Nel 2030 tutti gli imballaggi immessi sul mercato europeo dovranno essere riciclabili o riutilizzabili.
È questa la promessa (o la minaccia) del nuovo Regolamento UE sugli imballaggi e i rifiuti da imballaggio (PPWR, Packaging and Packaging Waste Regulation), approvato nel 2024 dopo due anni di battaglie tra istituzioni europee, lobby industriali e associazioni ambientaliste.
Sulla carta, l’obiettivo è semplice: ridurre la montagna di rifiuti che cresce ogni anno nonostante decenni di raccolta differenziata.
Nella prassi, basta guardare gli scaffali di un supermercato per capire quanto siamo lontani: bottiglie “riciclabili al 30%”, cartoni patinati con tappo in plastica, confezioni “bio” che bio non sono affatto. Il linguaggio è verde, ma la sostanza resta grigia.
Secondo Eurostat (2024), solo il 40% degli imballaggi plastici viene davvero riciclato in Europa. Il resto finisce in discarica, nell’inceneritore o, più spesso, nei mari e nei fiumi, anche perché una parte significativa dei rifiuti viene esportata verso Paesi extra-UE con scarse politiche di gestione, dove finisce bruciata o dispersa nell’ambiente.
È come vantarsi di asciugare il pavimento mentre il rubinetto resta aperto.
Un regolamento che cambia le regole del gioco per l’imballaggio sostenibile
La differenza, stavolta, è che il PPWR non è una direttiva ma un regolamento, quindi è vincolante in tutti gli Stati membri.
Niente più deroghe nazionali o interpretazioni creative: dal design del prodotto alla composizione dei materiali, tutto dovrà rispettare criteri precisi di riciclabilità effettiva e di contenuto minimo di materiale riciclato.
Le soglie fissate dalla Commissione Europea parlano chiaro: dal 30% al 65% di plastica o alluminio riciclato a seconda della tipologia di imballaggio.
Per la prima volta, Bruxelles impone una trasformazione obbligatoria all’intera filiera del packaging, chiedendo alle aziende di ridisegnare prodotti, catene logistiche e forniture.
Un cambiamento che, se reale, potrebbe riscrivere il concetto stesso di “usa e getta”.
Ma le crepe si vedono già.
Le grandi multinazionali del food e del beverage si sono opposte con forza all’introduzione dei sistemi di vuoto a rendere e riuso obbligatorio, evocando costi insostenibili e rischi “igienici”. Peccato che in Germania, Danimarca e Lituania, dove i sistemi di deposito funzionano da anni, i tassi di recupero superino il 90% con milioni di tonnellate di plastica risparmiate ogni anno.
In Italia, invece, il vuoto a rendere resta confinato a poche iniziative locali, mentre produciamo quasi 14 milioni di tonnellate di imballaggi l’anno (ISPRA, Rapporto Rifiuti 2024).
L’illusione tecnologica: riciclabilità entro il 2030 o dipendenza dal “effetto facile”?
Molti confidano nella tecnologia come scorciatoia salvifica: bioplastiche, polimeri innovativi, sistemi digitali di tracciamento.
Ma la verità è che riciclare materiali complessi, come plastiche multistrato o cartoni accoppiati per alimenti, resta costoso e poco efficiente. Le nuove “bioplastiche compostabili”, inoltre, spesso finiscono in impianti inadatti e vengono bruciate o smaltite come rifiuti comuni.
Secondo la European Environment Agency (EEA, Agenzia Europea dell’Ambiente, 2025), le tecnologie di riciclo avanzato potranno ridurre solo una parte minima del problema: il nodo strutturale resta l’eccesso di produzione.
Ogni anno l’Europa genera oltre 84 milioni di tonnellate di rifiuti da imballaggio, una quantità in crescita costante da più di vent’anni.
Il sistema continua a produrre più rifiuti che soluzioni.
E il problema non è tecnico: è culturale.
Abbiamo trasformato l’imballaggio in simbolo di igiene, estetica e convenienza.
Il design pensa al colore, alla lucentezza, alla promessa di freschezza: tutto, tranne la fine del prodotto.
Così, il cerchio dell’economia circolare si chiude su se stesso: produce, ricicla, riproduce.
Le ombre della “circolarità” made in Europa
La Commissione Europea definisce il PPWR “un passo decisivo verso un futuro sostenibile”.
E lo è, ma solo sulla carta. Molti esperti, tra cui la European Environmental Bureau (EEB, la rete europea delle principali ONG ambientaliste) e il WWF Europe, avvertono: se la circolarità si riduce a un esercizio contabile, rischiamo di sostituire il vecchio modello lineare “prendi–usa–getta” con un nuovo mantra “produci–ricicla–ripeti”.
In questo schema, l’obiettivo di riduzione sparisce.
Si continua a produrre e consumare, purché il materiale sia “riciclabile”.
È la logica della proroga permanente: l’imballaggio “riciclabile entro il 2030” non è una soluzione, ma un alibi.
L’EEA (2025) parla apertamente di illusione di sostenibilità: la crescita del riciclo non compensa la crescita dei rifiuti.
Ogni innovazione che non riduce la produzione è solo ottimizzazione del problema.
Il business del riciclo e la paura del riuso
C’è poi un aspetto meno discusso: l’economia che ruota intorno al riciclo.
Il riciclo è un mercato da miliardi, e come ogni mercato tende a difendere se stesso.
Ridurre i rifiuti significherebbe ridurre materia prima, produzione, volumi, cioè profitti.
Non stupisce che molte lobby industriali preferiscano parlare di “riciclabilità” piuttosto che di riuso.
Eppure il riuso è la vera svolta sistemica: un contenitore in vetro riutilizzato 50 volte ha un impatto ambientale complessivo inferiore del 70% rispetto a un contenitore usa e getta.
Ma il modello del riuso richiede cambio di logistica, mentalità e incentivi economici, non solo slogan.
Come spiega il WWF (2024), la sfida non è solo ambientale, ma politica: chi pagherà il costo della transizione, e chi continuerà a guadagnarci.
Oltre il 2030: la vera rivoluzione è ridurre
Alla fine, la domanda è sempre la stessa: vogliamo davvero ridurre i rifiuti, o semplicemente gestirli meglio?
Perché nessuna normativa, per quanto vincolante, può funzionare senza un cambiamento nei comportamenti di consumo e di smaltimento: se conferire correttamente i rifiuti riutilizzabili fosse più conveniente o incentivato, e più oneroso il contrario, molti imparerebbero in fretta.
La riciclabilità entro il 2030 è un obiettivo ambizioso, ma rischia di diventare una promessa vuota se non affrontiamo la causa primaria: l’eccesso.
La vera sostenibilità non consiste nel trasformare ogni rifiuto in risorsa, ma nel non produrlo affatto.
Come ricorda il Regolamento UE 2024/1781, la priorità è “prevenire la produzione di imballaggi non necessari”.
È da lì che si misura la maturità di una società: nella capacità di rinunciare al superfluo, non di reinventarlo.
Il Regolamento sugli imballaggi può davvero cambiare il mercato, ma solo se cambieremo anche noi.
Non basterà ridisegnare bottiglie e scatole: dovremo ripensare il valore delle cose.
Perché il packaging più sostenibile non è quello che ricicliamo meglio.
È quello che non serviva affatto.
Bibliografia essenziale
European Commission – Proposal for a Regulation on Packaging and Packaging Waste (PPWR), 2024.
[Normativa vincolante UE per la riciclabilità e il riuso entro il 2030].
https://environment.ec.europa.eu/publications/proposal-packaging-and-packaging-waste_en
Eurostat – Packaging Waste Statistics 2024.
[Dati ufficiali sui tassi di riciclo e sulle quantità di imballaggi prodotte nell’UE].
https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Packaging_waste_statistics
ISPRA – Rapporto Rifiuti Speciali e Urbani 2024.
[Analisi sui flussi di rifiuti da imballaggio in Italia].
https://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti/rapporto-rifiuti-urbani-2024
European Environment Agency (EEA) – Circular Economy and Waste Prevention Report 2025.
[Critica all’eccesso produttivo e limiti dell’attuale modello di economia circolare].
https://www.eea.europa.eu/publications
WWF Europe – Packaging Revolution Report 2024.
[Riflessione sul ruolo del riuso e sugli ostacoli economici e politici alla sua diffusione].
https://www.wwf.eu/
European Environmental Bureau (EEB) – Position Paper on the PPWR, 2024.
[Analisi delle contraddizioni del regolamento e dei rischi di “illusione circolare”].
https://eeb.org/

