Cos’è il fast fashion e perché domina ancora
Il fast fashion (o “moda veloce”) è un ramo dell’industria dell’abbigliamento che produce capi in serie a costi molto bassi, per poi venderli a prezzi altrettanto bassi. È diventato noto al grande pubblico grazie a grandi brand che ne hanno fatto il proprio modello di business, con collezioni ispirate alle passerelle riprodotte rapidamente e messe sul mercato in tempi sempre più brevi. Oggi, accanto ai marchi storici della fast fashion (Zara, H&M, Primark…), esistono piattaforme di ultra fast fashion (Shein, Temu…) che sfornano nuovi capi praticamente ogni giorno, spesso venduti esclusivamente online.
Da “moda veloce” si sta passando alla moda “ultra veloce”, con collezioni che cambiano anche ogni settimana, a prezzi sempre più bassi, con uno sfruttamento crescente dei lavoratori e danni sempre più importanti all’ambiente. Questo sistema spinge il consumatore all’acquisto compulsivo ed eccessivo: consumo e sovrapproduzione si alimentano a vicenda. La scarsa qualità dei materiali porta i capi a rovinarsi in fretta e crea la necessità di acquistare regolarmente nuovi articoli.
Si stima che in Europa si generino oltre 12 milioni di tonnellate di rifiuti tessili l’anno, tra scarti industriali e indumenti post-consumo. In media, un cittadino europeo acquista circa 19 kg di tessili l’anno e ne smaltisce circa 11, ma solo l’1% dell’usato viene riciclato in nuovi abiti. Il resto viene bruciato, finisce in discarica o viene esportato in Paesi dove spesso non esistono sistemi adeguati di gestione dei rifiuti.
Un’industria che pesa sul clima, sulle risorse e sulla biodiversità
Enormi emissioni di CO₂
La produzione, la lavorazione e il trasporto di materie prime come cotone, polimeri plastici, metalli e altre sostanze necessarie per realizzare capi d’abbigliamento e accessori moda sono fonti di grandi quantità di gas serra. La delocalizzazione degli impianti produttivi in Paesi del Sud del mondo (come India, Bangladesh o Vietnam) comporta lunghi circuiti di distribuzione. Più questi circuiti si allungano, più aumenta l’impronta ambientale legata al trasporto.
Secondo stime di settore, un capo di abbigliamento può percorrere anche decine di migliaia di chilometri prima di arrivare al consumatore. Il trasporto può avvenire via ferrovia o via terra, ma anche per via aerea. Un aereo emette molto più carbonio, aumentando sensibilmente le emissioni di CO₂ associate al prodotto finale. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2020 hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO₂ per persona, per un totale di circa 121 milioni di tonnellate di gas serra.
Eccessivo sfruttamento delle risorse naturali
Il fast fashion richiede necessariamente grandi quantità di materiali tessili. Quando sono di origine naturale, le colture necessitano di enormi quantità di acqua per crescere; quando invece sono di origine sintetica, richiedono l’estrazione e la trasformazione di risorse petrolifere, che a loro volta richiedono grandi quantità di energia e acqua.
Si stima che l’industria tessile utilizzi ogni anno circa il 4% dell’acqua potabile disponibile. Per fabbricare una singola maglietta di cotone si stima, a livello globale, un consumo di circa 2.700 litri di acqua dolce: un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in due anni e mezzo. Nel 2020, il settore tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo. Nel 2022, il consumo tessile pro capite nell’UE ha richiesto in media 323 m² di suolo, 12 m³ di acqua e 523 kg di materie prime, causando l’equivalente di 355 kg di emissioni di CO₂.
Inoltre, la produzione eccessiva comporta l’utilizzo di grandi quantità di prodotti chimici per il trattamento degli indumenti e di pesticidi nella coltivazione di materie prime come il cotone. Queste sostanze contaminano i suoli, i corsi d’acqua e gli oceani, danneggiando le specie animali marine, la fauna selvatica terrestre e, indirettamente, anche l’acqua che beviamo.
Rifiuti tessili e inquinamento globale
Il rinnovo continuo dei capi comporta spesso la distruzione delle collezioni rimaste invendute o rispedite al mittente: riciclarle, allo stato attuale, costa spesso più che distruggerle. Il rilascio in natura di milioni di pezzi tessili che finiscono bruciati o ammucchiati in discariche a cielo aperto in Paesi poveri crea veri e propri “hotspot” di inquinamento, sia in mare sia su vaste aree di territorio. I capi si decompongono lentamente, rilasciando nel terreno e nell’acqua agenti di trattamento chimico, residui e coloranti. Nel 2022 si sono generati 12,6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili: circa 12 kg per persona.
Una parte importante di questi rifiuti è composta da fibre sintetiche, soprattutto poliestere, che rilasciano microplastiche durante il lavaggio e durante la degradazione in ambiente naturale. A ogni lavaggio in lavatrice, un capo sintetico può rilasciare migliaia di microfibre, contribuendo alla contaminazione degli ecosistemi acquatici.
Maltrattamento degli animali e declino della biodiversità
La moda, e in particolare l’ultra fast fashion, contribuisce anche all’uccisione e allo sfruttamento di animali per pelle, pelliccia o lana, spesso in condizioni che non rispettano minimamente il loro benessere. La distruzione di habitat legata alle monocolture (come quelle per il cotone) e l’inquinamento chimico di suoli e acque contribuiscono ulteriormente al declino della biodiversità.
Il costo umano della moda: sfruttamento dei lavoratori
Oltre al costo ambientale, c’è un costo sociale. In tutto il mondo circa 75 milioni di persone lavorano nell’industria tessile e una percentuale significativa affronta condizioni di lavoro estreme. I giganti della moda esternalizzano la produzione nei Paesi in via di sviluppo, sfruttando manodopera a basso costo. In questo modo ottengono margini elevati a discapito della salute e della dignità della forza lavoro.
Per massimizzare i profitti, le ore di lavoro sono lunghissime, spesso in condizioni discutibili e per salari estremamente bassi. Norme di sicurezza insufficienti, edifici non a norma, mancanza di tutele sindacali e sociali rendono il settore particolarmente vulnerabile ad abusi e incidenti. La corsa al prezzo più basso non ricade solo sull’ambiente, ma anche su chi realizza fisicamente i capi.
Abiti usati, greenwashing e il falso mito del poliestere riciclato
Abiti usati e false promesse di sostenibilità
Per porre rimedio, almeno in apparenza, a questo sistema produttivo e soprattutto all’immagine che ne deriva, molte aziende cercano di migliorare la reputazione con promesse di sostenibilità che spesso non hanno riscontro reale. Il consumatore è vittima di un inganno: vaste campagne di comunicazione lasciano intendere che il modello produttivo sia “green”, che i capi vengano riciclati o riutilizzati e che acquistare nei negozi “giusti” sia, di per sé, un gesto responsabile.
Il rapporto di Greenpeace “Greenwash Danger Zone” ha esaminato etichette di presunta sostenibilità di 29 marchi, tra cui Zara, H&M e Primark. Poiché la capacità di riciclo del tessile è ancora limitata, i materiali non riutilizzabili finiscono comunque bruciati o in discarica. La realtà è che, nonostante il linguaggio ecologico, la struttura di base del business rimane fondata su sovrapproduzione e smaltimento rapido.
Raccolta incentivata ma opaca
Molti consumatori portano i propri indumenti usati nei negozi di catene come H&M e Zara pensando di favorire il riuso o il riciclo. Spesso ciò è incentivato da iniziative commerciali: H&M Italia, per esempio, offre uno sconto di 5 euro su una spesa minima di 40 euro per ogni sacco di abiti consegnato. Le aziende comunicano programmi di raccolta in collaborazione con ONG, finalizzati ad aiutare progetti sociali o a recuperare materiali, alimentando l’idea di un’economia circolare.
Un rapporto di Changing Markets Foundation ha tracciato capi donati a H&M, Zara, C&A, Nike e altri brand: tre quarti degli indumenti donati non sono mai tornati in circolazione, ma sono stati distrutti, scartati o esportati in altri Paesi. La raccolta è quindi spesso incentivata ma opaca: il consumatore crede di fare la cosa giusta, mentre nella pratica la maggior parte dei capi continua a seguire la stessa logica di scarto.
Il falso mito del poliestere riciclato
Il poliestere riciclato proviene principalmente da bottiglie di plastica (PET), da cui si ricavano fibre di poliestere da utilizzare nella produzione di abbigliamento o di altri prodotti di origine fossile. Una volta trasformato in tessuto, il ciclo del riciclo si ferma: il materiale non è più riutilizzabile nello stesso modo e finisce, prima o poi, tra i rifiuti.
Il poliestere riciclato ha un’impronta di CO₂ inferiore rispetto al poliestere vergine, ma non elimina il problema delle microplastiche e non permette un riciclo davvero circolare: una volta trasformato in tessuto, non può essere riciclato di nuovo come bottiglia. A ogni lavaggio, dai capi vengono rilasciate fino a 1.900 microfibre, che aumentano la contaminazione degli ecosistemi acquatici. Zara, per esempio, produce in media 800 milioni di capi ogni anno, soprattutto in poliestere. Il riciclo del PET in tessuto non risolve quindi il problema di fondo: sposta semplicemente la plastica da un flusso di rifiuti a un altro, mantenendo intatto il modello di sovrapproduzione.
Tra il 2025 e il 2026 cambiano le regole del gioco: UE e Italia verso l’economia circolare
L’industria tessile italiana tra tradizione e sfide
L’industria tessile italiana è un pilastro del manifatturiero. L’Italia è conosciuta per la moda e per il made in Italy nel settore. Nel 2019 si è classificata al terzo posto tra i principali esportatori di prodotti tessili, con un peso del 2,1% sulle esportazioni totali. Il settore è dominato da piccole e microimprese, spesso artigiane, che devono affrontare la concorrenza di prodotti a basso costo provenienti dai Paesi extraeuropei, conseguenza diretta della globalizzazione.
Nel 2023, solo una parte dei rifiuti tessili è stata avviata alla raccolta differenziata (circa 172.000 tonnellate). Il riciclo nel settore è ancora in fase di sviluppo, con notevoli differenze tra regioni: al Nord si raccolgono più di 2,8 kg di tessile per abitante, mentre al Sud si arriva a circa 2 kg.
Normative UE: WFD, strategia tessile, CSRD, ESPR ed EPR
Il fenomeno del fast fashion e le sue conseguenze ambientali e sociali sono ormai noti. Per questo l’Unione Europea ha avviato un percorso normativo sui rifiuti tessili che diventerà progressivamente più vincolante tra il 2025 e il 2026.
Già nel 2018 l’UE aveva aggiornato la direttiva Waste Framework Directive (WFD – 2008/98/CE), che introduce la gerarchia dei rifiuti tuttora valida (prevenzione, riuso, riciclo, recupero, smaltimento). Nel marzo 2022 la Commissione europea ha presentato una strategia per rendere i tessuti più durevoli, riparabili, riutilizzabili e riciclabili, e per affrontare il fenomeno del fast fashion stimolando l’innovazione nel settore.
È seguita la Direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità (CSRD), che introduce obblighi di trasparenza: le grandi aziende devono rendicontare emissioni, impatti ambientali, uso di materiali, rifiuti e filiera.
La nuova strategia, con il Regolamento Ecodesign per i prodotti sostenibili (ESPR) del 2024 e i nuovi regimi di responsabilità estesa del produttore (EPR) per il tessile, introduce requisiti di progettazione ecocompatibile, informazioni più chiare, un passaporto digitale dei prodotti e un rafforzamento della responsabilità dei brand nel ridurre l’impronta di CO₂ e l’impatto ambientale. Ogni Paese dell’UE dovrà attivare questi regimi entro 30 mesi dall’entrata in vigore, applicando contributi finanziari basati sui volumi immessi sul mercato e incentivando obiettivi di riuso e riciclo. Nella definizione delle tariffe si terrà conto anche dei modelli fast e ultra fast fashion, per penalizzare chi produce capi a bassissima durabilità.
Esiste inoltre il marchio Ecolabel UE, in vigore da molti anni, che certifica prodotti tessili progettati secondo criteri ecologici stringenti, dando maggiore visibilità a quelli che includono meno sostanze nocive e causano meno inquinamento dell’acqua e dell’aria.
La gestione dei rifiuti tessili in Italia e lo schema EPR
Dal 1° gennaio 2022 anche l’Italia si è adeguata alle normative europee sulla gestione dei rifiuti tessili, introducendo l’obbligo di raccolta differenziata con il Decreto Legislativo 116/2020. La legge impone alle amministrazioni comunali di organizzare una raccolta separata dei rifiuti tessili. Sul campo, però, emergono difficoltà legate alla mancanza di indicazioni operative precise e all’assenza di una filiera strutturata capace di valorizzare tutte le frazioni. La norma lascia spazio di manovra agli enti locali e agli operatori privati, creando una situazione frammentata, con molti punti interrogativi sulla divisione dei compiti e sulle responsabilità dei diversi attori della filiera.
Nella pratica, la raccolta è prevalentemente gestita da cooperative sociali e organizzazioni non profit (soprattutto al Nord). Le raccolte originarie (non selezionate) vengono vendute ai selezionatori con finalità orientate al riuso. Queste possono essere acquistate dai selezionatori italiani anche dall’estero (soprattutto dal Nord Europa), così come può accadere anche il contrario (per esempio verso la Tunisia). I selezionatori, chiamati anche smistatori o operatori di selezione, sono anelli fondamentali della filiera: ricevono grandi volumi di abiti, scarpe e tessuti raccolti attraverso cassonetti, donazioni o ritiri alla porta e li classificano per condizioni, qualità, materiale, composizione e destinazione d’uso, assegnando ogni articolo al canale più appropriato. Questo lavoro permette di massimizzare il riutilizzo e migliorare la qualità del riciclo.
I primi nodi da sciogliere riguardano proprio la qualità della raccolta: i rifiuti tessili non vengono sempre separati correttamente e si stima che solo il 50% dei rifiuti tessili venga effettivamente riutilizzato o riciclato.
L’EPR, dall’inglese Extended Producer Responsibility, è il sistema operativo che applica il principio di responsabilità estesa del produttore previsto dal D.Lgs. 116/2020, rendendo il produttore finanziariamente e operativamente responsabile della gestione della fase di fine vita dei prodotti, una volta diventati rifiuti. Il costo della raccolta, del trattamento e del riciclo non ricade più interamente sui Comuni o sulle collettività, ma viene internalizzato nel prezzo del prodotto e coperto dal produttore, incentivandolo a ridurre gli impatti e i costi di gestione.
In pratica, dovendo sostenere quei costi, i produttori sono spinti a investire in design più sostenibili, utilizzando materiali più duraturi e riciclabili. Meno il capo inquina, minore dovrebbe essere il contributo da versare. Inoltre, il produttore può disporre di maggiori risorse finanziarie per potenziare infrastrutture di raccolta e riciclo su scala nazionale.
L’attivazione definitiva dell’EPR per il tessile è prevista attorno al 2026 e rappresenta l’azione correttiva che dovrebbe permettere al Paese di trasformare la raccolta differenziata in una filiera industriale: o, quantomeno, questa è la direzione auspicata.
Rafforzare sempre di più l’economia circolare
L’imminente schema EPR, che verrà finalizzato dal MASE (Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) dopo il confronto con gli operatori, ha un obiettivo chiaro: costruire una filiera integrata, assicurando a monte una raccolta capillare e mirata delle diverse frazioni tessili e, a valle, misure economiche per incentivare l’industria a usare fibre riciclate.
Rafforzando la responsabilità del produttore, si potrebbero ridurre pratiche illecite e sanzionare gli operatori che raccolgono o smaltiscono i rifiuti in modo illegale.
Gli sviluppi normativi e tecnologici devono però essere accompagnati da campagne di sensibilizzazione e informazione. Informare i cittadini sull’importanza di una corretta gestione dei rifiuti tessili, incentivare acquisti più consapevoli e ridurre il consumo eccessivo può produrre risultati importanti.
Il quadro che si sta delineando è impegnativo, ma apre anche la possibilità di trasformare la moda in un settore più giusto e meno distruttivo. Dal 2026 in avanti, la sfida sarà fare in modo che le nuove regole europee e italiane non rimangano sulla carta, ma diventino davvero il motore di una transizione verso un sistema tessile più circolare e responsabile.
Fonti
- EYWA
21 ottobre 2025, Se produci inquinando, poi paghi! L’Europa dichiara guerra alla moda usa-e-getta.
https://eywadivulgazione.it/se-produci-inquinando-poi-paghi-leuropa-dichiara-guerra-alla-moda-usa-e-getta/ - UNITELMA SAPIENZA – Università degli Studi di Roma
Fast fashion: Sostenibilità e Inquinamento dell’industria della moda.
https://www.unitelmasapienza.it/sustain/fast-fashion/ - PARLAMENTO EUROPEO – Economia circolare
15 settembre 2025, L’impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull’ambiente.
https://www.europarl.europa.eu/topics/it/article/20201208STO93327/l-impatto-della-produzione-e-dei-rifiuti-tessili-sull-ambiente - CONFIDUSTRIA MACERATA
11 novembre 2025, RIFIUTI: revisione della Direttiva quadro dell’UE sui rifiuti. Nuovi regimi di responsabilità estesa per tessili e calzature.
https://www.confindustriamacerata.it/ambiente-energia-trasporti/article/21787-rifiuti-revisione-della-direttiva-quadro-dell-ue-sui-rifiuti-nuovi-regimi-di-responsabilita-estesa-per-tessili-e-calzature
- EYWA
- CORRIERE DELLA SERA – Data Room di Milena Gabarelli
Marta Marina Foglia, Milena Gabarelli, Zara, H&M e Primark: tessuti tossici e inquinamento? Quando la svolta ecologica del fast fashion è un inganno.
https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/zara-hm-primark-tessuti-tossici-inquinamento - GREENPEACE
Greenpeace Report Greenwash Danger Zone.
https://www.greenpeace.de/publikationen/Greenpeace_Report_Greenwash_Danger_Zone.pdf - REGIONE E AMBIENTE – Rivista di informazione e aggiornamento
30 maggio 2025,Rifiuti tessili: come cambierà la gestione con l’EPR.
https://www.regionieambiente.it/rifiuti-tessili-ref/ - GREENREPORT.IT – Il quotidiano dell’ecologia e dell’economia sostenibile
9 maggio 2025, Laboratorio REF Ricerche,Contro il fast fashion: con l’Epr sui rifiuti tessili, l’Italia dovrà cambiare passo.
https://www.greenreport.it/news/green-economy/55564-contro-il-fast-fashion-con-lepr-sui-rifiuti-tessili-litalia-dovra-cambiare-

