- giovedì 29 Maggio 2025
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Afghanistan, un mondo che non riesce a lasciare il passato

Articolo di Alice Salvatore e Alessandro Trizio

Un sogno tra le rovine

Una giovane ragazza di Kabul chiude gli occhi mentre stringe al petto i suoi quaderni. Nella penombra della sua stanza, sogna di varcare nuovamente la soglia della scuola, di sedersi tra i banchi accanto alle sue amiche e di alzare la mano per rispondere alle domande dell’insegnante. In questo sogno ad occhi aperti le risate delle compagne riecheggiano nell’aria, e le strade fuori sono piene di colori e vita. Ma un colpo secco alla porta la riporta alla realtà: suo padre sussurra che deve spegnere la luce. Da quando i Talebani hanno ripreso il potere nell’agosto 2021, per lei – come per milioni di donne e ragazze afghane – la scuola è diventata un ricordo, un desiderio proibito intrappolato nel passato​. Quella notte, la ragazza torna a sognare: immagina di diplomarsi e diventare medico, di aiutare il suo Paese a guarire dalle ferite della guerra. Eppure, al risveglio, la realtà fuori dalla sua finestra le mostra solo muri grigi ricoperti di graffiti cancellati e il silenzio delle voci femminili un tempo presenti nelle vie di Kabul. L’Afghanistan di oggi sembra un mondo sospeso, bloccato in un passato che non vuole passare.

La storia che si ripete

Questa non è la prima volta che i sogni dei giovani afghani vengono infranti. La storia dell’Afghanistan è un ciclo doloroso di speranze accese e bruscamente soffocate. Negli ultimi quarant’anni il Paese non ha mai conosciuto una pace duratura: dall’invasione sovietica del 1979 alla guerra civile degli anni ’90, fino al primo regime talebano e alla successiva invasione internazionale del 2001, ogni generazione ha vissuto il trauma del conflitto. Un vecchio proverbio locale dice che “gli afghani nascono in guerra”, e per molti versi è una realtà tangibile. Il Paese è stato definito la “tomba degli imperi” – dall’Impero britannico all’Unione Sovietica – e ancora oggi sembra intrappolato in dinamiche che lo riportano indietro di decenni. Nel 1996 i Talebani instaurarono per la prima volta il loro Emirato Islamico, imponendo un regime di rigida interpretazione della legge islamica che cancellò diritti fondamentali, in particolare per le donne. Quell’oscurantismo pareva essere finito nel 2001, quando le forze occidentali rovesciarono il regime talebano in risposta agli attacchi dell’11 settembre. Nei vent’anni successivi, pur tra mille difficoltà, è germogliata una fragile speranza: milioni di bambini e bambine sono tornati sui banchi di scuola, sono nate università, media indipendenti, e le città hanno iniziato a respirare un’aria diversa. Ma il destino, o forse la miopia dell’uomo, ha fatto sì che la storia si ripetesse: nell’agosto 2021 i Talebani sono tornati al potere, riconquistando Kabul quasi senza colpo ferire mentre le forze internazionali completavano un ritiro caotico. Per la popolazione è stato come risvegliarsi in un incubo già vissuto. “È di nuovo il 1996”, hanno sussurrato molti, ricordando con angoscia i giorni bui di venticinque anni prima.

Talebani

Il ritorno dell’Emirato

Con la rapidità di un temporale estivo, i Talebani hanno ripristinato l’Emirato Islamico e imposto regole che hanno fatto sprofondare il Paese indietro nel tempo. Appena insediati, hanno rassicurato il mondo promettendo rispetto dei diritti e un governo inclusivo, ma quelle parole si sono presto rivelate vane. Nel giro di poche settimane, i volti delle donne sono scomparsi dagli uffici, dalle aule e perfino dalle strade: le ragazze sopra i 12 anni non possono più frequentare la scuola, le donne non possono lavorare nella maggior parte dei settori e possono uscire di casa solo se strettamente necessario e accompagnate da un parente maschio​. Il Ministero per le Donne è stato chiuso e al suo posto i Talebani hanno riattivato il Ministero per la Prevenzione del Vizio e la Promozione della Virtù, incaricato di far rispettare il loro rigido codice morale. Cartelloni pubblicitari che mostravano donne sono stati dipinti di nero; ai parchi e ai giardini pubblici campeggiano cartelli che vietano l’ingresso alle visitatrici. Persino piccoli spazi di autonomia come i saloni di bellezza femminili sono stati banditi: nel 2023 il governo talebano ha ordinato la chiusura di tutti i beauty salon, facendo perdere il lavoro a circa 60.000 donne​ e cancellando uno dei pochi luoghi in cui potevano incontrarsi liberamente fra loro. In questo nuovo/vecchio Afghanistan ogni aspetto della vita quotidiana è regolato da editti religiosi: musica e intrattenimento sono sorvegliati, i media indipendenti ridotti al silenzio, e chiunque osi criticare il regime rischia dure punizioni.

Le strade di Kabul raccontano il cambiamento: dove prima c’erano vetrine illuminate e ragazze che andavano all’università, ora si vedono donne avvolte nel burqa che camminano in fretta, consapevoli che uno sguardo di troppo o un velo non perfettamente aderente potrebbe costare loro caro​. Molte professioniste – insegnanti, avvocate, mediche – sono state espulse dal lavoro. “È come se metà della società fosse scomparsa”, ha detto amaramente un osservatore. E in effetti la metà femminile della popolazione è stata spinta nell’ombra. La sensazione, per chi vive nelle città afghane, è di essere tornati indietro di vent’anni in una notte. I progressi faticosamente ottenuti dal 2001 al 2021 – la libertà di stampa, il diritto allo studio, la presenza femminile nella vita pubblica – si sono dissolti all’alba di un nuovo Emirato che di nuovo guarda più al passato che al futuro.

La popolazione, già stremata da decenni di guerra, si è ritrovata ad affrontare anche un collasso economico e una crisi umanitaria spaventosa. Il brusco congelamento degli aiuti internazionali dopo la presa di potere dei Talebani ha lasciato casse vuote e milioni di famiglie senza sostegno. Oggi il 50% degli afghani vive in povertà e circa 15 milioni di persone dipendono dagli aiuti umanitari per sopravvivere, mentre 3 milioni sono a un passo dalla carestia​. Nelle campagne colpite dalla siccità e nelle periferie affollate di sfollati interni, molte famiglie riescono a fare appena un pasto al giorno. Le madri saltano la cena per sfamare i figli con un po’ di pane raffermo e tè. Negli ospedali mancano medicinali e personale, e 3 milioni bambini sotto i 5 anni soffre di malnutrizione acuta​. L’inverno ha portato con sé gelo e ulteriore miseria: senza riscaldamento né combustibile, c’è chi bruciava i propri mobili per scaldarsi. Davanti a questa emergenza, i Talebani hanno mostrato scarsa capacità – o volontà – di farvi fronte. Le sanzioni e l’isolamento internazionale aggravano la situazione, ma il nuovo regime sembra più preoccupato di imporre divieti ideologici che di risollevare l’economia. Così, mentre la gente comune lotta per un pezzo di pane, i governanti di Kabul festeggiano la loro “vittoria” sul mondo esterno, impugnando fucili americani lasciati dagli ex occupanti. L’Afghanistan è di nuovo sull’orlo dell’abisso, intrappolato in un circolo di povertà e repressione che ricorda tragicamente gli anni ’90.

L’oro bianco nelle montagne

Eppure, paradossalmente, questo Paese così povero nasconde nel suo sottosuolo un tesoro che potrebbe cambiarne il destino. Tra impervie catene montuose e deserti pietrosi, l’Afghanistan custodisce una delle più grandi riserve al mondo di risorse minerarie inesplorate, dal rame alle terre rare – e soprattutto il litio, il “petrolio bianco” dell’era digitale​. Già nel 2010 un memo interno del Dipartimento della Difesa statunitense definiva l’Afghanistan “l’Arabia Saudita del litio”, dopo che geologi USA avevano individuato vasti giacimenti di questo metallo leggero essenziale per le batterie​. Stime congiunte di ONU e Unione Europea hanno valutato nel 2013 che il valore complessivo delle risorse minerarie afghane potrebbe superare i mille miliardi di dollari​. Un El Dorado di minerali preziosi – litio, ma anche cobalto, rame, ferro, terre rare come neodimio e praseodimio – fondamentali per l’alta tecnologia e la transizione energetica verso fonti pulite​.

Hindu Kush

Quando i Talebani hanno preso Kabul nel 2021, all’indomani del ritiro americano, molte potenze mondiali hanno subito rivolto lo sguardo a queste ricchezze sepolte. La Cina, in particolare, è il paese che ha più da guadagnare dalla corsa alle risorse afghane​. Pechino è affamata di litio e metalli strategici per alimentare la propria industria in rapida crescita – basti pensare che produce oltre la metà dei veicoli elettrici mondiali e raffina circa il 60% del litio globale​. Non sorprende dunque che aziende cinesi abbiano cominciato presto a corteggiare il nuovo regime di Kabul, arrivando a offrire investimenti di portata enorme: nel 2023 una società privata cinese, la Gochin, avrebbe proposto fino a 10 miliardi di dollari per sviluppare le riserve di litio afghane​. I Talebani, dal canto loro, vedono nella Cina un alleato economico e un potenziale sostegno diplomatico dopo l’uscita di scena degli occidentali​. La prospettiva di entrare nella Belt and Road Initiative cinese – la nuova Via della Seta – è allettante per un Afghanistan in cerca di infrastrutture e partner. Già a gennaio 2023 il governo talebano ha firmato un primo accordo con un’azienda di Pechino per estrarre petrolio nel nord del Paese​, un progetto da 700 milioni di dollari che segna il ritorno dei capitali cinesi in terra afghana.

Ma la strada che trasforma i minerali grezzi in prosperità è lunga e tortuosa. Per passare dalla scoperta di un giacimento allo sfruttamento effettivo possono volerci dai 10 ai 20 anni, e nessuna compagnia investirà miliardi senza un clima politico stabile e un quadro legale chiaro​. L’Afghanistan, pur sedendo su un tesoro di “oro bianco”, resta un luogo rischioso: l’instabilità cronica, la mancanza di infrastrutture (strade, ferrovie, rete elettrica) e la corruzione endemica sono ostacoli imponenti. Anche la Cina procede con cautela, memore dei precedenti tentativi falliti. Nel 2007 un colosso minerario cinese si aggiudicò la concessione per la gigantesca miniera di rame di Mes Aynak, a pochi chilometri da Kabul, ma il progetto non decollò mai davvero a causa di problemi di sicurezza e dispute contrattuali con le autorità locali​. Ancora oggi, sulle colline polverose di Mes Aynak, giacciono abbandonati macchinari e scavi accanto ai resti di un antico monastero buddhista, in un paesaggio sospeso tra passato e futuro​. I Talebani promettono che questa volta sarà diverso: il ministro delle Miniere annuncia migliaia di posti di lavoro e infrastrutture rimesse in sesto grazie ai soldi cinesi​. Ma molti afghani guardano a queste promesse con scetticismo, ricordando che negli anni passati le ricchezze naturali del Paese sono state più una maledizione che una benedizione. Nel frattempo, il resto del mondo osserva con interesse misto a preoccupazione: se la Cina metterà le mani sul litio afghano, rafforzerà ulteriormente la propria presa sulla filiera globale delle batterie, innescando nuovi equilibri (e tensioni) geopolitici​. Comunque vada, il destino di quei giacimenti scintillanti sotto le montagne rimane incerto – proprio come il destino dell’Afghanistan stesso.

Il mondo a guardare: l’ONU e la comunità internazionale

Mentre all’interno del Paese si consuma questo dramma fatto di divieti, fame e risorse contese, la comunità internazionale assiste con un misto di impotenza e fatica a un “film” che sembra aver già visto. Dopo il ritorno dei Talebani, nessun governo straniero ha formalmente riconosciuto il loro Emirato come legittimo governo dell’Afghanistan. Le ambasciate occidentali hanno chiuso o ridotto al minimo la loro presenza. Eppure, nonostante l’isolamento politico, l’Afghanistan non è stato abbandonato del tutto. All’orizzonte c’è sempre l’ombra delle crisi globali che possono scaturire da un Afghanistan instabile: flussi di rifugiati, traffico di droga (il Paese resta uno dei maggiori produttori di oppio al mondo), e il rischio che il territorio torni ad essere un santuario per gruppi terroristici internazionali. Per queste ragioni, i principali attori mondiali mantengono un equilibrio precario fra il non legittimare i Talebani e il doverci comunque dialogare per necessità pratiche.

Guterres

In prima linea in questo sforzo c’è l’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’ONU è presente in Afghanistan attraverso la sua missione UNAMA e varie agenzie umanitarie, cercando di alleviare la crisi e allo stesso tempo di difendere i diritti fondamentali. È un compito arduo e a tratti frustrante. Nel Palazzo di Vetro di New York, il segretario generale António Guterres ha più volte lanciato l’allarme: “Non possiamo disimpegnarci – non possiamo abbandonare gli afghani al proprio destino”, ha dichiarato, definendo quella afghana “la più grave crisi umanitaria del mondo”​. Guterres ha snocciolato cifre agghiaccianti: milioni di persone sull’orlo della fame, un intero genere – le donne e ragazze – privato dei propri diritti, un paese allo stremo. E ha ribadito che l’ONU “non resterà in silenzio di fronte agli attacchi sistematici ai diritti delle donne e delle ragazze”​. Parole forti, necessarie anche per rassicurare tanti afghani (dentro e fuori il paese) che avevano tremato quando, nell’aprile 2023, una dichiarazione della vice-segretaria Amina Mohammed parve aprire all’idea di “piccoli passi” verso un possibile dialogo politico coi Talebani, magari in vista di un riconoscimento graduale. Quelle parole scatenarono indignazione, soprattutto tra le attiviste afghane della diaspora, che scesero in piazza persino contro l’ONU temendo un “tradimento” delle donne afghane​. Guterres ha quindi dovuto chiarire pubblicamente che non c’è alcuna intenzione di riconoscere il regime talebano, finché questo nega diritti basilari alle donne.

Sul terreno, però, la situazione resta difficilissima. In aprile 2023 i Talebani hanno persino vietato alle donne afghane di lavorare per le Nazioni Unite, estendendo anche al personale femminile dell’ONU il divieto che già colpiva le ONG locali e internazionali​. Questa mossa, definita “inaccettabile e inconcepibile” dallo stesso Guterres, ha messo in crisi le operazioni umanitarie: in una società dove uomini e donne non possono interagire liberamente, la mancanza di operatrici femminili significa che molte donne afghane bisognose di aiuto finiranno per non riceverlo affatto​. Di fronte a questi ostacoli, le agenzie dell’ONU e le organizzazioni umanitarie si trovano a dover bilanciare il principio di “non lasciare indietro nessuno” con la realtà di dover trattare con un governo intransigente. Alcune ONG hanno temporaneamente sospeso le attività in segno di protesta, altre provano a negoziare esenzioni per il personale femminile in determinati settori (come la sanità). Nel frattempo, gli appelli delle Nazioni Unite affinché i Talebani revochino questi divieti sono rimasti inascoltati.

La spaccatura non è solo tra ONU e regime locale; attraversa anche la comunità internazionale. Al Consiglio di Sicurezza, le potenze mondiali faticano a trovare una linea comune sulla crisi afghana. Una risoluzione (la n. 2681 del 27 aprile 2023) ha condannato con forza le discriminazioni di genere e chiesto la piena partecipazione delle donne alla società​, ma nei fatti le posizioni restano divergenti. Paesi come Cina e Russia – più aperti a dialogare coi Talebani per ragioni strategiche ed economiche – frenano su misure troppo punitive; altri, come le democrazie occidentali, insistono pubblicamente sui diritti umani ma al contempo riducono il loro coinvolgimento diretto in Afghanistan dopo vent’anni di impegno oneroso. Il risultato? Nessuno riconosce i Talebani, ma nessuno riesce nemmeno a smuoverli dal loro integralismo interno. E intanto gli aiuti arrivano col contagocce: nel 2023 l’ONU ha lanciato un appello per 4,6 miliardi di dollari di aiuti umanitari, ma a metà anno ne erano stati raccolti solo 294 milioni – appena il 6% del necessario​. La stanchezza e altre crisi globali (dalla guerra in Ucraina al Medio Oriente) distolgono attenzione e risorse. “Il mondo ha già mollato l’Afghanistan”, titolava amaramente un rapporto, sottolineando come la tragedia afghana non faccia più notizia internazionale​. Sul campo restano pochi eroi silenziosi: i medici volontari che curano i malati senza strumenti, gli operatori locali che distribuiscono cibo rischiando ritorsioni, e gli stessi funzionari ONU che, nonostante tutto, continuano a lavorare nel Paese convinti che salvare vite e tenere accesa una luce di speranza valga il rischio.

Le donne che non si arrendono

In un Afghanistan così oppressivo, c’è però una forza che arde silenziosa e tenace: quella delle donne. Sin dai primi giorni dopo la caduta di Kabul nel 2021, le donne afghane hanno mostrato un coraggio straordinario. Mentre tutto intorno a loro cambiava in peggio, gruppi di studentesse, professioniste, casalinghe sono scese in strada con cartelli e slogan, reclamando i propri diritti. “Pane, lavoro, libertà!”, gridavano a Kabul e in altre città, mentre i Talebani le circondavano con sguardi minacciosi. Dal 17 agosto 2021 in poi, le proteste guidate da donne contro il regime talebano e in difesa dei diritti sono state numerose, malgrado fossero affrontate con repressione crescente​. All’inizio c’erano sit-in pacifici, marce coraggiose sotto gli occhi di combattenti armati; le manifestanti sventolavano cartelli scritti a mano e la bandiera tricolore afghana, simbolo della nazione che speravano di ritrovare. La risposta dei Talebani è andata facendosi sempre più brutale: gli spari in aria sono diventati bastonate, poi proiettili diretti. Almeno 10 manifestanti pacifici sono stati uccisi nei primi mesi, decine feriti, e molte attiviste sono scomparse in quello che appare come un piano deliberato di intimidazione​. I volti di alcune giovani coraggiose – come Zahra e Maryam – che guidavano i cortei, all’improvviso non si sono visti più. Si è saputo poi che erano state arrestate, tenute in isolamento, forse torturate, costrette a “confessare” colpe inesistenti prima di essere rilasciate a condizione di tacere​. La paura ha lentamente soffocato le proteste di piazza: entro l’inizio del 2022 i Talebani erano riusciti a spegnere quasi del tutto le manifestazioni pubbliche, anche se piccoli focolai di dissenso sono riesplosi di tanto in tanto – ad esempio nel dicembre 2022, quando il divieto per le donne di frequentare l’università ha spinto gruppi di studentesse disperate a protestare fuori dai campus, venendo rapidamente disperse con la forza.

Donne Afghanistan

Ma se la protesta visibile è stata soffocata, la resistenza femminile non si è estinta – si è adattata. In segreto, le donne hanno iniziato a costruire reti di solidarietà e sostegno reciproco, per aiutarsi a vicenda a sopravvivere e a non rinunciare ai propri sogni​. Nelle case private nascono piccole scuole clandestine: salotti trasformati in classi, dove un’insegnante ormai senza lavoro raduna poche ragazze fidate e continua ad impartire lezioni sottovoce, tenendo a portata di mano un Corano e dei veli aggiuntivi per fingersi in un normale incontro religioso in caso di irruzione. Alcune organizzazioni della società civile, fondate negli anni scorsi da attiviste, non si sono sciolte ma hanno cambiato forma: niente uffici visibili, solo gruppi Whatsapp e incontri itineranti ogni volta in un luogo diverso. Attiviste come Shamail Naseri hanno vissuto in fuga, cambiando casa di continuo per sfuggire all’arresto, ma continuando a coordinare aiuti per le donne più vulnerabili. “Non mi fermeranno, andrò avanti”, ha dichiarato Naseri da un luogo segreto a Kabul, sapendo di rischiare la vita per ogni telefonata fatta alle sue compagne di lotta​. In varie province, da Herat a Bamiyan, nascono safe house improvvisate per ospitare donne che fuggono da violenze domestiche (aumentate durante questi mesi bui)​. Non c’è più il Ministero per le Donne a proteggerle, né i centri anti-violenza di una volta – chiusi o rilevati da uomini armati – ma ci sono connessioni sotterranee di donne che passano parola, documentano abusi, tengono accesa l’attenzione​. Alcune riescono a far avere testimonianze all’estero, ad organizzazioni come Amnesty International o Human Rights Watch, che le pubblicano amplificando la loro voce.

Questa resistenza civile femminile è fatta anche di gesti quotidiani di disobbedienza silenziosa. C’è chi, sfidando i decreti, continua a insegnare alle bambine del vicinato a leggere e scrivere. C’è chi organizza corsi di cucito o laboratori artigianali come copertura per incontrarsi e parlarsi. A Kabul, all’alba, capita di vedere donne che appendono piccoli fogli di carta sui muri: sono messaggi anonimi che recitano “Non abbiate paura” o “Insieme siamo più forti”. Anche ascoltare musica o indossare abiti colorati può diventare un atto di sfida: un rossetto rosso intravisto sotto il velo integrale, un libro passato di nascosto a un’amica. Nonostante il rischio di conseguenze terribili – dai pestaggi alla prigione – le donne che protestano o resistono in Afghanistan continuano a sfidare il regime a modo loro​. Organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno denunciato che i Talebani stanno conducendo una vera e propria “guerra contro le donne”. Secondo Human Rights Watch e Amnesty International, la sistematica persecuzione di genere attuata in Afghanistan configura un crimine contro l’umanità​. Di fronte a simili denunce, il governo talebano finora ha reagito negando l’evidenza e ribadendo che “in Afghanistan le donne sono rispettate secondo la Sharia”. Ma i fatti quotidiani – le prigioni piene di detenute politiche, le porte delle scuole sbarrate, le voci femminili zittite – raccontano un’altra storia.

Eppure, malgrado tutto, la forza d’animo delle afghane non si spegne. “Le donne in Afghanistan non hanno smesso di lottare per i propri diritti, né smetteranno”, ha scritto un rapporto di UN Women a tre anni dalla presa di Kabul​. Le nuove generazioni, cresciute con internet e con lo sguardo al di là delle montagne, sanno cosa c’è fuori: sanno che altrove le donne vanno all’università, lavorano, partecipano alla vita politica. Anche se oggi quel mondo sembra lontanissimo, quella consapevolezza alimenta una determinazione silenziosa. Nei loro sogni, le ragazze afghane continuano a vedere un domani diverso – e ogni tanto, in piccoli gruppi coraggiosi, lo disegnano su un cartellone da esporre per strada, pronte a correre e nascondersi subito dopo.

Oltre il passato: il sogno di un nuovo Afghanistan

Nella sua stanzetta in penombra, la giovane ragazza di Kabul torna con la mente al suo sogno. Fuori, la città è avvolta nel silenzio notturno, rotto solo dal ronzio lontano di un generatore elettrico. Lei sa che il presente è cupo: ha visto sua madre piangere mentre riponeva in una scatola i libri di scuola che lei non può più usare, ha visto suo padre tornare a casa con lo sguardo perso, dopo l’ennesima giornata in fila per un tozzo di pane all’ente di beneficenza. Eppure, nel buio, quella ragazza immagina. Immagina che un giorno potrà aprire di nuovo quei libri e studiare a testa alta. Immagina un Afghanistan finalmente in pace con sé stesso e col mondo, dove i talenti dei giovani non debbano fuggire all’estero e dove nascere donna non sia più una condanna. Forse ricorda le storie che le raccontava sua nonna: di quando Kabul era chiamata la “Parigi dell’Asia centrale” negli anni ’60, con le ragazze in minigonna all’università e i cinema affollati; oppure i racconti di suo nonno, che parlava di onore e ospitalità, di un popolo fiero capace di resistere a ogni invasore. Tra passato e futuro, l’Afghanistan di oggi sembra sospeso su un filo sottile. Da una parte c’è il rischio che rimanga prigioniero per sempre dei suoi fantasmi – l’estremismo, la violenza, l’ingerenza straniera; dall’altra c’è la speranza che la nuova generazione riesca prima o poi a spezzare queste catene.

Quella speranza vive nei gesti quotidiani: nel maestro che in un villaggio remoto insegna aritmetica ai bambini usando una stecca sulla terra battuta; nell’ingegnere che rimane nel Paese per aiutare a costruire un pozzo, invece di andare via; nella madre che, di nascosto, insegna alla figlia l’alfabeto. Vive anche nella diaspora afghana sparsa nel mondo – dai campi profughi del vicino Pakistan fino alle università occidentali – che non smette di pensare alla propria terra e di fare il possibile per aiutarla con rimesse, appelli, iniziative umanitarie. “Non vi dimenticheremo” è il messaggio che questi afghani inviano ai loro fratelli e sorelle rimasti indietro. E anche se il mondo sembra essersi stancato di ascoltare, loro continuano a parlare.

Nel cielo cominciano a impallidire le stelle mentre la notte volge al termine. A Kabul, la ragazza con i suoi quaderni sente il muezzin chiamare la Fajr, la preghiera dell’alba. Si alza, sistema il velo e fa una promessa a sé stessa: un giorno tornerò a scuola. È una promessa semplice e rivoluzionaria al tempo stesso. In quella promessa c’è tutto il desiderio di un popolo di non lasciarsi definire solo dal proprio passato. Perché se è vero che l’Afghanistan oggi appare come un mondo che non riesce a lasciare il passato, è altrettanto vero che nel cuore dei suoi abitanti – soprattutto dei più giovani – arde il sogno di un futuro diverso. Un futuro in cui le montagne dell’Hindu Kush vedranno finalmente la pace e in cui le ragazze potranno correre per le strade di Kabul con i libri in mano e il volto scoperto rivolto al sole del nuovo mattino.

 

Fonti principali

Euronews (Afp)Afghanistan: litio e altri metalli, i talebani controllano ora una delle maggiori riserve al mondo, 19 agosto 2021. Disponibile su: it.euronews.com​
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Andrea Barolini, Valori.itL’Afghanistan, il ritorno dei talebani e il tesoro di litio, 24 agosto 2021. Disponibile su: valori.it​
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Alberto Prina Cerai, Formiche.netCosì la Cina mette le mani sul litio dell’Afghanistan, 5 maggio 2023. Disponibile su: formiche.net​
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Giuliano Battiston, il manifestoA Doha l’Onu ci prova. Ma il mondo ha già mollato l’Afghanistan, 4 maggio 2023. Disponibile su: ilmanifesto.it​
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Redazione ANSAI talebani vietano alle afghane di lavorare per l'Onu, 4 aprile 2023. Disponibile su: ansa.it​
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Save the Children ItaliaCosa sta succedendo in Afghanistan, la crisi e la situazione delle donne, aggiornato 2023. Disponibile su: savethechildren.it​
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Michal Kranz, Al JazeeraAfghan women, undeterred by Taliban, secretly network for change, 28 novembre 2022. Disponibile su: aljazeera.com​
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Human Rights WatchThe Taliban and the Global Backlash Against Women’s Rights, 6 febbraio 2024. Disponibile su: hrw.org​
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2021–2022 Afghan Protests (Wikipedia)Voce di Wikipedia sulle proteste in Afghanistan 2021–2022, ultimo aggiornamento 2023. Disponibile su: en.wikipedia.org​
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Amnesty InternationalAfghanistan: le violazioni dei diritti umani accertate nel 2023, 2023. Disponibile su: amnesty.it​
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Ambasciata di Francia in ItaliaAfghanistan: situazione delle donne e delle ragazze sotto il regime talebano, 8 marzo 2023. Disponibile su: https://it.ambafrance.org/Afghanistan-situazione-delle-donne-e-delle-ragazze-sotto-il-regime-talebano 

UN WomenWomen in Afghanistan have not stopped striving for their rights..., 15 agosto 2024. Disponibile su: unwomen.org​
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ReliefWeb (UNOCHA)Afghanistan: Humanitarian Needs Overview 2022, gennaio 2022. Disponibile su: reliefweb.int​
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ISPI (a cura di)L'Afghanistan a due anni dal ritorno dei talebani, 15 agosto 2023. Disponibile su: ispionline.it

New York Times (T. Gibbons-Neff et al.)Riches of Afghanistan: $1 Trillion in Mineral Deposits, 13 giugno 2010. (Articolo citato da fonti Euronews/Valori) Disponibile su: nytimes.com

ONU NewsIntervento di António Guterres alla conferenza di Doha sull’Afghanistan, 2 maggio 2023. Disponibile su: press.un.org (Dichiarazioni sulle necessità umanitarie e i diritti delle donne)​
ilmanifesto.it

 

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