«Perché devo stare attenta io a cosa mangio? Devono stare attenti loro a cosa producono!» La domanda è provocatoria ma legittima: se sappiamo con certezza scientifica che molti alimenti ultraprocessati fanno male al corpo e alla mente, perché continuiamo a permetterne la libera vendita?
Immaginate uno scenario surreale: un prodotto noto per aumentare il rischio di cancro e malattie cardiache campeggia sugli scaffali del supermercato accanto al pane e al latte, pubblicizzato con mascotte colorate ai bambini. Sembra follia, eppure è la nostra realtà quotidiana. Il cibo spazzatura è ovunque – legale, liberamente acquistabile, spesso economico – nonostante sia ormai chiaro che si tratta di “veleno” per il nostro organismo.
Dati alla mano: junk food come le sigarette?
Le evidenze scientifiche sono schiaccianti. Studi su centinaia di migliaia di persone mostrano correlazioni inquietanti: ogni aumento del 10% nel consumo di alimenti ultraprocessati comporta un incremento misurabile del rischio di gravi malattie. In particolare, si registra una crescita del 2% nell’incidenza complessiva di tumori (con picchi specifici, come +19% di rischio per il cancro ovarico) e addirittura un aumento del 6% della mortalità oncologica per ogni 10% di dieta “da fast food”. Un ampio studio europeo (EPIC) ha rilevato, ad esempio, un’associazione tra +10% di cibi ultraprocessati e un rischio maggiore del 23% di tumori a bocca, gola e laringe e del 24% di tumore all’esofago.
Come se non bastasse, un consumo elevato di questi prodotti è legato a obesità, disturbi metabolici e perfino a un’accelerazione dell’invecchiamento biologico dell’organismo. In parole povere, chi mangia abitualmente “cibo spazzatura” rischia di diventare biologicamente più vecchio della propria età anagrafica. Il confronto con il tabacco a questo punto è inevitabile. Anche le sigarette un tempo erano vendute ovunque e reclamizzate come glamour, finché la scienza non ha dimostrato in modo inoppugnabile i danni del fumo.
A quel punto abbiamo introdotto divieti e avvertenze, relegando il pacchetto di bionde da status symbol a prodotto da acquistare di nascosto con foto shock sopra. Con il cibo spazzatura stiamo ripetendo lo stesso copione, ma al rallentatore. La montagna di prove sui danni di snack e bibite ultraprocessati viene ancora accolta con pericolosa inerzia normativa. Sappiamo che un bimbo bombardato di spot di merendine può diventare un adulto malato – eppure quei prodotti restano legali, liberamente pubblicizzati, addirittura inseriti nei menu per l’infanzia.
Dove sono i nostri warning in stile “nuoce gravemente alla salute”? Viene da chiedersi: cosa aspettiamo, una causa legale collettiva contro le patatine fritte?
Il costo dell’inazione: profitti privati, spesa pubblica
Oltre ai costi umani in termini di salute, c’è un gigantesco paradosso economico-sociale in questa storia. Da un lato, il cibo spazzatura fa male e ci ammaliamo; dall’altro, chi lo produce si arricchisce. Il risultato? La collettività paga, l’industria incassa. I numeri parlano chiaro. In Italia la cattiva alimentazione genera costi sanitari per circa 13 miliardi di euro all’anno, pari grosso modo al 9% dell’intera spesa sanitaria nazionale, ovvero una “tassa occulta” di 289 euro annui a carico di ogni cittadino. Sono risorse enormi drenate dal Sistema Sanitario Nazionale per curare patologie (diabete, cardiopatie, cancro) che una migliore alimentazione renderebbe in gran parte evitabili.
A livello globale il quadro è ancora più impressionante: si stima che i costi nascosti del sistema agroalimentare industriale ammontino a 12.000 miliardi di dollari l’anno, di cui circa 8.100 miliardi direttamente legati alle malattie da cattiva alimentazione. In altre parole, l’epidemia planetaria di obesità, diabete &Co. costa ogni anno quanto il PIL di una superpotenza, tra spese mediche e perdita di produttività. E mentre la società paga questi conti salatissimi – ospedali affollati, famiglie distrutte dalle malattie croniche – i profitti restano privati nelle tasche delle multinazionali. Basti sapere che, negli ultimi due anni, le 20 maggiori aziende agroalimentari del mondo (da Nestlé a Coca-Cola, da PepsiCo a Unilever) hanno distribuito ai loro azionisti oltre 53 miliardi di dollari in dividendi. Parliamo di colossi che controllano gran parte di ciò che troviamo sugli scaffali globali, per un mercato alimentare ultraprocessato valutato in oltre 300 miliardi di dollari l’anno. È un meccanismo perverso: il junk food riempie le casse di Big Food, mentre i sistemi sanitari collassano sotto il peso delle malattie che provoca.
«Profitti privati, perdite pubbliche»: è la sintesi perfetta. Le aziende accumulano utili record vendendo cibi “spazzatura”, e intanto la collettività paga in moneta sonante (oltre a perdere in salute e anni di vita). Un esempio su tutti: quattro giganti come Nestlé, Coca-Cola, Pepsi e Unilever dominano un mercato globale da centinaia di miliardi di dollari, mentre solo in Italia spendiamo 13 miliardi l’anno per i danni della cattiva alimentazione. È come se stessimo sovvenzionando con il nostro Servizio Sanitario le pessime abitudini alimentari indotte dal marketing. Vi sembra sensato?
L’arsenale delle lobby: se il cibo spazzatura “manipola” la scienza
Viene spontaneo chiedersi: ma se la situazione è così grave, perché i governi non intervengono in modo deciso? La risposta si può riassumere in una parola: lobby. La resistenza a regolamentare il junk food non è affatto frutto del caso o della svogliatezza dei politici; è il risultato di strategie sistematiche messe in atto dalle multinazionali alimentari per difendere il proprio business. Siamo di fronte a un vero arsenale di influenza, affinato in decenni di pratica (spesso mutuata pari pari dalle tattiche delle lobby del tabacco). Un’inchiesta pubblicata su Globalization and Health ha rivelato che le grandi aziende del settore hanno “plasmato” la ricerca scientifica a loro vantaggio, creando organizzazioni apparentemente indipendenti ma finanziate dall’industria per orientare il dibattito.
Caso emblematico: l’International Life Sciences Institute (ILSI), presentato come ente scientifico imparziale, in realtà sovvenzionato da colossi come Coca-Cola, Nestlé, McDonald’s, Monsanto e Pepsi. Questa struttura è servita (e serve tuttora) a manipolare l’evidenza scientifica sugli effetti del cibo spazzatura, producendo studi “tiepidi” sui danni dello zucchero o dei grassi trans e promuovendo linee guida sui conflitti di interesse tagliate su misura per l’industria. In pratica, mentre gli scienziati indipendenti documentavano l’associazione tra bibite zuccherate e obesità, l’ILSI (con Coca-Cola a fare da regista fuori campo) pubblicava paper per minimizzare il ruolo dell’alimentazione nella salute e spostare l’attenzione solo sullo stile di vita (“basta fare jogging per smaltire la cola”, suona familiare?). Le tattiche adottate da Big Food per evitare regolamentazioni sgradite spaziano dalla pressione politica diretta (lobbying sui decisori, minaccia di cause legali o perdite di posti di lavoro) alla disinformazione virale sui social media, fino alle campagne di screditamento verso ricercatori e attivisti che osano criticare i loro prodotti.
Ogni studio che collega un prodotto ultraprocessato a un danno per la salute viene puntualmente contestato, minimizzato o derubricato ad “allarmismo” da eserciti di portavoce e consulenti ben pagati. E se un Paese prova a introdurre misure forti – tassazioni, divieti pubblicitari, etichette a semaforo – ecco partire i contrattacchi: pubblicità ingannevoli, pressioni dietro le quinte, raccolte di firme di organizzazioni di facciata. Il caso Nutri-Score è illuminante. Questo sistema di etichettatura nutrizionale a semaforo, semplice ed efficace nel guidare i consumatori verso scelte più sane, è stato osteggiato ferocemente dalle lobby dell’agroindustria alimentare. Nonostante oltre 150 studi ne abbiano dimostrato l’utilità nel ridurre gli acquisti di cibo spazzatura, i produttori di merendine & affini hanno gridato allo scandalo, parlando di “demonizzazione” del Made in Italy e facendo pressioni a Bruxelles perché tutto fosse insabbiato.
E infatti l’adozione di un’etichetta uniforme UE è in stallo da anni. Chi ha paura del semaforo? Ovviamente chi ha troppo rosso nelle proprie liste ingredienti, cioè chi produce cibo spazzatura. Costoro hanno organizzato i “contras”, per dirla con le parole di un osservatore — il riferimento è ironico, ma il meccanismo è simile: come i guerriglieri anti-sandinisti (milizie anti-socialiste finanziate dagli USA negli anni ’80 per destabilizzare il Nicaragua), anche qui ci sono gruppi ben strutturati che si mobilitano per sabotare ogni tentativo di riforma. Solo che invece delle armi, usano spot, pressioni politiche e campagne stampa, in uno stile degno delle dittature: aggressioni mediatiche contro il Nutri-Score, disinformazione sui suoi effetti (“semaforo rosso sull’olio d’oliva! falso!”), e persino l’arruolamento di politici compiacenti pronti a difendere il “diritto al junk food”.
La verità amara è che, finora, la salute pubblica ha perso quasi tutti questi bracci di ferro: le normative restano deboli, annacquate o rinviate sine die.
Ma — come vedremo — qualcosa si muove, in alcune parti del mondo.

I pionieri del cambiamento: Paesi che alzano la barriera
Fortunatamente, non ovunque si china il capo di fronte a Big Food. Alcuni Paesi, spesso spinti da emergenze sanitarie fuori controllo, hanno deciso di prendere il toro per le corna e dichiarare guerra aperta al cibo spazzatura. Il caso più avanzato è probabilmente quello del Cile, diventato in pochi anni un laboratorio mondiale di politiche alimentari radicali. Qui, già nel 2016, è entrata in vigore una legge pionieristica che ha imposto bollini neri ottagonali ben visibili su tutti i prodotti confezionati ad alto contenuto di zuccheri, grassi o sale. Avete presente quei cereali coloratissimi per bambini? Ecco, in Cile le confezioni hanno sticker neri con scritto “Alto en calorías / azúcares / sodio”, a indicare chiaramente che quel prodotto è nutrizionalmente sbagliato.
Non solo: il Cile ha vietato qualsiasi pubblicità di cibo spazzatura rivolta ai minori di 14 anni e bandito la vendita di junk food nelle scuole (addio distributori di merendine e bibite gassate agli intervalli). I risultati sono stati straordinari. Nel giro di pochi anni, l’esposizione dei bambini cileni alle pubblicità di alimenti spazzatura è crollata del 73%. Avete letto bene: meno tre quarti di spot dannosi in meno. Le aziende, pur di evitare l’infamante bollino nero sulle confezioni, hanno iniziato a riformulare i prodotti, riducendo zucchero e sale. Studi indipendenti hanno certificato un calo del 24% nelle calorie acquistate e del 37% nel sodio, segno che le famiglie cilene stanno veramente cambiando abitudini. Colpisce un aneddoto: nei focus group, molti bambini raccontavano di aver convinto i genitori a non comprare i prodotti con il bollino nero. Pensate un attimo: la generazione cresciuta dopo l’introduzione delle norme è già più consapevole di quella dei loro genitori! Un bel cambio del paradigma, no?
Il Cile insomma dimostra che se c’è la volontà politica, è possibile far calare drasticamente il bombardamento pubblicitario e perfino cambiare la mentalità delle persone riguardo al cibo. Sull’onda del modello cileno si sono mossi altri paesi dell’America Latina, area duramente colpita dall’epidemia di obesità infantile. In Messico, ad esempio, dal 2020 diversi Stati federali hanno adottato misure “choc”: vietata la vendita di cibo spazzatura ai minori, con tanto di sanzioni per gli esercenti che vendono snack e bevande zuccherate ai bambini. Nello Stato di Oaxaca la legge equipara bibite gassate e junk food a sigarette e alcolici: non puoi vendere Coca-Cola a un dodicenne, punto.
Contestualmente, il Messico ha eliminato schifezze varie dalle scuole (pensate: distribuivano bibite zuccherate a colazione nelle zone povere!) e ha introdotto avvisi sanitari simili a quelli cileni sulle confezioni. Il motivo di tanta determinazione? Il 73% dei messicani è in sovrappeso od obeso, un tasso spaventoso. Dopo aver provato con una sugar tax (introdotta nel 2014, ha ridotto i consumi di bevande dolci del ~7,5%), si è capito che serviva fare di più. La legge di Oaxaca è la prima del genere al mondo, e sta facendo scuola: altri stati messicani l’hanno seguita, nel plauso dell’UNICEF che l’ha definita “una svolta necessaria per il bene dei messicani di domani”. Anche in Europa qualcosa si muove, seppur con maggiore gradualità. Il Regno Unito è spesso citato come esempio di approccio pragmatico: niente bollini neri o divieti totali, ma una serie di politiche mirate. Londra ha introdotto nel 2018 una tassa sulle bevande zuccherate (Sugar Tax) modulata sul contenuto in zucchero, che ha spinto molte aziende a riformulare le bibite (un bel vantaggio: vendi lo stesso, ma con meno zucchero). Ebbene, negli anni successivi la UK Sugar Tax ha dato frutti tangibili: nei tre anni post-introduzione la quantità di zucchero consumata dai bambini tramite le bibite si è dimezzata, e tra gli adulti si è ridotta di circa un terzo. Non male davvero – parliamo di migliaia di tonnellate di zucchero in meno nel ventre dei sudditi di Sua Maestà.
Inoltre, la Gran Bretagna ha deciso di stringere sulla pubblicità: dal 2025 scatterà il divieto di spot di junk food in TV prima delle 21 (la cosiddetta fascia protetta allargata) e restrizioni analoghe online. Già dal 2022, per dire, nel Regno Unito sono bandite le promozioni “prendi 3 paghi 2” su cibi e bevande malsani, per ridurre l’over-marketing di queste voci nei supermercati. Insomma, un insieme di misure non draconiane ma costanti, che hanno portato – dati alla mano – a un consumo di zuccheri molto inferiore: i bambini inglesi assumono oggi circa il 50% di zuccheri in meno dalle bevande rispetto a prima della Sugar Tax. E l’obesità infantile in UK ha registrato una piccola ma significativa flessione.
L’Europa e il ritardo (colpevole) dell’Italia
Lo scenario europeo però è a macchia di leopardo. Solo una minoranza di Paesi UE ha adottato misure fiscali o normative forti contro il junk food. Secondo un rapporto dell’OMS Europa, appena il 19% dei Paesi della regione ha introdotto una qualche forma di sugar tax, nello specifico 10 Stati su 53 (tra cui Belgio, Finlandia, Francia, Ungheria, Irlanda, Lettonia, Norvegia, Portogallo e la già citata Gran Bretagna). Altri, come la Spagna, hanno normative regionali. Ma la maggioranza è ancora ferma al palo, spesso frenata dalle pressioni dell’industria e da una certa sudditanza culturale al “libero mercato” anche quando la salute pubblica ne fa le spese.
L’Italia purtroppo è fanalino di coda. E dire che sulla carta saremmo avvantaggiati – patria della dieta mediterranea, tassi di consumo di cibo spazzatura finora inferiori a quelli anglosassoni. Invece, quando si tratta di regolamentare, restiamo drammaticamente indietro. La Sugar Tax italiana è diventata una sorta di barzelletta: prevista inizialmente nel 2019, è stata rinviata per ben otto volte a furia di decreti milleproroghe e pressioni di lobby varie. L’ultima notizia è che dovrebbe partire (il condizionale è d’obbligo) il 1º gennaio 2026, dopo l’ennesimo rinvio deciso nel 2024. Praticamente abbiamo preso la tassa e l’abbiamo chiusa nel cassetto, con buona pace delle ottime intenzioni. Nel frattempo, l’industria dolciaria e delle bevande ha fatto i salti di gioia: ogni anno di ritardo significa centinaia di milioni di fatturato in più non toccato da imposte, e status quo preservato.
Il Ministro di turno annuncia “ci stiamo pensando”, e poi puntualmente arriva la proroga “per non penalizzare il settore in un momento delicato” (li abbiamo sentiti tutti i violini, vero?). Ancora più scoraggiante, giace in Parlamento una proposta di legge per vietare la pubblicità di cibi ultraprocessati rivolta ai bambini (AC 2089), presentata nell’ottobre 2024 dall’on. Luana Zanella. Questa legge – sulla carta rivoluzionaria per il nostro Paese – chiede di replicare le raccomandazioni OMS: basta spot di merendine & snack nelle fasce orarie per l’infanzia, basta personaggini dei cartoni sulle confezioni, ecc. Ebbene, la proposta è stata assegnata in Commissione Affari Sociali… dove però rischia di restare impantanata sine die. Non c’è, al momento, alcuna spinta concreta dalla maggioranza di governo per portarla in aula. Evidentemente, al di là delle dichiarazioni di rito sull’obesità infantile, toccare i tasti del marketing alimentare fa tremare molte mani.
L’Italia insomma rimanda: rimanda le tasse sullo zucchero, rimanda i divieti di pubblicità, rimanda tutto. Ma più rimandiamo, più ingrassiamo (in tutti i sensi).
Ed è proprio tra i bambini che l’effetto domino si fa più evidente. In molte regioni del Sud Italia, l’obesità infantile ha superato da tempo i livelli di guardia: in Campania, oltre il 40% dei bambini è in sovrappeso o obeso. Non perché mangino troppo, ma perché mangiano male. E spesso, male è tutto ciò che c’è a disposizione.
Per molte famiglie in difficoltà, il cibo ultraprocessato non è una scelta. È l’unica cosa accessibile: costa poco, si conserva a lungo, sazia subito. È ovunque, pronto da scartare e consumare. In un mondo che corre, è la soluzione più facile. E anche quella più pubblicizzata.
Ma non si tratta solo di costi. Dentro una pizzetta da banco o una merendina colorata non ci sono solo zuccheri, grassi e additivi. Ci sono anche sostanze come il glutammato monosodico, che stimolano artificialmente il gusto – il famoso “umami” – e attivano i centri del piacere nel cervello. Creano assuefazione, condizionano il palato, spingono a desiderare di nuovo quel sapore finto e intenso. Anche quando il cibo è mediocre. Anche quando fa male.
È questo il cuore della cosiddetta povertà metabolica: quando l’unico cibo che puoi permetterti ti fa ammalare. Un circolo vizioso che inizia presto, si consolida nell’abitudine e ti toglie la forza – e le risorse – per cambiarlo. Più mangi male, più stai male. Più stai male, più spendi in cure, visite, farmaci. E più crescono le spese obbligate, meno margine ti resta per fare scelte diverse, più sane. Alla fine, diventa una trappola. Che si autoalimenta.
Oggi abbiamo il triste primato europeo di obesità infantile, con circa il 40% dei bambini in eccesso ponderale. Cosa aspettiamo ancora? Che i nostri bambini abbiano il record europeo di obesità e si portino dietro complicazioni per tutta la vita?
Strumenti per rivoluzionare il paradigma: cosa si può (e si deve) fare
A questo punto, è chiaro che per invertire la rotta serve un cambio di paradigma coraggioso e sistemico. Non basteranno le mezze misure o gli appelli alla moderazione individuale (“mangia la merendina ma fai sport”). La crisi è sistemica e tali devono essere le soluzioni. Gli esperti di salute pubblica hanno una cassetta degli attrezzi ben fornita di proposte, che vanno implementate insieme per massimizzare l’impatto.
Cambiare rotta si può. Ma servono scelte nette, non giri di parole.
Primo: vietare la pubblicità di cibo spazzatura ai minori. Basta mascotte, spot colorati, youtuber che sbocconcellano merendine con il codice sconto. Chi ha meno di 14 anni deve essere fuori dalla mira del marketing. E mentre ci siamo: etichettatura chiara, leggibile a colpo d’occhio. Niente più illusioni grafiche: bollino nero se fa male, punto. O semafori ben visibili, come il Nutri-Score. L’OMS lo dice chiaro: chiedere “gentilmente” all’industria di moderarsi non ha funzionato. Servono regole vere. E multe quando non le rispettano.
Poi c’è la questione soldi. Sugar tax, ovviamente. Ma fatta bene. Anche su merendine, snack, barrette. Non per fare cassa, ma per fare pressione. Perché quando li tocchi nel portafoglio, magicamente iniziano a togliere lo zucchero. E in parallelo, incentivi per il cibo sano: frutta e verdura senza IVA, sconti su prodotti integrali, agevolazioni per chi coltiva e cucina bene. Funziona? La Danimarca ha puntato su mense scolastiche sane, ingredienti biologici e prodotti freschi. Il risultato? Bambini più consapevoli, meno junk food e un impatto positivo sulla salute collettiva. Secondo una stima della Commissione Europea, ogni euro investito in prevenzione fa risparmiare fino a 14 euro in spese sanitarie – e secondo alcuni studi, il dato potrebbe addirittura raddoppiare. Non è un costo. È un affare.
Anche i luoghi contano. Scuole e ospedali dovrebbero essere territori liberi da junk food. Nessuna bibita gassata al distributore, nessuno snack ultraprocessato nella mensa. È assurdo parlare di salute e intanto vendere porcherie in corsia o nell’intervallo.
E poi serve cultura. Educazione alimentare vera, dalle elementari in su. Etichette, ingredienti, stagionalità. Non lavagnette con la piramide alimentare incollata sopra. Serve consapevolezza. Anche per gli adulti: medici, pediatri, genitori. Perché chi conosce, sceglie meglio. E magari si arrabbia sul serio.
Infine, bisogna agire alla radice del problema. Regole serie su porzioni (basta bibite “standard” da mezzo litro: si torna ai 250 ml), additivi, zuccheri, grassi. Se un prodotto contiene il 15% di zucchero e aromi artificiali, non puoi chiamarlo “yogurt”. È un dessert. E va etichettato come tale.
Insomma, meno fuffa, più coraggio. Le soluzioni ci sono. Il punto è: chi ha voglia di metterle in pratica davvero?Insomma, la ricetta c’è ed è anche piuttosto chiara. Non parliamo di bandire il cioccolato o tassare il Parmigiano (come certa propaganda prova a far credere agitando spauracchi): si tratta di colpire duramente solo quegli alimenti industriali che sappiamo essere deleteri, e nel contempo rendere più facile ed economico per i cittadini scegliere opzioni sane. Il tutto mettendo la salute pubblica al centro, anche a costo di scontentare qualche consiglio di amministrazione.
A volte i dati non bastano. Servono le storie. Quelle vere. Che hanno un volto, una voce, una quotidianità qualunque.
Chiara ha 32 anni, due figli piccoli e un lavoro a tempo pieno. Ogni giorno è una corsa: al mattino, al pomeriggio, alla sera. Preparare da mangiare è una delle mille cose da fare. E spesso, la più sacrificata.
“A pranzo prendevo una pizzetta o una focaccia ripiena. Per i bambini, un panino confezionato, qualche patatina, una merendina. A tavola, sempre: Coca-Cola. Almeno due bottiglie al giorno, una a pranzo e una a cena. A volte di più.”
La cena era ancora più rapida: pasta al burro, bastoncini di pesce, crocchette surgelate. Roba che si scalda in pochi minuti. Roba che “piace ai bambini”. E soprattutto: roba che non richiede energie.
“Così erano tranquilli, mangiavano in fretta. E io potevo sedermi cinque minuti. Respirare.”
A 36 anni, Chiara riceve tre diagnosi: diabete di tipo 2, colesterolo alto, obesità viscerale. E un’etichetta che fa più male di tutte: colpevole. Colpevole di aver mangiato male. Colpevole di non aver cucinato. Colpevole di non aver scelto meglio.
“Mi dicevano che era tutta colpa mia. Che non avevo forza di volontà. Ma nessuno mi aveva mai spiegato che quello… non era davvero cibo. Era un inganno.”
Oggi Chiara sta meglio. Ha cambiato stile di vita. Ma quando racconta la sua storia, non parla solo di sé. Parla di un meccanismo che si mimetizza nella normalità. Di una routine tossica travestita da semplicità.
“Mi hanno rubato la salute travestendosi da amici dei miei figli. Nessuno dovrebbe sentirsi in colpa… per essere stato ingannato così bene.”
Verso un cambio globale di rotta: possiamo permetterci di non agire?
Che succede se adottiamo queste misure? Succede che ribaltiamo il paradigma: finalmente il peso della prevenzione si sposta dalle singole persone al sistema produttivo. «Perché devo stare attenta io a cosa mangio? Devono stare attenti loro a cosa producono!» – dicevamo all’inizio. Ecco, regolamentando e incentivando come sopra, costringiamo loro (le aziende) a migliorare l’offerta, invece di lasciare tutto sulle spalle dei consumatori. Si chiama politica sanitaria, ed è l’unica strada per uscire dal nonsense attuale.
È evidente che il cambiamento non solo è possibile, ma è necessario e non rinviabile. Lo ha affermato con forza anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità: nelle nuove linee guida sul marketing alimentare ai bambini (2023), l’OMS invita i governi a “stabilire normative più decise ed esaurienti, perché gli appelli alla responsabilità finora non hanno prodotto risultati”. Tradotto: non basta sperare nella buona volontà dell’industria, serve l’azione pubblica.
Dello stesso tenore è l’allarme lanciato dalle Nazioni Unite, che hanno recentemente incluso il junk food tra i quattro grandi fattori industriali (assieme a tabacco, alcol e combustibili fossili) responsabili di 2,7 milioni di morti premature ogni anno solo in Europa. Sì, avete letto bene: secondo l’ONU, il cibo ultraprocessato è oggi uno dei big killers del nostro tempo.
Anche sul piano economico non ci sono più scuse. Ogni euro investito in prevenzione fa risparmiare 14 euro in costi sanitari: lo afferma un’analisi del think tank Ambrosetti per la Commissione Europea, confermata anche da funzionari della stessa UE come Sandra Gallina, direttrice generale della DG SANTE. In Italia, un report dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari (ALTEMS) ha stimato che, semplicemente riducendo i principali fattori di rischio (dieta scorretta, fumo, alcol, sedentarietà), il Servizio Sanitario Nazionale potrebbe risparmiare oltre 1 miliardo di euro all’anno, senza contare l’aumento di produttività e benessere sociale.
Quindi no, non è vero che “non possiamo permetterci” certe misure. Al contrario: non possiamo permetterci di non prenderle. Ogni anno di inattività pesa in termini di vite, costi sanitari e ingiustizie sociali.
Il tempo delle mezze misure è finito. Lasciar circolare liberamente prodotti dannosi, sperando che le persone “usino moderazione”, è una strategia fallimentare. La legalità del cibo spazzatura non è scritta nel destino: è frutto di scelte politiche. E quelle scelte si possono – e si devono – cambiare.
Cile, Messico, Regno Unito ci dimostrano che ribaltare il paradigma è possibile e produce benefici tangibili. Occorrono coraggio da parte dei governi, consapevolezza da parte dei cittadini, e una solida resistenza alle sirene delle lobby.
La domanda da porci non è più “possiamo permetterci di regolare il junk food?”, ma: possiamo permetterci di continuare a non farlo?
Solo così, un giorno, i nostri figli guarderanno gli scaffali pieni di merendine ultraprocessate con lo stesso sconcerto con cui oggi noi guardiamo le pubblicità vintage in cui i medici consigliavano le sigarette.
Il momento di agire è ora. Continuare così ha un prezzo altissimo. E lo stiamo pagando tutti.
Fonti AIRC – Fondazione per la Ricerca sul Cancro. Cibi ultra processati e rischio cancro. [https://www.airc.it/news/cibi-ultra-processati-e-rischio-cancro] [Rischi oncologici legati al consumo di alimenti ultraprocessati: +2% tumori generali, +19% ovarici] AOGOI – Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani. Consumare cibi ultra processati aumenta il rischio di cancro. [https://www.aogoi.it/notiziario/cibi-processati/] [Conferma dei dati sull’aumento del rischio tumore da junk food] Neuromed – Istituto Neurologico Mediterraneo. Cibi ultraprocessati e invecchiamento biologico. [https://www.neuromed.it/ricerca-un-elevato-consumo-di-cibi-ultra-processati-accelera-linvecchiamento-biologico/] [Accelerazione dell’invecchiamento biologico con consumo di junk food] Corriere della Sera. Alimentazione: mangiar male costa 289 euro a italiano l’anno. [https://www.corriere.it/economia/consumi/24_luglio_10/alimentazione-mangiar-male-costa-a-ogni-italiano-289-euro-l-anno-ecco-perche-d7ba687d-285c-4b7d-91b9-2fe6f062fxlk.shtml] [Costo sanitario della cattiva alimentazione in Italia: 13 miliardi l’anno] Demeter Italia. I costi nascosti del sistema agroalimentare industriale. [https://www.demeter.it/archivio-generale-demeter/news/costi-nascosti-degli-alimenti/] [Stima globale: 12.000 miliardi di dollari in costi indiretti dell’attuale sistema agroalimentare] Fortune Italia. Alimentazione sbagliata, un costo da 13 miliardi l’anno in Italia. [https://www.fortuneita.com/2023/05/06/alimentazione-sbagliata-un-costo-da-13-mld-lanno-in-italia/] [Conferma dei dati sul peso economico della malnutrizione] Greenpeace Italia. Guerre, fame e profitti: chi ci guadagna dalla crisi alimentare. [https://www.greenpeace.org/italy/storia/17090/guerre-fame-e-profitti-chi-ci-guadagna-dalla-crisi-alimentare/] [Profitti privati delle multinazionali agroalimentari in contesto di crisi globale] Il Salvagente. Lo studio che racconta come la lobby dell’industria alimentare condiziona la ricerca scientifica. [https://ilsalvagente.it/2021/04/23/119219/] [Influenza delle lobby sul dibattito scientifico attraverso l’ILSI] Il Fatto Alimentare. Cile: crolla esposizione dei bambini alla pubblicità junk food [https://ilfattoalimentare.it/cile-crolla-esposizione-bambini-pubblicita-junk-food.html] Messico: vietata la vendita di junk food ai minori [https://ilfattoalimentare.it/messico-vieta-vendita-junk-food-minori.html] [Esempi di misure efficaci contro il cibo spazzatura in America Latina] Mario Negri – Istituto di Ricerche Farmacologiche. Sugar Tax: cos’è, come funziona, perché serve. [https://www.marionegri.it/magazine/sugar-tax-cose-a-cosa-serve-come-funziona-in-italia] [Sugar tax come strumento di prevenzione sanitaria] Dissapore. La Sugar Tax ha dimezzato il consumo di zuccheri tra i bambini nel Regno Unito. [https://www.dissapore.com/notizie/la-sugar-tax-e-servita-a-dimezzare-il-consumo-di-zuccheri-per-i-bambini-e-noi-cosa-aspettiamo/] [Dati di efficacia delle politiche fiscali nel Regno Unito] Vanity Fair Italia. In Inghilterra la Sugar Tax ha dimezzato il consumo di zuccheri tra i bambini. [https://www.vanityfair.it/article/sugar-tax-italia-perche-e-importante] [Risultati della tassa sulle bibite in UK e ritardi italiani] OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità. Nuove linee guida: stop alla pubblicità junk food rivolta ai minori. [https://blogs.funiber.it/salute-e-nutrizione/2023/08/10/nuove-linee-guida-delloms-stop-a-pubblicita-cibo-spazzatura] [Raccomandazioni OMS per proteggere i bambini dal marketing junk food] ONU – UNRIC. Quattro settori industriali responsabili di 2,7 milioni di morti in Europa. [https://unric.org/it/quattro-settori-industriali-sul-banco-degli-imputati-per-la-morte-di-27-milioni-ogni-anno-denuncia-loms-europa/] [Cibo ultraprocessato equiparato a tabacco, alcol e combustibili fossili come killer di massa] Fortune Italia. Stili di vita corretti: 1 miliardo di risparmi in Italia. [https://www.fortuneita.com/2025/04/15/salute-con-stili-di-vita-corretti-1-mld-di-risparmi-in-italia/] [Risparmi potenziali per il SSN grazie a politiche di prevenzione]

