- sabato 13 Dicembre 2025
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200.000 litri di petrolio nel suolo del Brandeburgo: cosa è successo e come si prova a rimediare

Da una stazione di pompaggio è partita una fontana di petrolio alta fino a dodici metri, che per circa due ore e mezza ha spruzzato greggio su un campo agricolo già zuppo di pioggia.

La sera del 10 dicembre 2025, vicino al villaggio di Zehnebeck, nel comune di Gramzow, nel Land del Brandeburgo, in Germania, una pipeline che collega il porto di Rostock alla raffineria PCK Schwedt ha avuto una grave avaria.

Da una stazione di pompaggio è partita una fontana di petrolio alta fino a dodici metri, che per circa due ore e mezza ha spruzzato greggio su un campo agricolo già zuppo di pioggia. Le stime parlano di almeno 200.000 litri di petrolio fuoriusciti; la quantità reale potrebbe essere più alta.

La causa, secondo la società che gestisce l’oleodotto, è legata a un incidente avvenuto durante i preparativi per un test di sicurezza. Le autorità escludono, al momento, un atto di sabotaggio.

Sul posto sono arrivati circa cento vigili del fuoco, venticinque dipendenti della PCK (la società che gestisce l’oleodotto) e tecnici specializzati con mezzi di aspirazione. Il foro è stato chiuso in nottata, il grosso del petrolio libero è stato “risucchiato” con veicoli dotati di pompe, e la prima buona notizia è arrivata subito: il campo era talmente bagnato che una parte importante del greggio si è fermata in superficie, formando uno strato spesso su acqua e fango. Per questo motivo, le autorità regionali hanno definito al momento “improbabile” una contaminazione grave e immediata del livello più profondo delle falde acquifere.

Questo non significa che il danno sia piccolo. Significa soltanto che, in questo caso, la “corsa verso il basso” del petrolio è stata rallentata dall’acqua già presente nel terreno. Il problema adesso è capire quanta parte del greggio resterà nel suolo, quanto riuscirà a migrare con il tempo e quanto costerà (in termini di anni e risorse) riportare quell’area a condizioni accettabili.

Cosa fa il petrolio quando entra nel terreno

Per capire perché uno sversamento da pipeline è così pericoloso, bisogna seguire il percorso del petrolio una volta uscito dal tubo.

Il greggio è una miscela di centinaia di sostanze. Alcune sono più leggere e volatili, come il benzene e altri solventi affini, altre sono più pesanti e persistenti, come certi idrocarburi ad anelli multipli che tendono a rimanere nel suolo per anni.

Se il terreno è asciutto o solo moderatamente umido, l’olio penetra tra i granelli di terra, occupa gli spazi d’aria e inizia a farsi strada verso il basso trascinato dalla gravità. Quando incontra la falda acquifera (cioè lo strato sotterraneo in cui il suolo è completamente saturo d’acqua) il petrolio, che è più leggero, tende a galleggiare sopra l’acqua. Si forma una specie di patina, o “lente” di idrocarburi che può spostarsi lentamente seguendo i movimenti dell’acqua sotterranea.

Nel frattempo, una parte dei composti più solubili, come il benzene, si scioglie a piccole quantità nell’acqua. Bastano concentrazioni molto basse per rendere l’acqua non più potabile, ed è per questo che ogni sversamento vicino a falde destinate all’uso umano è considerato ad alto rischio.

Nel caso del Brandeburgo, le autorità insistono sul fatto che la pioggia abbondante e il fango superficiale hanno trattenuto gran parte del petrolio negli strati più superficiali, dove è più facile da rimuovere fisicamente. Ma la regola generale resta la stessa: se una parte del greggio dovesse superare la “barriera” fangosa, la falda potrebbe essere coinvolta e a quel punto i tempi si allungherebbero moltissimo.

Il terreno smette di respirare

Il suolo, come sappiamo, non è un semplice “substrato” inerte. È un organismo collettivo fatto di radici, funghi, batteri, piccoli invertebrati, aria e acqua.

Quando una grande quantità di petrolio si deposita su un campo succede questo: si crea una pellicola oleosa che blocca gli scambi di aria tra suolo e atmosfera, si soffocano i funghi micorrizici (quelli che vivono in simbiosi con le radici degli alberi e li aiutano ad assorbire nutrienti), si ostacola la crescita delle radici che si ritrovano in un ambiente povero di ossigeno e ricco di sostanze tossiche.

Gli strati più colpiti possono diventare quasi sterili per anni. Per farli tornare vivi serve tempo, e serve attivare tutti quei processi che permettono ai microrganismi “giusti” di trasformare gradualmente gli idrocarburi in sostanze meno pericolose.

Cosa si fa nelle prime ore: chiudere la ferita e impedire che si allarghi

Nel Brandeburgo le prime ore sono state occupate da due obiettivi immediati: chiudere il foro e impedire che il petrolio arrivasse oltre il campo colpito.

La sequenza tipica, e in gran parte confermata anche dai resoconti ufficiali, è questa. Si arresta il pompaggio nell’oleodotto, si chiudono le valvole di intercettazione a monte e a valle del tratto danneggiato, si riduce la pressione interna. Intorno all’area contaminata si allestiscono cordoli di terra e barriere assorbenti, per evitare che il petrolio scivoli nei fossi, nei canali di scolo o verso corsi d’acqua vicini.

Arrivano i mezzi di aspirazione (veri e propri “aspirapolvere” industriali montati su camion) che cominciano a risucchiare il petrolio libero dalla superficie del terreno. È quello il momento in cui si può fare la differenza tra un danno comunque grave e una catastrofe ambientale: ogni litro recuperato subito è un litro in meno che tenta di infiltrarsi. Nel caso tedesco, le fonti riportano che una “gran parte” dell’olio in superficie è stata recuperata già nella notte fra il 10 e l’11 dicembre.

In parallelo si delimitano le aree più colpite, si effettuano i primi campionamenti del terreno e si identificano i punti dove, se necessario, installare in futuro i pozzi di monitoraggio della falda.

Questa fase si misura in ore e giorni.

Cosa si fa nelle prime settimane: capire fin dove è arrivato il danno

Una volta messa in sicurezza la situazione di emergenza, si passa alla caratterizzazione del sito. È meno spettacolare delle autopompe in azione, ma è la parte che decide il futuro di quell’area.

Tecnici e geologi scavano piccoli saggi per vedere quanto in profondità è arrivato il petrolio, installano piezometri (cioè tubi che permettono di prelevare acqua sotterranea) per capire se la falda è stata toccata, mappano la distribuzione della contaminazione su una griglia regolare per avere un quadro tridimensionale del problema.

Su questa base si costruisce il piano di bonifica, che deve essere approvato dalle autorità competenti. In Germania, come nel resto dell’Unione europea, esistono linee guida e limiti di concentrazione oltre i quali il suolo non è considerato compatibile con l’uso previsto.

Questa fase richiede in genere alcune settimane o pochi mesi, a seconda dell’estensione e della complessità del sito.

Come si bonifica il suolo: tra scavo, lavaggio e batteri che “mangiano” il petrolio

Una volta capito quanto profondo è il danno, si sceglie la combinazione di interventi più adatta. Le opzioni principali sono tre. Tutte e tre includono l’uso di batteri speciali che divorano e quindi smaltiscono gli idrocarburi.

La prima è lo scavo del terreno contaminato. Si rimuove lo strato di suolo che contiene la maggior parte del petrolio, spesso nell’ordine di decine di centimetri, a volte di metri. La terra così rimossa può essere portata in impianti specializzati, dove viene trattata con tecniche fisiche e chimiche, oppure viene disposta in “biopile”: grandi cumuli ventilati e periodicamente rivoltati, in cui batteri selezionati degradano gli idrocarburi nell’arco di mesi. Studi su casi reali mostrano che, in condizioni favorevoli, si può riportare il contenuto di idrocarburi entro limiti accettabili in quattro–nove mesi circa; in altre situazioni si arriva a un anno o più.

La seconda è l’intervento in situ, cioè senza rimuovere il terreno. Si insuffla aria nel sottosuolo per fornire ossigeno ai batteri, si aggiungono nutrienti per stimolarli, si può anche riscaldare leggermente il terreno per accelerare le reazioni. Questo approccio, chiamato in termini tecnici bioventing o bioremediation, è più discreto ma richiede tempi più lunghi, in genere da diversi mesi a qualche anno.

La terza è una combinazione delle due: si scava dove il carico di inquinante è più elevato, e si lascia ai batteri il compito di “rifinire” la bonifica sugli strati più profondi o difficili da raggiungere. Le revisioni dei casi studio reali indicano che proprio le soluzioni miste sono spesso quelle che offrono il miglior equilibrio fra efficacia, tempi e costi.

Per un sito come quello del Brandeburgo, è plausibile aspettarsi mesi di lavori sul suolo, seguiti da un monitoraggio prolungato per verificare che i valori restino stabili nel tempo.

Come si bonifica la falda acquifera, se è stata contaminata

Se la falda acquifera sotto il sito è coinvolta, entra in gioco un altro livello di complessità.

La tecnica più classica è il “pump and treat”: si installano pozzi che estraggono l’acqua contaminata, la si porta in superficie, la si fa passare attraverso filtri e sistemi di trattamento che rimuovono gli idrocarburi, poi la si reimmette nel terreno o in un corpo idrico superficiale, se pulita a sufficienza.

In altri casi si usano sistemi di estrazione multifase, che aspirano insieme vapori e liquidi dal sottosuolo, o si iniettano reagenti che accelerano la trasformazione chimica degli inquinanti. Sono procedure costose e che richiedono impianti in funzione per lungo tempo.

I dati disponibili su bonifiche reali parlano di tempi nell’ordine di uno o tre anni per riduzioni significative dei contaminanti in acqua in situazioni relativamente semplici, e di oltre dieci anni nei casi complessi o con sostanze particolarmente persistenti.

Nel caso del Brandeburgo, le autorità insistono sul fatto che, per ora, la contaminazione grave del livello più profondo della falda è ritenuta poco probabile, proprio perché il petrolio si è accumulato su un campo già impregnato d’acqua e fango. Resta comunque indispensabile un monitoraggio pluriennale dei pozzi nell’area, per verificare che non compaiano aloni di contaminazione a distanza di tempo.

Perché “incidente localizzato” non significa danno limitato

Guardata dall’alto, l’area colpita è relativamente piccola. Non stiamo parlando di una marea nera che si estende in mare aperto per chilometri. Ma definire questo evento “localizzato” rischia di essere fuorviante.

È localizzato il punto da cui esce il petrolio. Non è affatto detto che sia limitata nel tempo la sua influenza.

Una parte del danno è visibile subito: il campo impregnato, l’odore, i mezzi di soccorso. Un’altra parte è silenziosa e lenta: riguarda il modo in cui il petrolio interagisce con il terreno, risale nelle piante, si muove nel sottosuolo, può comparire anni dopo nei campioni d’acqua di un pozzo distante.

Per questo incidenti come quello del Brandeburgo non sono solo un fatto di cronaca, ma un promemoria molto concreto: gli oleodotti invecchiano, si usurano, possono rompersi, e ogni rottura ha un costo che non si misura solo in Eeuro, ma in anni di bonifica e in interi ecosistemi messi alla prova.

La prevenzione (manutenzione, controlli rigorosi, riduzione della dipendenza complessiva dai combustibili fossili) costa. Ma, ancora una volta, costa meno di una bonifica che può durare decenni.

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