Un giaguaro solitario è tornato a muoversi tra le colline dell’Arizona meridionale. Le immagini notturne di una fototrappola lo hanno immortalato nella San Rafael Valley, uno degli ultimi corridoi naturali che collegano gli ecosistemi del Messico settentrionale con quelli degli Stati Uniti. Non si tratta solo di una presenza rara. È un segnale biologico preciso, che racconta la resilienza di un paesaggio ancora capace di sostenere grandi predatori, ma anche la sua crescente fragilità di fronte alle trasformazioni imposte dall’uomo.
Quando un predatore apicale torna in un territorio, sta “testando” se quel sistema è ancora in grado di funzionare.
Il felino, identificato dai ricercatori come Jaguar Number Four, si muove in un territorio di praterie, canyon e boschi che collega le montagne dell’Arizona alla Sierra Madre messicana. È uno degli ultimissimi giaguari noti a nord del confine.
Una popolazione che ha il suo nucleo vitale più a sud, nello stato di Sonora, e che solo occasionalmente riesce a superare una frontiera che, negli ultimi decenni, è diventata sempre più concreta e invasiva.
Un confine che non è più una linea
Per il giaguaro, come per molte altre specie, il confine non è mai stato una linea politica. È sempre stato uno spazio di passaggio. Oggi, però, quella linea si è trasformata in un’infrastruttura continua fatta di barriere d’acciaio alte fino a nove metri, piste di pattugliamento, illuminazione artificiale e sistemi di sorveglianza.
Un insieme di elementi che spezzano la continuità ecologica di un’area conosciuta come Sky Islands, dove si incontrano specie temperate e tropicali e dove la mobilità è una condizione essenziale per la sopravvivenza.
Qui il confine smette di essere una soglia e diventa un ostacolo fisico permanente per gli ecosistemi.
In questo mosaico ambientale, il giaguaro non è solo un predatore apicale. È un indicatore di integrità ecosistemica. La sua presenza segnala che il territorio funziona ancora come sistema complesso, in grado di sostenere catene alimentari complete. Interrompere questa continuità significa alterare equilibri che vanno ben oltre il destino di un singolo animale.
E quando un giaguaro scompare, di solito significa che il sistema era già in difficoltà.
La San Rafael Valley come ultimo varco
La San Rafael Valley rappresenta uno degli ultimi passaggi relativamente aperti lungo il confine tra Arizona e Sonora. Finora, le barriere presenti sono state limitate a recinzioni basse, strutture anti-veicolo e tratti di filo spinato, che hanno comunque permesso il passaggio notturno di cervi, puma, antilopi e, occasionalmente, giaguari.
È attraverso questo varco biologico che Jaguar Number Four avrebbe seguito rotte antichissime, tracciate molto prima della nascita degli Stati nazionali.
Rotte che esistono perché la natura, per sopravvivere, ha bisogno di continuità.
Il progetto attualmente in discussione prevede però la costruzione di circa 27 miglia di nuovo muro proprio in quest’area. I segmenti previsti, in stile bollard, sono noti per bloccare oltre l’85 per cento dei movimenti faunistici e per impedire del tutto il passaggio dei grandi mammiferi. Per specie che dipendono dalla mobilità per trovare prede, territori e partner riproduttivi, la trasformazione di un corridoio in una barriera equivale a una condanna lenta ma certa.
Non è un’ipotesi teorica: è un effetto già osservato in molti altri tratti di confine.
Isolamento genetico e scomparsa invisibile
La sopravvivenza del giaguaro in Arizona dipende interamente dal collegamento con le popolazioni messicane. Nel territorio statunitense non si registra la presenza di una femmina da circa sessant’anni. Gli esemplari osservati negli ultimi decenni sono tutti maschi solitari, esploratori di un habitat ancora potenzialmente idoneo ma incapace di sostenere una popolazione autonoma.
Se la San Rafael Valley venisse chiusa, questa connessione verrebbe meno. Jaguar Number Four rischierebbe di restare intrappolato in una enclave ecologica, destinato a una vita isolata senza possibilità di contribuire al recupero della specie negli Stati Uniti. Sarebbe un’estinzione locale silenziosa, priva di eventi drammatici, ma definitiva nei suoi effetti sulla biodiversità.
Le estinzioni più comuni non avvengono all’improvviso: avvengono per isolamento.
Sicurezza e costi ecologici
L’espansione del muro viene giustificata in nome della sicurezza dei confini, in continuità con politiche avviate durante la precedente amministrazione Trump e rilanciate negli ultimi anni. Eppure, la San Rafael Valley è considerata dagli stessi analisti una delle aree meno attraversate dalla migrazione irregolare, sia per la distanza dalle principali vie di accesso, sia per la difficoltà del terreno.
Qui il muro non risponde a un’emergenza concreta, ma a una scelta politica.
Questa sproporzione tra benefici attesi e costi certi per gli ecosistemi rende la valle un caso emblematico del conflitto tra politiche di frontiera e conservazione ambientale. Le recenti esplosioni documentate nei pressi del Coronado National Memorial, utilizzate per preparare il terreno ai cantieri, mostrano come la logica della barriera fisica finisca per compromettere non solo corridoi faunistici, ma anche habitat protetti e luoghi di valore culturale e spirituale.
In nome della sicurezza, si stanno danneggiando aree che non rappresentano alcuna minaccia.
Una frontiera che unisce o che spezza
Scienziati, organizzazioni ambientaliste e comunità tribali del Sudovest ricordano da anni che la frontiera non è una linea ecologica, ma un sistema di connessioni. Connessioni genetiche, idrologiche, culturali. Le catene montuose, le foreste e le valli di confine formano un continuum che permette agli animali di adattarsi al cambiamento climatico, spostandosi verso nuove altitudini e latitudini in risposta a siccità e ondate di calore sempre più frequenti.
Interrompere questo continuum significa ridurre la capacità del paesaggio di reagire agli stress ambientali. Il destino del singolo giaguaro diventa così una misura indiretta della salute di un intero ecosistema frammentato.
Spezzare le connessioni oggi significa rendere questi territori più fragili domani.
Sul piano simbolico, la sua storia solleva una domanda più ampia. Che tipo di confine vuole rappresentare una società che affronta insieme crisi migratorie e crisi ecologica. Un confine pensato solo come chiusura, o uno spazio capace di riconoscere che, almeno per la natura, una certa permeabilità non è un rischio, ma una condizione di sopravvivenza.
Per ora, le immagini notturne del felino che attraversa le praterie dell’Arizona raccontano ancora un paesaggio vivo, in cui la natura riesce a trovare varchi. Se quei varchi dovessero chiudersi definitivamente, Jaguar Number Four rischierebbe di diventare non solo l’ultimo giaguaro, ma il simbolo di una scelta irreversibile.
Una scelta che non riguarda la natura, ma chi decide di ignorare come funzionano i sistemi viventi.

