Immagina di raccogliere una piccola zolla di terra e di tenerla sul palmo della mano. A prima vista sembra solo terriccio scuro, inerte. Ma se potessi entrare dentro quella manciata di suolo, o anche solo osservarla al microscopio, ti troveresti davanti un universo in pieno fermento. Minuscoli batteri si scambiano messaggi chimici: zuccheri e acidi che funzionano come veri e propri codici segreti; mentre sottili filamenti di funghi si allungano come vene luminose sotto terra, collegando radici lontane. Protozoi e microrganismi pascolano tra le colonie microbiche, tessendo una vita silenziosa che sostiene tutto ciò che vedi sopra la superficie: fili d’erba, fiori, alberi, insetti, animali. Anche noi.
In uno strato di appena trenta o quaranta centimetri vive circa il 30% di tutta la biodiversità del pianeta. Un dato vertiginoso che rivela un fatto spesso ignorato: sotto i nostri piedi esiste una rete invisibile che la biologa canadese Suzanne Simard ha chiamato Wood Wide Web – gioco di parole con il World Wide Web – per raccontare l’intreccio di filamenti fungini che mettono in comunicazione le piante e consentono scambi di nutrienti e informazioni.
Oltre ad essere la spina dorsale della vita sulla Terra, è anche un ingranaggio del clima: ogni respiro del mondo sotterraneo trattiene o libera carbonio, decide se l’atmosfera sarà più leggera o più carica di CO₂. E, che ce ne accorgiamo o meno, siamo parte di questa gigantesca conversazione sotterranea.
Il nostro dossier è un invito a chinarsi, letteralmente, e guardare sotto i piedi. A scoprire la rete vivente che regge ogni forma di vita, e capire perché oggi quella trama si sta spezzando. C’è un organismo collettivo che respira, cresce, si ammala e può guarire. La sua sorte è intrecciata alla nostra. Ogni respiro che facciamo, ogni cibo che mettiamo in tavola, ogni goccia d’acqua che beviamo dipende dalla vitalità di questo suolo invisibile. E la possibilità di rigenerarlo non riguarda un futuro lontano: comincia adesso, con le scelte che compiamo ogni giorno.
Il microbioma del suolo: il cuore invisibile della fertilità terrestre
Quando parliamo di microbioma del suolo parliamo di una comunità vivente e delle relazioni che la animano. Microbiota viene dal greco mikros, “piccolo”, e biotós, “che vive”, e indica i microrganismi stessi che abitano il suolo. Microbioma, dal greco mikros e bíos, “vita”, con il suffisso -oma, “insieme”, descrive invece l’universo dei loro geni e delle molecole che producono: i metaboliti, sostanze come zuccheri, acidi ed enzimi che regolano gli scambi e le reazioni da cui nascono i processi vitali del suolo. È questo intreccio a costituire il motore invisibile che fa funzionare tutto.
In questo mondo nascosto convivono batteri che trasformano l’azoto dell’aria in nutrienti disponibili per le radici (in pratica fertilizzano il terreno dall’interno) o che rendono assimilabili i minerali bloccati nelle rocce. Ci sono funghi che intrecciano filamenti sottili capaci di estendere il raggio delle radici per metri, prolungamenti silenziosi del loro micelio, la fitta rete di filamenti fungini che costituisce il vero corpo del fungo, capace di collegare piante diverse e di amplificarne la capacità di assorbire acqua e nutrienti. Vivono qui anche gli archei, microrganismi antichissimi capaci di resistere a condizioni estreme e di guidare cicli chimici fondamentali come quelli del metano o dell’azoto, e i protisti, organismi unicellulari che predano, riciclano e mantengono gli equilibri della comunità, minuscoli “giardinieri” o “spazzini” della rete sotterranea. Persino i virus partecipano in questa danza, modulando gli scambi di geni e nutrienti all’interno della comunità microbica del suolo.
Non c’è gerarchia: solo una trama collettiva, una rete che lavora come un unico organismo per mantenere la fertilità della terra e, con essa, la nostra stessa possibilità di vita.
Questa trama compie azioni decisive. Decompone foglie e legno producendo nutrienti e trasformandoli in humus, la frazione scura e stabile che dà struttura, trattiene acqua, lega carbonio. Orchestra i grandi cicli del carbonio e dell’azoto, convertendo molecole in forme assimilabili, trattenendo una parte di ciò che le piante catturano dall’aria. Produce ormoni vegetali naturali che stimolano la crescita, aiuta le piante a reggere a siccità e salinità attivando difese interne, rende biodisponibili fosforo, ferro, potassio. E fa da scudo: batteri e funghi benefici competono con patogeni e parassiti, colonizzano per primi gli spazi più ambiti della rizosfera (la sottile fascia di suolo che circonda le radici e pullula di scambi chimici e biologici), inducono una sorta di memoria immunitaria nelle piante.
Per questo la fertilità non può essere misurata con una sigla stampata su un sacco di concime. Non è un codice NPK (azoto, fosforo e potassio), è vitalità. Due terreni con lo stesso valore chimico possono comportarsi in modo opposto: se il suolo è vivo, ricco di microrganismi diversi e ben connessi, le colture resistono, crescono, si difendono. Se invece è inerte, tutto vacilla. Il suolo è un super-organismo: scaldalo troppo, ossigenalo male, privalo di sostanza organica o saturalo di molecole tossiche, e si ammala. Nutrilo di residui vegetali, proteggilo con una copertura e disturbalo il meno possibile, allora guarisce.
Nuove scoperte dal sottosuolo: DNA, vitamina B12 e salute condivisa
Le tecnologie “omiche” (cioè le tecnologie che analizzano in modo integrato geni e molecole di un ecosistema) hanno aperto questa città sotterranea come un libro illustrato. In un grammo di terra vivono miliardi di cellule microbiche, appartenenti a decine o centinaia di migliaia di specie: più biodiversità che in un’intera foresta compressa in un cucchiaino. Ogni ecosistema ha la sua firma. Alcune comunità accelerano la decomposizione e rilasciano più CO₂; altre stabilizzano carbonio in forme resistenti. Inizia così una nuova agronomia: identificare consorzi microbici che favoriscono l’accumulo di carbonio, la resilienza alla siccità, l’efficienza nutrizionale, e coltivarne la presenza con pratiche mirate.
Dentro questo quadro emergono registi insospettabili: cofattori vitaminici come i corrinoidi, “famiglia” della vitamina B12. Non tutte le specie sanno produrli; molte ne dipendono. Cambiare la disponibilità di queste molecole può orientare la composizione della comunità e le sue funzioni, spostando l’equilibrio verso assetti favorevoli alla pianta. È come modulare il traffico con pochi semafori posizionati bene.
Cresce intanto un approccio che Eywa abbraccia da sempre: One Health. La salute del suolo, delle piante, degli animali e dell’uomo è la stessa cosa. Un suolo vivo alimenta colture più nutrienti, riduce il bisogno di pesticidi e la presenza di contaminanti, influenza perfino il nostro sistema immunitario esponendoci, attraverso cibo e ambiente, a una diversità microbica amica. Prendersi cura del microbioma del suolo significa, letteralmente, prendersi cura di noi.
La rete segreta delle radici: come piante, funghi e insetti collaborano
Sotto un bosco o un orto, le ife micorriziche (i filamenti microscopici che compongono il micelio dei funghi) non trasportano solo risorse: veicolano messaggi. Una pianta attaccata può “avvertire” le vicine, che attivano difese prima che l’insetto o il patogeno arrivino. È un sistema di allerta precoce, un’anticipazione che fa la differenza tra una perdita e una resistenza corale.
I batteri della rizosfera influenzano la conversazione delle piante con gli insetti: modulano la produzione di composti volatili, rendono i fiori più attraenti per gli impollinatori o più sgradevoli per gli erbivori, cambiano la qualità del nettare, facilitano il lavoro delle coccinelle contro gli afidi. Pianta e microbi diventano un unico organismo esteso, un olobionte: un insieme formato da un organismo e da tutti i microrganismi che vivono in simbiosi con esso. Più in alto nella catena alimentare, gli effetti si moltiplicano. Colture sane e vigorose diventano meno vulnerabili ai parassiti, perché favoriscono una presenza più ricca di predatori naturali (coccinelle, crisopidi, acari e nematodi benefici) e, così, riducono la pressione dei parassiti anche sulle piante circostanti.
Poi ci sono gli ingegneri del suolo. Lombrichi che scavano gallerie, arieggiano, drenano e rimescolano la terra, espellono turricoli ricchi di humus finissimo. Formiche che trasportano semi e frammenti organici, coleotteri e larve che aprono pori, nematodi e protozoi che “pascolano” sui batteri mantenendo in equilibrio la loro dinamica. Un giardino troppo “pulito” è spesso biologicamente povero; un suolo dove restano legno morto, angoli incolti, microhabitat d’acqua è un mosaico di rifugi e corridoi. In un terreno vivo nessuno è protagonista assoluto: ognuno, facendo la propria vita, rende possibili quelle altrui.
Suolo e cambiamento climatico: quando la terra trattiene o rilascia CO₂
Il suolo è il più grande deposito di carbonio organico sulla terraferma. Quando funziona bene, una parte di ciò che le piante catturano dall’atmosfera scivola sottoterra e si trasforma in humus stabile. È un servizio gratuito e potentissimo: carbonio tenuto fuori dall’aria per anni, decenni, secoli. E il terreno ne esce rafforzato: la sua struttura diventa più solida e porosa, trattiene più acqua quando piove e la rilascia lentamente nei periodi di siccità, aumentando fertilità e capacità di nutrire la vita.
Ma se il suolo viene stressato, il meccanismo si capovolge. Temperature più alte accelerano la “respirazione” microbica: l’humus si ossida più in fretta e il carbonio accumulato torna in atmosfera come CO₂. Così un serbatoio di carbonio diventa una fonte di emissioni. Drenare torbiere, lasciare il terreno nudo, arare in profondità o interrompere i cicli della sostanza organica alimenta questo circuito vizioso: più caldo, più decomposizione, più emissioni, ancora più caldo.
La buona notizia è che la spirale può essere spezzata. Coperture vegetali, compost e ammendanti organici (materiali di origine biologica, come compost, letame maturo o humus di lombrico, che arricchiscono la sostanza organica e stimolano la vita microbica), lavorazioni minime e sistemi agroforestali aumentano la quota di carbonio che si stabilizza in humus invece di liberarsi rapidamente nell’aria. Non è un gesto simbolico: è una leva climatica concreta che rende i suoli più fertili e resilienti.
Le minacce ai suoli: chimica, monocolture, cemento e inquinamento
Siamo abituati a vedere il suolo come un semplice supporto, quasi un tappeto su cui appoggiare di tutto. Così pesticidi e fertilizzanti di sintesi usati senza misura colpiscono anche chi non è il loro bersaglio: funghi e batteri utili, microfaune che mantengono l’equilibrio, insetti impollinatori. Un eccesso di azoto facilmente disponibile scoraggia simbiosi preziose: perché una pianta dovrebbe collaborare con i batteri che fissano l’azoto se trova già nutrimento pronto in superficie? Nel frattempo il surplus viene dilavato, cioè sciolto e trascinato via dall’acqua piovana, inquina falde e fiumi e altera intere catene alimentari. È un danno che pesa sull’ambiente e sulla salute umana.
Le monocolture impoveriscono la dieta del suolo. Stesse radici, stessi essudati (le sostanze liquide che le radici rilasciano nel suolo), stessi funghi, stessi batteri: una comunità monotona, fragile agli stress e facile preda di patogeni specifici. Senza rotazioni, senza colture miste, senza coperture nei periodi morti, la materia organica cala e la struttura si sgretola, perde la sua tenuta naturale. Gli strati si compattano, i lombrichi scompaiono, l’erosione aumenta. Basta una pioggia intensa perché il campo diventi una colata d’acqua fangosa che trascina via la terra fertile.
Poi c’è il consumo di suolo: cemento, asfalto, capannoni che sigillano vivo ciò che dovrebbe respirare. Sotto una lastra il microbioma muore. Le città perdono spugnosità, l’acqua non si infiltra e le isole di calore si amplificano. A questo si aggiunge l’inquinamento diffuso: microplastiche che si accumulano nei profili del suolo (cioè i diversi strati che lo compongono), metalli pesanti, smog depositato, residui industriali. La biodiversità edafica (la varietà di organismi che vivono nel suolo) crolla. In parallelo, la deforestazione e i cambi di uso del suolo – la trasformazione di foreste, prati o campi in aree urbanizzate o colture intensive – sottraggono agli ecosistemi naturali la copertura che alimentava il suolo di lettiera – lo strato superficiale di foglie e rami in decomposizione che nutre e protegge il terreno – e l’umidità. Si interrompono cicli antichi, aumentando le emissioni e riducendo la capacità dei terreni di rigenerarsi.
Questa non è una minaccia remota: riguarda quello che mangiamo e il modo in cui viviamo ogni giorno. È il motivo per cui il cibo può diventare meno nutriente e più caro; per cui i campi cedono al primo nubifragio; per cui un giardino urbano ha bisogno d’acqua ogni due giorni, perché la terra non trattiene più nulla. Riconoscere i segnali – croste dure dopo la pioggia, assenza di insetti nel terriccio, odori anomali, ristagni che durano giorni, suoli che si sbriciolano in polvere fine – è il primo passo per cambiare rotta.
Politiche globali per la salute del suolo: dalla FAO al Green Deal europeo
La comunità internazionale ha iniziato a muoversi. Sono nate linee guida per la gestione sostenibile del suolo, codici di condotta per l’uso dei fertilizzanti, missioni europee che creano “living labs” per sperimentare la rigenerazione, programmi FAO e reti scientifiche che avanzano di anno in anno. Non sono slogan: dietro ci sono principi operativi come le 4R dei nutrienti – fonte giusta, dose giusta, momento giusto, posto giusto – il riciclo dell’organico in compost di qualità e la misurazione periodica della salute del suolo, proprio come si fa con la pressione arteriosa. Anche il Green Deal europeo lega sempre di più i contributi pubblici a risultati ambientali concreti: meno pesticidi, più biodiversità, rotazioni obbligatorie.
Ma le politiche, da sole, non bastano. Devono diventare azioni nei comuni e nelle aziende agricole, nelle scuole e nei parchi. Un’amministrazione può scegliere di non usare torba nelle aiuole pubbliche, di limitare diserbanti sulle strade, di adottare sfalci differenziati che lasciano fiori e rifugi per insetti; può promuovere compostaggio di comunità, mappare e rendere pubblico lo stato dei suoli del territorio, coinvolgere cittadini e classi in progetti di “scienza partecipata” che trasformano curiosità in dati. È così che una regola diventa cultura.
Rigenerare i suoli: soluzioni pratiche dal balcone ai campi agricoli
Rigenerare il suolo non richiede opere costose né grandi impianti. È una costellazione di gesti. Nei vasi e nei cortili urbani la sostanza organica è vita: compost maturo, pacciamature di foglie, sfalci, cippato di ramaglie che proteggono dall’insolazione e nutrono i decompositori. Niente torba: non serve, e la sua estrazione distrugge ecosistemi unici. Irrigare poco e spesso, al mattino presto o al tramonto, è un favore ai microrganismi. Alternare piante, mescolare fiori nettariferi con ortaggi, seminare leguminose nei tappeti erbosi, lasciare un angolo incolto o un piccolo legno morto: così un giardino diventa rete.
Negli orti comunitari e nelle aziende periurbane la grammatica è la stessa, solo su scala più ampia. Le colture di copertura (cover crops), seminate nei periodi in cui non cresce la coltura principale, mantengono vivo il suolo: le loro radici respirano con i microbi durante l’inverno e, in primavera, la biomassa torna al terreno come sovescio, cioè fertilizzante verde che arricchisce di sostanza organica.
Le lavorazioni minime rispettano la struttura del suolo: meno arature profonde, più cura per gli aggregati che tengono insieme le particelle; si entra in campo solo quando il terreno non è zuppo e si lascia che apparati radicali e lombrichi agiscano come aratri naturali. Le rotazioni e le consociazioni interrompono i cicli dei patogeni, diversificano gli essudati (le sostanze nutritive rilasciate dalle radici) e distribuiscono le radici a profondità diverse.
Gli inoculi microbici — come le micorrize (funghi che vivono in simbiosi con le radici), il Trichoderma e i rizobatteri selezionati — funzionano solo se trovano un terreno accogliente: senza sostanza organica e senza copertura vegetale, non attecchiscono.
Anche la difesa fitosanitaria può diventare biocontrollo integrato: siepi e fasce fiorite attirano predatori naturali (coccinelle, crisopidi, uccelli insettivori), nidi per uccelli e rifugi per pipistrelli limitano gli insetti nocivi, mentre funghi e batteri antagonisti contrastano i patogeni del suolo.
Questa transizione non significa per forza produrre di meno: spesso mantiene stabili le rese e, nel medio periodo, abbassa i costi. Servono meno trattamenti chimici, meno input esterni (cioè fertilizzanti e pesticidi acquistati) e cresce l’autonomia delle aziende agricole. Soprattutto, il sistema diventa più elastico: quando arrivano siccità o piogge estreme, un suolo vivo assorbe l’acqua, la trattiene e la restituisce gradualmente, proteggendo le colture.
Storie di rinascita: suoli rigenerati, innovazione scientifica e citizen science
Là dove si smette di arare in profondità, si coprono i terreni, si pascola in modo olistico, i numeri cambiano: la sostanza organica sale, la biomassa microbica raddoppia, gli insetti utili tornano. In alcuni progetti agricoli europei la densità di lombrichi è passata, in pochi anni, da quasi zero a decine per metro quadrato; le gallerie hanno reso il suolo soffice, la pioggia ha smesso di correre via in superficie. Laddove si è lavorato sul microbioma di colture sensibili, mantenendo elevata la diversità dei batteri “chiave” e la connettività della rete microbica della rizosfera, piante sotto stress idrico hanno continuato ad assorbire nutrienti e a crescere con sorprendente regolarità. Non sono miracoli: sono il risultato di una regia invisibile che abbiamo cominciato a riconoscere.
Anche la cittadinanza attiva fa la sua parte. Progetti di “scienza partecipata” invitano a seppellire nel terreno semplici pezzi di cotone e a osservarne la decomposizione dopo alcune settimane: dove il tessuto sparisce, il suolo è vivo; dove resta intatto, qualcosa non funziona. O a contare i lombrichi in giardini e parchi, mappando la salute del suolo di quartiere in quartiere. Iniziative così producono dati diffusi e, soprattutto, cambiano lo sguardo: quel che non si vede, finalmente, si immagina.
Tutto è connesso: il suolo madre che ci unisce
“Tutto è connesso” non è un vezzo poetico: è un principio fisico e biologico, quello che i francesi riassumono con tout se tient, tutto si tiene. Gli alberi dialogano con i funghi, le piante con gli insetti attraverso un invisibile “wi-fi” chimico. È una rete viva che esiste davvero, e che il film Avatar ha trasformato nella divinità planetaria Eywa: una potente metafora di ciò che qui accade sotto i nostri piedi. Il carbonio fluisce dall’aria al terreno e ritorna a seconda di come trattiamo campi, città e parchi. La nostra salute — immunitaria, metabolica, mentale — dipende da questo dialogo profondo: ciò che cresce in un suolo vivo ci nutre davvero; un paesaggio capace di far infiltrare l’acqua nel suolo e rinfrescare l’aria ci protegge dagli eventi estremi.
Per decenni ci siamo comportati da estranei. Abbiamo creduto di poter sostituire la biologia con la chimica, l’intelligenza delle reti biologiche con la potenza dei mezzi. Oggi sappiamo che non funziona così. Il suolo va curato come si cura un essere vivente: con attenzione, continuità, umiltà. Non servono eroi isolati: serve una comunità di custodi. Amministratori che smettono di asfaltare per abitudine, agricoltori che scelgono rotazioni e coperture, cittadini che trasformano balconi e cortili in micro-oasi, scuole che insegnano a osservare la terra al microscopio accanto alla poesia.
C’è un’immagine che ci piace lasciare in chiusura. Una mano che affonda in un’aiuola e solleva una manciata di terra. Profuma di bosco. Tra le dita si sbriciolano piccoli grumi di terra soffice, sottili filamenti bianchi di funghi, puntini scuri di humus. Qualche minuscolo insetto corre via, un lombrico si contorce e torna giù. In quella manciata non c’è solo un substrato: c’è la memoria del pianeta e la promessa del suo futuro. Curare il suolo è curare il futuro. La prossima volta che calpesterai un prato, fermati un istante e pensa: là sotto si stende una rete sotterranea antica e saggia, una trama vivente che ci sostiene anche quando non lo sappiamo. A noi spetta il compito più semplice e più difficile: non spezzare quei fili e, quando li troviamo consumati, ricucirli. Insieme.
Fonti essenziali:
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Hartmann, M. & Six, J. (2023). Soil structure and microbiome functions in agroecosystems. Nature Reviews Earth & Environment, 4, 4-18. [funzioni microbiome del suolo nei sistemi agricoli e struttura del suolo] Nature
Sokol, N. W. et al. (2022). Life and death in the soil microbiome: how ecological interactions drive biogeochemical cycling. Nature Reviews Microbiology, 20, 77-90. [cicli biologici e ruolo di microbi vivi e morti nel suolo] Nature
Jansson, J. K. & Hofmockel, K. S. (2020). Soil microbiomes and climate change. Nature Reviews Microbiology, 18, 35-42. [impatto del cambiamento climatico sul microbioma e servizi ecosistemici] Nature
Simard, S. W. et al. (1997). Net transfer of carbon between ectomycorrhizal tree species in the field. Nature, 388, 579-582. [concetto di “Wood Wide Web” e trasferimento di carbonio fra piante tramite funghi] Nature
Roslund, M. I. et al. (2024). Scoping review on soil microbiome and gut health: Are soil microorganisms relevant to the human gut microbiome? Pan-African Journal of Life Sciences (o rivista equivalente). [legame potenziale tra microbioma del suolo e microbioma intestinale umano] BES Journals
Jansson, J. K. et al. (2023). Soil microbiome engineering for sustainability in a changing environment. Nature Biotechnology (o rivista simile). [strategie di “ingegneria del microbioma del suolo” per rigenerazione ambientale] PubMed

