia per i singoli Stati membri – e in particolare per un Paese come l’Italia. Perché, al di là dei meccanismi europei e delle clausole tecniche sul deficit, resta una verità di fondo: anche se non vengono conteggiati nei parametri di bilancio europei, i soldi spesi in armamenti sono comunque denaro pubblico. Denaro che va trovato, allocato, e che ha inevitabilmente un impatto sulle priorità dello Stato.

Nel caso italiano, se il governo decidesse di attivare per intero la cosiddetta “clausola di fuga” dal Patto di stabilità, la spesa militare potrebbe arrivare fino all’1,5% del PIL. Con un prodotto interno lordo di circa 2.200 miliardi di euro, questo significherebbe impegnare fino a 30 miliardi di euro all’anno in più, per quattro anni consecutivi. È una cifra enorme. Anche se formalmente non peserebbe sul calcolo del deficit secondo le regole UE, si tratta pur sempre di risorse che devono essere effettivamente spese.

Ma dove si troveranno questi soldi? Il piano non prevede trasferimenti europei a fondo perduto, né esiste al momento un meccanismo di redistribuzione tra Stati membri. Se l’Italia accedesse ai 150 miliardi di euro previsti dallo strumento SAFE, lo farebbe attraverso prestiti: denaro che lo Stato riceve, ma che dovrà restituire, con interessi, negli anni successivi.

E così, per quanto suoni astratto parlare di “1,5% del PIL”, il significato pratico per i cittadini italiani è molto concreto. Una spesa aggiuntiva di decine di miliardi all’anno in armamenti potrebbe finire per comprimere le altre voci di bilancio: quelle destinate alla sanità, all’istruzione, alla transizione ecologica. Oppure potrebbe portare a nuove forme di prelievo fiscale, magari indirette, che rischiano di gravare in modo sproporzionato sulle fasce più deboli della popolazione.

C’è poi un altro nodo irrisolto: quello industriale. Se l’Italia decide di investire miliardi in armamenti, ma gran parte della produzione resta concentrata in Francia o in Germania, il rischio è che buona parte di quella spesa finisca fuori dai confini nazionali, alimentando economie più forti e industrie già consolidate. In altre parole, l’Italia potrebbe trovarsi nella posizione di “pagare” più di altri, ottenendo però meno benefici diretti in termini occupazionali e tecnologici.

Questa è, in fondo, la grande domanda politica di tutto il piano: non solo come rafforzare la difesa europea, ma anche come farlo in modo equo. Perché un’Europa che spende insieme ma non redistribuisce i frutti della sua spesa rischia di amplificare le disparità interne, lasciando alcuni Paesi più vulnerabili e più esposti, anche economicamente.

Una scelta politica, non tecnica

Il piano ReArm Europe – Readiness 2030 si presenta come un’azione strategica inevitabile, imposta dalla geopolitica e dall’urgenza. Ma è bene ricordare che non siamo in guerra. L’Europa vive – ancora – in un tempo di pace, e proprio per questo ha la responsabilità di scegliere con lucidità e lungimiranza come costruire la propria sicurezza.

La politica ha il dovere di esercitare discernimento. Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è politicamente giusto. Se si decide di investire centinaia di miliardi nella difesa, allora bisogna farlo con misure proporzionate, trasparenti e solidali, sapendo che ogni scelta di bilancio ha conseguenze dirette sulla vita quotidiana dei cittadini.

È questo il momento per calmierare le spese, evitare corse generalizzate al riarmo e orientare il progetto europeo verso una vera difesa intelligente: integrata, selettiva, efficace. È anche il momento per garantire che gli sforzi economici non ricadano in modo diseguale tra gli Stati, né penalizzino i servizi pubblici e i diritti sociali.

Costruire una difesa europea può essere un’opportunità. Ma solo se sarà una scelta politica consapevole, democratica e radicata nella pace, non una deriva emergenziale travestita da normalità.