- lunedì 01 Dicembre 2025
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Il grande inganno del carbonio: cosa si nasconde dietro l’etichetta “a impatto zero”

“Il sigillo verde sulla confezione”

Sei al supermercato. Cammini lentamente tra gli scaffali, circondato da moltitudini di confezioni colorate. Ogni prodotto sembra fissarti e attrarti con scritte sgargianti e parole così “giuste” e divertenti! Sei colto dalla solita vertigine, quel lieve malessere che ti prende – quasi una nausea – ogni volta che vieni esposto all’eccesso di scelte, all’eccesso di stimoli, a così tante possibilità… è così ogni volta che vai al supermercato, o navighi in rete. Eppure, ultimamente c’è qualcosa che ti ritempra, c’è un criterio di scelta che ti dà reale soddisfazione, che ti fa sentire bene: cercare quel piccolo simbolo verde, quel sigillo che parla di rispetto, di impegno, di cambiamento, per un mondo che verrà. E che speri venga al più presto.

Ed eccolo lì. Lo vedi su una confezione di biscotti. La scritta a impatto zero (carbon neutral) si staglia, come una promessa silenziosa. Ti fermi, e all’improvviso il tuo gesto quotidiano e ordinario si carica di significato. Per un attimo, i pensieri ti portano lontano. Sei parte di qualcosa di più grande, di una rete silenziosa di persone che con piccoli gesti come questo si prende cura del pianeta, combatte l’inquinamento e affronta una realtà immensa e complessa, densa di sofferenza. Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla, risuona nella tua testa. Non è proprio un pensiero chiaro, più un sentimento.

Ti soffermi, e la sensazione che provi non è solo compiacimento: è pace. Pace con te stesso, con il mondo, con l’idea che anche tu stai facendo la tua parte. Non puoi risolvere tutto, lo sai, ma è confortante sapere che, mentre scegli i tuoi biscotti preferiti, stai anche scegliendo di dare il tuo contributo per qualcosa di più grande. Pensi agli animali innocenti, ai bambini che un giorno cresceranno in un mondo migliore, ai fiumi e alle foreste che potranno respirare più liberamente.

Metti la confezione nel carrello, e quel piccolo gesto ti fa sentire speciale. Un eroe moderno. È una soddisfazione semplice ma profonda: non stai solo facendo la spesa, stai partecipando a una battaglia per il futuro. Il tuo è un atto politico, e quel sigillo verde è la tua medaglia.

Ma cosa significa per davvero a impatto zero? Una domanda che per molti rimane senza risposta. Negli ultimi anni, tuttavia, vari scandali hanno gettato ombra su quelle promesse carbon neutral stampate sulle confezioni. Il più clamoroso, nel 2023, ha coinvolto Verra – il principale ente certificatore di crediti di carbonio – svelando che molti dei crediti venduti erano in realtà “fantasma”, privi di reale valore ambientale. Di fronte a queste rivelazioni, le autorità sono intervenute: l’Unione Europea ha varato la Green Claims Directive e normative più rigide per vietare le etichette ambientali vaghe e infondate. Termini come “sostenibile” o “a impatto zero” non possono più campeggiare sulle confezioni alla leggera: oltre la metà delle dichiarazioni green analizzate a livello europeo si è rivelata fuorviante o priva di prove concrete. Questo giro di vite sta cambiando il panorama: quel rassicurante simbolo verde, per continuare a brillare, dovrà ora rappresentare un impegno autentico e trasparente, sostenuto da dati verificabili e controlli indipendenti.

Dietro alla promessa della neutralità carbonica, infatti, si nasconde un sistema complesso e a volte contraddittorio. Per comprenderlo, dobbiamo esplorare come funziona il mercato dei crediti di carbonio, le sue opportunità e le sue insidie. È questo il viaggio che stiamo per iniziare.

Sembra tutto perfetto, troppo bello per essere vero, quasi magico!

Carbon neutral e biscotti

Eppure…

Eppure, dietro questa promessa luminosa si cela un’industria tanto complessa quanto opaca: quella dei mercati di crediti di carbonio volontari. “Volontari” perché la partecipazione è libera, cioè non imposta da normative statali o internazionali. Le aziende, le organizzazioni e persino i singoli individui scelgono se acquistare o vendere crediti di carbonio in base a criteri soggettivi, che possono essere etici, propagandistici o strategici — spesso i crediti vengono acquistati per migliorare la propria immagine — senza essere appunto obbligati a farlo.

Tuttavia, il confine tra volontarietà e regolazione si fa sempre più sottile. Gli standard indipendenti, come i Core Carbon Principles dell’Integrity Council, stanno diventando di fatto dei requisiti minimi, mentre l’Unione Europea ha iniziato a mettere sotto osservazione anche questo mercato, con l’obiettivo di garantire maggiore trasparenza e prevenire l’uso ingannevole delle compensazioni nei confronti dei consumatori e degli investitori.

È proprio in questa zona grigia — dove la libertà d’azione non è ancora regolata, ma nemmeno del tutto neutra — che sorgono dubbi e criticità.


Un credito di carbonio rappresenta una tonnellata di anidride carbonica (CO₂) — o di un gas serra equivalente — che è stata evitata, ridotta o rimossa dall’atmosfera grazie a un progetto certificato. Questi crediti sono generati da iniziative che contribuiscono a ridurre le emissioni climalteranti, come piantare alberi, proteggere foreste esistenti, promuovere l’energia rinnovabile, migliorare l’efficienza energetica o utilizzare tecnologie per la cattura del carbonio. Affinché un credito sia valido, però, deve rispettare criteri sempre più riconosciuti a livello internazionale, come l’addizionalità, la permanenza, la quantificazione verificabile e l’assenza di doppio conteggio.


Come viene garantito che i progetti compensino realmente la quantità di carbonio dichiarata, nello specifico, una tonnellata di anidride carbonica per ogni credito di carbonio? Davvero i progetti finanziati con i crediti di carbonio riescono sempre a mantenere le loro promesse? E se non ci riescono, perché non ci riescono? Quanto possiamo fidarci di un sistema che, pur mirato ad affrontare la crisi climatica, sembra favorire operazioni di facciata più che risultati concreti?

Esistono anche mercati di crediti di carbonio obbligatori, regolamentati da norme rigorose; mentre per i mercati volontari le regole sono rimaste a lungo frammentarie e poco precise. Questo ha favorito una crescita accelerata, con un valore di 2,4 miliardi di dollari già nel 2023, trainata dal desiderio delle aziende di mostrare il proprio impegno per la sostenibilità. Ma la mancanza di controlli stringenti ha aperto la strada a fenomeni fraudolenti, come i crediti di carbonio “fantasma”: certificati che non rappresentano reali riduzioni di emissioni, o che finanziano progetti inefficaci o già esistenti.

Immaginiamo, ad esempio, un’azienda che compra crediti legati a un progetto di conservazione forestale in una zona già protetta da leggi locali, dove la foresta non corre alcun pericolo. Quel progetto non aggiunge nulla alla protezione dell’ambiente, eppure permette all’azienda di dichiarare che il proprio prodotto è a impatto zero (carbon neutral). Il risultato? Un’illusione di sostenibilità, mentre il problema rimane irrisolto, perché le tonnellate di carbonio prodotte dall’azienda non sono realmente compensate.

Eppure, non tutto è da buttare. I crediti di carbonio, se regolamentati e usati nel modo giusto, possono fare la differenza. Possono sostenere progetti cruciali per il clima e aiutare le aziende a ridurre concretamente la loro impronta ecologica. Ma affinché il sistema funzioni, oggi non basta più la buona fede: servono regole chiare, trasparenza e un monitoraggio indipendente, in grado di garantire che i progetti rispettino i criteri riconosciuti a livello internazionale.

Addizionalità, cioè la prova che la riduzione di CO₂ non si sarebbe verificata senza quel finanziamento. Permanenza, ovvero la capacità di mantenere lo stoccaggio del carbonio nel tempo. Misurabilità e verificabilità delle emissioni evitate o rimosse. E soprattutto assenza di doppio conteggio: ogni credito deve essere tracciabile, unico e inequivocabile.

È in questa direzione che si stanno muovendo sia gli standard internazionali — come i Core Carbon Principles definiti dall’Integrity Council for the Voluntary Carbon Market — sia le politiche europee, con l’introduzione del Carbon Removal Certification Framework (CRCF). Solo così i crediti di carbonio possono diventare uno strumento utile e credibile nella lotta alla crisi climatica.

“Il caso Verra e i crediti fantasma”

Immaginiamo di seguire sull’argomento le indagini di una giovane giornalista d’inchiesta, di nome Lucia De Salvio, seduta alla sua scrivania sommersa da documenti e report. La luce fioca della lampada da tavolo illumina le carte che testimoniano uno scandalo di proporzioni enormi: i crediti di carbonio fantasma certificati da Verra.


Verra, un’organizzazione no-profit con sede a Washington, era considerata la più importante tra le organizzazioni certificatrici di crediti di carbonio nel mercato volontario (altri due enti noti sono Gold Standard e Plan Vivo Foundation). Tuttavia, un’inchiesta durata nove mesi, condotta da The Guardian, Die Zeit e SourceMaterial, aveva svelato che solo il 6% dei progetti di Verra portava effettivamente a una riduzione significativa della deforestazione.

Verra ha contestato pubblicamente le accuse, sostenendo che l’inchiesta avrebbe utilizzato modelli di riferimento inadeguati e criteri troppo severi rispetto alla complessità dei contesti monitorati.

Al momento dello scandalo, il valore del mercato dei crediti certificati da Verra era stimato in circa un miliardo di dollari, ma ha subito un brusco ridimensionamento nel biennio successivo.


De Salvio analizzava i progetti incriminati: conservazioni di foreste pluviali presentate a rischio abbattimento, ma che in realtà non correvano alcun pericolo del genere. I crediti generati da questi progetti erano quindi inutili e l’entità delle sovrastime era impressionante: Verra aveva emesso crediti di carbonio con valori gonfiati fino al 400%, mentre il 94% dei crediti per i progetti di conservazione forestale (pari a circa il 40% di quelli che emetteva a livello globale) non rappresentava reali riduzioni delle emissioni di CO₂. Questo significava che numerose aziende, tra cui giganti come Disney, Shell e Gucci, avevano acquistato crediti privi di valore reale, proclamando una neutralità carbonica in realtà inesistente.

Mentre sfogliava le pagine, la giornalista si interrogava sull’effetto di queste rivelazioni. Quanti prodotti dichiarati “a impatto zero” (carbon neutral) erano in realtà legati a quei crediti fantasma? Le multinazionali coinvolte avrebbero dovuto rispondere a gravi interrogativi sulla trasparenza e sull’integrità dei loro sforzi per la sostenibilità.

Determinata a portare alla luce la verità, immersa nella sua indagine, De Salvio riceve una soffiata anonima: un ex collaboratore di Verra, disposto a parlare sotto condizione di anonimato, accetta di incontrarla. La scena si svolge in una caffetteria semideserta, dove l’atmosfera è densa di tensione.

L’informatore, con un volto segnato dalla preoccupazione e lo sguardo sfuggente, inizia a raccontare:

Lavoravo nei progetti di revisione dei crediti. Sai cosa ci chiedevano? Di chiudere un occhio. A volte due. Se il progetto aveva grandi nomi dietro, veniva approvato. Non importava se i dati non tornavano. Non importava se non c’era rischio reale per la foresta. Serviva certificare per mantenere l’immagine, e il nostro compito era far funzionare il sistema, non metterlo in discussione.”

Mentre lei prende appunti febbrilmente, l’uomo prosegue, svelando dettagli su documenti falsificati e pressioni dall’alto per “accelerare le verifiche” su progetti economicamente rilevanti, ignorando le discrepanze. Le sue parole gettano un’ombra sinistra sull’intero sistema.

Certificato attendibili

Decisa a verificare sul campo una delle situazioni denunciate, la giornalista Lucia De Salvio si reca in una foresta amazzonica legata a un progetto di compensazione contestato. All’arrivo, ciò che vede è sconvolgente: la foresta che avrebbe dovuto essere protetta è stata parzialmente disboscata. Gli abitanti del luogo, riuniti in un villaggio vicino, la accolgono con un misto di diffidenza e speranza. Tra loro, un uomo le mostra un contratto mai rispettato:

“Ci hanno promesso che questa terra sarebbe stata preservata. Invece, hanno preso i fondi dei crediti e li hanno usati per altri scopi. E noi? Non abbiamo più la nostra terra. Non abbiamo niente.”

Nel sito del progetto si scorgono macchinari abbandonati e tronchi tagliati che testimoniano l’inganno. L’aria calda e umida sembra pesare ancora di più mentre lei fotografa i resti di una promessa infranta. Quel luogo, che avrebbe dovuto essere un simbolo di speranza, è ora un monito delle conseguenze di un sistema corrotto.

Tuttavia, tra le fitte foreste, in una zona attigua, incontra anche Maria, una leader locale che le spiega come i fondi generati dai crediti possano però diventare una risorsa preziosa quando il sistema funziona davvero. Attraverso la voce di Maria, comprende i potenziali benefici derivanti dai crediti di carbonio, se usati in modo corretto: scuole, infrastrutture, reale conservazione delle foreste. Ma senza regole rigorose e controlli indipendenti, quelle promesse restano fragili illusioni.

“Non siamo noi il problema”, denunciava appassionatamente Maria: “ma chi usa questi crediti per coprire la propria inazione. Ogni albero salvato qui è un albero che resta in piedi, ma altrove le emissioni continuano senza controllo.”

De Salvio preparò il suo articolo, sempre più incredula e agguerrita. Sapeva che una maggiore regolamentazione e trasparenza erano ormai indispensabili per restituire credibilità al mercato dei crediti di carbonio. Solo così si potevano evitare frodi come quella che aveva documentato, e restituire fiducia a uno strumento che, usato bene, potrebbe davvero contribuire all’equilibrio climatico globale.

Le ripercussioni non si fecero attendere. David Antonioli, CEO di Verra, si dimise nel 2023, travolto dalle polemiche legate allo scandalo. L’intero settore fu costretto a interrogarsi sulla propria integrità. Lo scandalo mise in luce le vulnerabilità strutturali del sistema e la necessità di riforme urgenti.

Si cominciò a parlare concretamente della necessità di fissare soglie minime obbligatorie per la riduzione diretta delle emissioni da parte delle aziende, prima di ricorrere alla compensazione. Un rapporto 60/40 — con almeno il 60% di riduzione diretta e solo il restante 40% compensato tramite crediti — iniziò a essere considerato un obiettivo realistico, in linea con i nuovi standard europei.

Ma emerse anche un altro nodo cruciale: l’opportunità di affidare la certificazione dei crediti non più a enti privati o autoregolati, bensì a organismi pubblici o multilaterali sotto controllo democratico, come prevede il nuovo Carbon Removal Certification Framework (CRCF) varato dall’Unione Europea.

Un sistema pubblico, trasparente e indipendente, potrebbe finalmente spezzare le dinamiche speculative che avevano minato la fiducia nel mercato volontario: un mercato che, pur formalmente no-profit, nel 2023 aveva superato i due miliardi di dollari, con enti certificatori pronti a gonfiare numeri per mantenere clienti e reputazione.

Rendere questo sistema credibile e giusto non è solo una questione tecnica: è una condizione essenziale per dare alle parole “a impatto zero” un significato vero, e non un’illusione di marketing.

 


Le tecnologie per il sequestro del carbonio, come la cattura diretta dall’aria (DAC) e la bioenergia con cattura e stoccaggio (BECCS), promettono di contribuire alla riduzione delle emissioni. Tuttavia, restano evidenti criticità: costi elevati, enorme fabbisogno energetico, e difficoltà di applicazione su larga scala ne ostacolano la diffusione reale.

Soluzioni come la mineralizzazione o la cattura industriale sono in fase di sperimentazione avanzata, ma richiedono ulteriori innovazioni tecnologiche e valutazioni di impatto ambientale locale.

Nel 2024, l’Unione Europea ha avviato un primo riconoscimento normativo di queste tecnologie attraverso il Carbon Removal Certification Framework (CRCF) e la Carbon Management Strategy, che definiscono criteri di qualità e tracciabilità per le rimozioni tecnologiche.

Ma anche secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), queste soluzioni non devono essere considerate un’alternativa alla riduzione delle emissioni alla fonte. Per avere un vero impatto, sarà necessario combinare queste tecnologie con investimenti pubblici mirati, politiche incentivanti, e una strategia di decarbonizzazione integrata, che mantenga sempre l’obiettivo di una riduzione diretta delle emissioni prima di ogni forma di compensazione.


 

Il boomerang del greenwashing

La denuncia contro Verra arrivò in un momento critico per il settore della sostenibilità. Il “greenwashing” — cioè l’uso ingannevole di etichette e slogan pro-ambiente per migliorare l’immagine di aziende e prodotti — era già sotto accusa, ma lo scandalo Verra ne rappresentò l’apice. La fiducia nel mercato dei crediti di carbonio, una delle strategie più pubblicizzate nella lotta al cambiamento climatico, subì un colpo durissimo da cui ancora oggi fatica a riprendersi.

Con il passare delle settimane, la notizia scatenò un effetto domino. Aziende come Nestlé, Gucci e Shell, che per anni avevano costruito la propria reputazione con slogan come “carbon neutral” e “a impatto zero”, iniziarono a ridurre o sospendere l’acquisto di crediti di carbonio volontari. Il rischio reputazionale era troppo alto: essere associati a certificazioni dubbie poteva significare perdere la fiducia di consumatori sempre più informati e critici. Il mercato crollò: tra il 2023 e il 2024 il valore dei crediti diminuì del 61%, e in pochi mesi i prezzi si dimezzarono. L’instabilità travolse anche molte aziende coinvolte nella gestione dei progetti di compensazione.

Lucia De Salvio osservava una gamma di reazioni molto ampia. Alcuni difendevano il sistema, sostenendo che il problema non fosse la compensazione in sé, ma la mancanza di regole chiare e verifiche rigorose. Altri, più radicali, chiedevano di chiudere definitivamente il mercato volontario dei crediti, giudicato un meccanismo utile solo a fornire alibi “verdi” alle aziende inquinanti. C’era anche chi proponeva di abbandonare del tutto le compensazioni, puntando unicamente sulla riduzione diretta delle emissioni.

Nel tentativo di correre ai ripari, l’Unione Europea ha approvato nel 2024 la Green Claims Directive, una direttiva che vieta l’uso di etichette ambientali vaghe, auto-dichiarate o prive di prove. Da ora in avanti, ogni affermazione ecologica dovrà essere supportata da dati verificabili e certificazioni indipendenti.

Di conseguenza, nel corso del 2024 si sono osservati segnali di ripresa selettiva: non tutti i progetti, ma solo quelli più solidi e trasparenti, hanno riconquistato la fiducia delle aziende. Si è registrato un lieve aumento dei volumi di crediti ritirati — ovvero crediti annullati nei registri ufficiali perché effettivamente utilizzati per compensare emissioni — con numeri che si avvicinano ai livelli del 2021.

Le imprese hanno ricominciato a investire, ma con maggiore cautela. Ad esempio, Stellantis, Toyota, Ford, Mazda e Subaru hanno collaborato con Tesla per mettere in comune le loro emissioni di CO₂ e utilizzare i crediti generati dai veicoli elettrici di Tesla per rispettare le soglie imposte dalle normative UE per il 2025.

Nonostante le sfide, il mercato dei crediti di carbonio si sta gradualmente riorientando: sostenuto da una crescente domanda di soluzioni realmente sostenibili, e da politiche pubbliche sempre più attente a garantire integrità e responsabilità climatica.


Nel mercato dei crediti di carbonio, il termine “ritirati” non è sinonimo di “acquistati”. Quando un’azienda o un individuo acquista un credito, questo resta attivo nel registro finché non viene ritirato formalmente. Il ritiro è l’atto di annullamento irreversibile del credito all’interno del registro, e rappresenta il momento in cui quel certificato viene associato alla compensazione di una quantità precisa di emissioni.

Solo quando il credito è ritirato — e dichiarato come parte di una strategia climatica verificabile — può essere considerato valido ai fini della neutralità o della riduzione netta. Questo processo è essenziale per evitare il doppio conteggio, impedendo che lo stesso credito venga rivenduto o riutilizzato da altri attori.

I nuovi standard europei, come il Carbon Removal Certification Framework (CRCF), richiedono che ogni credito ritirato sia tracciabile, pubblicamente consultabile e collegato a un utilizzo trasparente e dichiarato. Solo così si può garantire l’unicità della compensazione e l’integrità del sistema.


Lo scandalo Verra non ha sollevato solo questioni ideologiche ed economiche, ma ha portato alla luce anche gravi implicazioni umane e sociali. In Perù, ad esempio, sono emerse denunce documentate di violazioni dei diritti umani legate a progetti di conservazione certificati da Verra: sgomberi forzati, demolizioni di abitazioni, intimidazioni da parte delle autorità locali. Approfondendo l’indagine, De Salvio raccolse le testimonianze di famiglie costrette ad abbandonare le proprie terre ancestrali per fare spazio a progetti di “protezione ambientale” che, oltre a risultare inefficaci nella riduzione delle emissioni, infliggevano nuove forme di ingiustizia alle comunità locali.

Mentre scriveva il suo articolo, la giornalista rifletteva sull’effetto boomerang del greenwashing: non solo le pratiche ingannevoli non aiutavano a raggiungere gli obiettivi dichiarati, ma rischiavano di danneggiare anche gli sforzi autentici per la giustizia climatica. Le aziende, spaventate dalla crisi di reputazione, si ritiravano in massa dal mercato dei crediti. Il pubblico, disilluso e tradito, cominciava a dubitare di ogni etichetta verde, di ogni promessa ambientale.

Lei stessa non poteva più guardare un prodotto etichettato come “a impatto zero” (carbon neutral) senza chiedersi se fosse davvero tale.

E tu, con quel pacco di biscotti a impatto zero tra le mani, inizi a domandarti quali altre bugie verdi hai acquistato. Perché la fiducia, una volta tradita, è difficile da riconquistare. Ma è proprio da questo dubbio, da questo sguardo critico, che può iniziare un cambiamento vero.

Un esempio virtuoso: il progetto E-Power System (EPX)

Proseguendo nelle sue ricerche, Lucia De Salvio si imbatté in due realtà agli antipodi all’interno del mondo dei crediti di carbonio. Da un lato, il progetto E-Power System (EPX), sviluppato da Energia Europa S.p.A., un’azienda italiana con sede a Zané, in provincia di Vicenza: un caso virtuoso in un panorama spesso opaco.

Il sistema brevettato EPX è un dispositivo innovativo progettato per ridurre le perdite e i disturbi nelle linee elettriche, migliorando l’efficienza energetica degli impianti. Solo nel biennio 2021–2022, questo sistema ha permesso di evitare l’emissione di 23.346 tonnellate di CO₂, generando un equivalente numero di crediti di carbonio certificati.

Il progetto si distingueva non solo per la solidità tecnica, ma soprattutto per il livello di trasparenza, la tracciabilità dei dati e l’utilizzo di tecnologie avanzate per la verifica dell’impatto ambientale. Un modello che anticipava molti dei criteri oggi richiesti a livello europeo dal nuovo Carbon Removal Certification Framework (CRCF): misurabilità, addizionalità, assenza di doppio conteggio.

In un settore ancora scosso da scandali e accuse di greenwashing, l’esempio di EPX dimostrava che una compensazione credibile e utile è possibile, quando si parte da basi scientifiche rigorose e da una reale volontà di cambiamento.

Riduzione Co2

Dall’altro lato, restavano le ombre dei progetti di riforestazione certificati da Verra, spesso al centro di scandali e inchieste giornalistiche. Questo confronto metteva in luce, in modo inequivocabile, che la credibilità del mercato dei crediti di carbonio dipende da un solo fattore decisivo: la verifica rigorosa e trasparente dei progetti.

Iniziative come EPX dimostravano che una compensazione efficace e credibile è possibile, quando i progetti sono tracciabili, misurabili e sviluppati secondo criteri chiari. I crediti “fantasma”, al contrario, mettevano in guardia contro approcci superficiali, non verificati, o costruiti su modelli predittivi gonfiati e poco attendibili.

Oggi, grazie all’introduzione di standard come i Core Carbon Principles, le linee guida europee del CRCF e la crescente attenzione dei consumatori, è sempre più evidente che non basta dichiarare l’impatto ambientale: bisogna dimostrarlo, misurarlo e certificarlo in modo indipendente.

E anche chi acquista i crediti ha una responsabilità. Scegliere progetti affidabili, chiedere trasparenza, rifiutare etichette vuote. Perché ogni credito, come ogni promessa, deve valere davvero una tonnellata in meno di CO₂ — e non un alibi in più.

A impatto zero o greenwashing? Ecco come capirlo

Quanto conosci davvero il percorso del prodotto che scegli al supermercato? Vuoi sapere se un prodotto etichettato come a impatto zero (carbon neutral) è davvero affidabile? Allora non fermarti alla prima impressione e vai a fondo: ciò che conta è la certificazione. Solo alcune garantiscono davvero trasparenza, verificabilità e impegno concreto. Tra queste: PAS 2060, CarbonNeutral Certification e Gold Standard.

Queste etichette si distinguono perché richiedono azioni misurabili e piani di riduzione delle emissioni, non si limitano a compensazioni astratte o poco trasparenti.

PAS 2060 è uno standard internazionale che va oltre il semplice bilancio di emissioni. Chiede all’azienda di definire un piano credibile di riduzione, con verifiche periodiche da parte di enti indipendenti. Non basta compensare: bisogna dimostrare progressi concreti verso la decarbonizzazione.

La CarbonNeutral Certification, invece, si concentra sull’accuratezza del calcolo delle emissioni e sulla qualità dei crediti utilizzati. Per ottenerla, un’azienda deve rispettare protocolli rigorosi come il Greenhouse Gas Protocol, fornire dati trasparenti e usare progetti di compensazione certificati e tracciabili. Non sono ammessi progetti di dubbia efficacia o di qualità incerta.

Il Gold Standard, infine, rappresenta una delle certificazioni più complete: non si limita ad assorbire CO₂, ma pretende che i progetti generino anche benefici reali per le comunità locali e per l’ambiente. Una riforestazione certificata Gold Standard, ad esempio, deve migliorare la vita delle popolazioni coinvolte, proteggere la biodiversità e contribuire al benessere collettivo. È un approccio integrato e trasformativo.

Rispetto a certificazioni come il Verified Carbon Standard (VCS) di Verra — che si focalizzano principalmente sulla correttezza tecnica delle metriche — queste certificazioni offrono una garanzia in più: un approccio olistico e verificabile che mette al centro non solo il clima, ma anche le persone e il pianeta.

In un mercato segnato da scandali e sfiducia, queste certificazioni diventano essenziali. Premiare chi agisce con coerenza e non si limita a slogan è un modo per ricostruire fiducia e guidare il cambiamento.

Verra e il mercato del carbonio: una redenzione possibile?

Dopo lo scandalo Verra, il panorama globale dei crediti di carbonio volontari si è frammentato. Alcuni governi hanno intensificato gli sforzi per regolamentare il mercato, mentre sempre più organizzazioni ambientaliste ribadiscono la priorità della riduzione diretta delle emissioni, rispetto al semplice ricorso alle compensazioni.

In risposta alle crescenti preoccupazioni sull’integrità del mercato, l’Integrity Council for the Voluntary Carbon Market (ICVCM) ha avviato un processo di riconoscimento per i programmi di certificazione che rispettano i suoi Core Carbon Principles (CCPs). Il programma Verified Carbon Standard (VCS) di Verra, al centro dello scandalo, non risulta ancora pienamente conforme, ma potrà esserlo solo a seguito di modifiche sostanziali alle sue procedure operative.

Nel frattempo, Verra ha lanciato una consultazione pubblica per lo sviluppo della versione 5 del VCS, volta a rafforzare la trasparenza, l’impatto climatico verificabile e l’usabilità del programma. Tra le novità introdotte: la possibilità per i progetti registrati di aggiornare retroattivamente le metodologie utilizzate per la stima delle riduzioni, e una maggiore flessibilità per riquantificare i benefici climatici. Queste misure, nelle intenzioni di Verra, dovrebbero riqualificare i propri standard e ricostruire la fiducia nel sistema.

Sotto la guida della nuova CEO, Mandy Rambharos, Verra ha inoltre introdotto un approccio “risk-based” alla verifica: i progetti vengono classificati per livello di rischio (in base a dimensione, complessità, localizzazione). Quelli ad alto rischio sono sottoposti a controlli più approfonditi; quelli a basso rischio, invece, seguono iter più snelli. L’obiettivo dichiarato è razionalizzare le risorse, garantendo tempi più brevi di approvazione.

Tuttavia, diversi esperti del settore hanno espresso preoccupazioni: una verifica più veloce, unita alla riduzione del personale, potrebbe compromettere proprio quella credibilità tecnica che il VCS sta cercando di riconquistare.

Il dibattito resta aperto. La domanda che emerge è più attuale che mai: come possiamo assicurarci che le etichette “a impatto zero” (carbon neutral) riflettano una reale riduzione delle emissioni e non solo un’illusione ben confezionata?

Il futuro dietro il sigillo verde

Siamo arrivati alla fine di questo viaggio, ma forse è proprio qui che tutto comincia. La storia che abbiamo esplorato non è solo un intreccio di scandali, promesse tradite e meccanismi imperfetti. È il riflesso di un mondo che cerca di affrontare la crisi climatica, spesso inciampando lungo il cammino. Un mondo in cui le etichette verdi possono rappresentare sia una speranza concreta, sia una pericolosa illusione.

Lucia De Salvio ci ha portato dietro le quinte, svelando un sistema che troppo spesso sceglie la scorciatoia della compensazione opaca, anziché la strada più impegnativa della riduzione diretta delle emissioni. Ci ha mostrato quanto sia fragile la fiducia riposta in un mercato che, se non regolato con precisione e trasparenza, rischia di diventare un’operazione di marketing più che una leva reale per il cambiamento climatico.

Ma questo non è solo un atto di denuncia: è un invito all’azione. Un’esortazione a guardare oltre il simbolo verde, a pretendere verifiche, dati, standard. A chiedere che quel sigillo non sia solo grafica accattivante, ma la prova di un impegno tangibile.

Ed eccoti lì, di nuovo al supermercato. Il pacco di biscotti con l’etichetta “a impatto zero (carbon neutral)” tra le mani. Ti fermi a pensare: cosa significa davvero? Può bastare quel gesto per contribuire a un cambiamento reale? O forse, dietro quella promessa patinata, si cela il rischio di alimentare un sistema che perpetua il problema invece di risolverlo?

La risposta non è semplice. Non lo è mai. Ma non possiamo fermarci qui.

Ogni scelta consapevole, ogni domanda posta alle aziende, ogni richiesta di trasparenza è un passo avanti. Non dobbiamo cedere al cinismo, ma nemmeno accontentarci di mezze verità. La sostenibilità non è uno slogan: è un percorso esigente, fatto di regole chiare, riduzioni concrete e verifiche rigorose. È un patto collettivo, tra cittadini, imprese e governi. E richiede lucidità, coraggio, e determinazione.

Quindi, cosa farai? Metterai quel pacco di biscotti nel carrello? Forse sì — ma con una consapevolezza nuova. Ora sai che puoi andare sul sito dell’azienda, verificare quale standard di certificazione è stato utilizzato, se si tratta di Gold Standard, PAS 2060, o di una semplice etichetta autoreferenziale. Ora puoi decidere con più strumenti. E questo non è un dettaglio: è l’inizio del cambiamento.

Ogni acquisto è un messaggio. Ogni scelta, un segnale. Il futuro non si costruisce da solo: è fatto di gesti quotidiani, di persone che rifiutano compromessi inutili, di consumatori che trasformano il proprio potere d’acquisto in una leva per il cambiamento reale.

È in questo sforzo collettivo, consapevole e quotidiano, che troviamo la speranza.

Non sarà facile. Non sarà immediato. Ma è indispensabile. E mentre esci dal supermercato, stringendo quel pacco di biscotti, ricordati: il cambiamento non è un logo, né una parola a effetto.

È un impegno, una promessa da mantenere giorno dopo giorno. Perché il futuro che desideriamo non si compra: si costruisce. Con ogni singola scelta. È una sfida dura, ma è una battaglia che vale la pena di combattere.

Fonti e approfondimenti

Alice Salvatore
Alice Salvatore
Alice Salvatore, è una politica “scollocata”, il concetto di scollocamento è un atto di volontaria autodeterminazione. Significa abbandonare un lavoro sicuro e redditizio, per seguire le proprie aspirazioni e rimanere coerente e fedele al proprio spirito. Alice Salvatore si è dunque scollocata, rinunciando a posti di prestigio, profumatamente remunerati, per non piegare il capo a logiche contrarie al suo senso etico e alla sua coerenza. Con spirito indomito, Alice continua a fare divulgazione responsabile, con un consistente bagaglio esperienziale nel campo della politica, dell’ambiente, della salute, della società e dell’urbanistica. La nostra società sta cambiando, e, o cambia nella direzione giusta o la cultura occidentale arriverà presto al TIME OUT. Alice è linguista, specializzata in inglese e francese, ha fatto un PhD in Letterature comparate Euro-americane, e macina politica ed etica come respira.
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