In concomitanza con i ballottaggi per le amministrative, domenica 8 e lunedì 9 giugno si è votato anche per il referendum abrogativo su cinque quesiti, quattro dei quali in materia di lavoro e uno sulla cittadinanza. Si trattava di una consultazione molto attesa, promossa da sindacati e associazioni per contrastare le attuali norme sui licenziamenti, i contratti a termine e per ridurre da dieci a cinque gli anni richiesti agli stranieri per ottenere la cittadinanza italiana.
Nonostante l’intensificarsi della mobilitazione negli ultimi giorni, il quorum non è stato raggiunto. L’affluenza si è fermata poco sopra il 30%, rendendo il referendum giuridicamente invalido. La partecipazione è risultata molto variabile sul territorio nazionale: la Toscana ha fatto registrare la percentuale più alta, mentre il Trentino-Alto Adige è rimasto fanalino di coda. Non irrilevante il fatto che la giornata di lunedì, lavorativa, abbia fatto registrare un picco di votanti.
Tra le persone che si sono recate alle urne, la maggioranza ha votato Sì: circa l’80% sui temi del lavoro e il 60% sulla cittadinanza. Un dato politicamente rilevante, anche se privo di effetti giuridici.
A caldo, dal fronte promotore si respira delusione. L’eurodeputata del PD Pina Picierno parla di «una sconfitta profonda, seria, evitabile. Un regalo enorme a Giorgia Meloni e alle destre». Riccardo Magi (+Europa) invita comunque a non parlare di sconfitta: «La vittoria dell’astensionismo è un dato, ma non ci cancella». Anche il segretario generale della CGIL, Maurizio Landini, ha riconosciuto il mancato obiettivo: «Oggi non è una giornata di vittoria. Ma oltre 14 milioni di persone hanno votato: un numero importante, un punto di partenza. Non abbiamo nessuna intenzione di cambiare la nostra strategia».
Sul fronte opposto, l’interpretazione prevalente è quella di una bocciatura politica. Il senatore di Fratelli d’Italia Michele Barcaiuolo commenta: «Il dato che emerge dal quesito sulla cittadinanza è politicamente impietoso e certifica il fallimento totale della proposta della sinistra». Anche Matteo Salvini rilancia: «La cittadinanza non è un regalo: servono regole più chiare e severe per essere cittadini italiani, non basta qualche anno in più di residenza». Il ministro Pichetto Fratin ribadisce il concetto, dichiarando che anche «il non voto è stata una scelta di voto».
Una lettura che non tiene conto del fatto che l’astensione può avere motivazioni molteplici: disinformazione, scetticismo, boicottaggio, difficoltà logistiche o mancanza di fiducia nel sistema. Attribuire al non voto una valenza univoca, soprattutto in un contesto in cui alcune forze politiche avevano esplicitamente invitato a non votare, rischia di trasformare un gesto di ritiro o indifferenza in un plebiscito implicito, operazione quanto meno discutibile.
Il sottosegretario Giovan Battista Fazzolari (FdI) ha affermato che «le opposizioni hanno voluto trasformare i cinque referendum in un referendum sul governo Meloni. Il responso è molto chiaro: il governo ne esce rafforzato, la sinistra indebolita». Di tutt’altro parere chi, come l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, sottolinea come i temi portati al voto siano ancora vivi nel dibattito sociale e parlamentare.
Anche dal cosiddetto “centro” arrivano frecciate: Matteo Renzi (Italia Viva) ha definito i quesiti «ideologici e rivolti al passato», ribadendo che «per costruire un centrosinistra vincente bisogna parlare di futuro».
Intanto, sui social e in alcuni contesti civici, si è riaperto un dibattito più ampio: quello sull’utilizzo strumentale dell’astensione, sulla validità del quorum in un sistema a crescente disaffezione elettorale, e sul ruolo dell’informazione pubblica nel garantire una partecipazione consapevole.
Il referendum non ha prodotto un cambiamento normativo, ma ha riaperto questioni politiche e culturali profonde. Ed è proprio in quella fessura, tra sfiducia e bisogno di rappresentanza, che il dibattito ora si sposta, dalle urne alle istituzioni.

