- lunedì 01 Dicembre 2025
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Gaza e Israele: due governi, una sola trappola per i civili

Perché né Hamas né Netanyahu vogliono la pace

Un conflitto senza confini

Tra Gaza e Israele non esiste più un confine chiaro tra il fuoco nemico e quello amico. Esiste un imbuto: un tunnel senza uscita, dove la popolazione civile viene risucchiata da due forze che della guerra hanno fatto il loro ossigeno. Da una parte Hamas, padrone assoluto della Striscia dal 2007, dall’altra Benjamin Netanyahu e la sua coalizione ultraconservatrice. Due volti di uno stesso incubo: un popolo incastrato tra repressione interna e occupazione esterna, senza diritti, senza voce, senza scampo.

Gaza diventa prigione sotto Hamas

Hamas non è un governo nel senso pieno del termine. È una milizia che ha militarizzato il potere, trasformando la Striscia in una prigione a cielo aperto. Nel 2006, Hamas vinse le elezioni legislative palestinesi con una maggioranza relativa. Ma l’anno successivo, nel 2007, si impadronì del potere a Gaza con la forza, sconfiggendo militarmente le fazioni legate a Fatah in una breve ma sanguinosa guerra civile. Da allora, non si vota più. Sono passati quasi vent’anni senza elezioni, senza confronto democratico, senza legittimazione popolare.

Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto 2023, Gaza è scoppiata. Migliaia di persone hanno riempito le piazze con una richiesta semplice: vivere. La protesta, iniziata il 30 luglio, si è protratta per alcuni giorni, nonostante la repressione. Non è stato uno slogan politico, ma una supplica esistenziale. “We want to live”, hanno scritto sugli striscioni. Pane, acqua, elettricità, ma anche libertà, dignità, futuro. La risposta è stata feroce. Repressione, arresti arbitrari, pestaggi. Almeno un morto. Gli apparati di Hamas si sono mossi come un corpo unico per soffocare ogni dissenso, come se la richiesta di sopravvivenza fosse un tradimento.

Gli aiuti umanitari, quando arrivano, vengono tassati da Hamas. I beni primari distribuiti secondo logiche clientelari. Chi protesta è accusato di collaborazionismo con Israele. La povertà è diventata una leva di potere. La rabbia, un nemico interno.

Il legame tra Hamas e gli interessi esterni

Hamas non è un blocco monolitico, né è composto solo da palestinesi. L’organizzazione è nata nel 1987 come costola dei Fratelli Musulmani e da allora si è evoluta in una struttura paramilitare, ideologicamente ispirata all’islamismo radicale. Riceve finanziamenti, armi e supporto strategico da potenze esterne come l’Iran e, in parte, Hezbollah. Molti dei suoi leader vivono all’estero, in Qatar o in Libano, lontano dalla miseria quotidiana della Striscia. I loro interessi rispecchiano agende regionali più ampie, che spesso divergono dalle esigenze immediate della popolazione civile palestinese. Per Hamas, la liberazione della Palestina passa attraverso la lotta armata e il martirio, più che attraverso il benessere, l’educazione o la costruzione di istituzioni democratiche.

Ed è forse anche per contenere quella rabbia che, pochi mesi dopo, Hamas ha lanciato l’attacco del 7 ottobre 2023. Un atto terroristico brutale, spietato, pianificato. Uccisioni, sevizie, stupri. Più di mille morti. Un massacro non solo rivolto verso l’esterno, ma anche pensato per ricompattare il fronte interno. Distogliere l’attenzione. Zittire la protesta. Far dimenticare le piazze di luglio con il boato delle esplosioni di ottobre.

Israele e la crisi della democrazia

Ma la violenza non ha un solo volto. E anche se Netanyahu guida uno Stato democratico riconosciuto, la sua azione oggi ricorda — per metodi e cinismo — quella di Hamas. Con una differenza: ha mezzi infinitamente superiori. E quando il potere è tanto squilibrato, la devastazione si fa assoluta. 

Sotto processo per corruzione, frode e abuso di potere, il premier israeliano ha trasformato la guerra in uno strumento per rimandare l’inevitabile: i processi, le sentenze, la caduta. Ogni missile lanciato, ogni raid ordinato, ogni conferenza stampa sulla “sicurezza nazionale” non è solo geopolitica: è sopravvivenza politica. Più a lungo dura la guerra, più a lungo Netanyahu può restare in carica.

La sua coalizione è la più estrema mai vista in Israele. Ministri come Itamar Ben-Gvir sostengono apertamente l’annessione totale dei territori palestinesi, promuovono politiche di discriminazione etnica e ritengono l’uso della forza armata l’unica risposta possibile al conflitto. Il dibattito pubblico è stato avvelenato da un linguaggio violento, identitario, razzista. I palestinesi sono nemici interni, le manifestazioni civili sono sabotaggio, la magistratura è un ostacolo da neutralizzare. Lo hanno capito bene i cittadini israeliani: nel 2023, è esploso un movimento di protesta senza precedenti.

Il 7 gennaio 2023, la prima grande manifestazione si è tenuta a Tel Aviv, in piazza Habima, contro la riforma giudiziaria promossa dal ministro Yariv Levin e sostenuta da Netanyahu. A gennaio e febbraio, le piazze si sono riempite ogni settimana, con oltre 100.000 manifestanti regolari e l’adesione di intere categorie professionali: medici, insegnanti, piloti. A marzo, lo scontro si è acuito: la proposta di conferire al governo il pieno controllo sulla Corte Suprema ha generato proteste di massa e uno sciopero generale. Il governo ha temporaneamente sospeso la riforma. Ma le manifestazioni sono proseguite per tutta la primavera. Tra aprile e luglio, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza ogni settimana. Il 24 luglio, nonostante tutto, il parlamento ha approvato una misura chiave della riforma. La frattura democratica era ormai profonda. Anche qui: un popolo contro il suo governo.

Due governi, un solo bisogno di guerra

Il parallelo diventa doloroso. Due governi che, in modi diversi, dipendono dalla guerra per esistere. Hamas, per evitare il crollo del proprio consenso interno, e Netanyahu, per scampare ai tribunali. Nessuno dei due può permettersi la pace. Perché la pace richiederebbe riforme. Elezioni. Trasparenza. Rinunce. Restituzioni. E per entrambi, significherebbe cedere il potere. 

Vittime comuni: civili, dissidenti, pacifisti

In mezzo, i civili. Palestinesi strangolati dal doppio giogo: l’assedio militare israeliano da un lato, l’oppressione autoritaria di Hamas dall’altro. Ebrei israeliani usati come scudi retorici di una politica che ha perso l’orizzonte della giustizia. Tutti ostaggi, prigionieri di una guerra senza uscita.

Non si può neanche parlare di resistenza senza specificare. Perché quella esiste, e non sempre è armata. Le madri che protestano, i giovani che boicottano, i professori che insegnano ancora il diritto alla verità: sono loro le cellule della pace. Nascoste, isolate, ma vive. Le donne iraniane che si ribellano al velo obbligatorio, le attiviste di Gaza che sfidano la repressione, i rabbini che credono in un’altra Israele: sono voci sparse, ma unite da una stessa resistenza civile.

La pace non è una tregua

Però questo filo va raccolto. Va protetto. Serve un movimento internazionale che guardi oltre il rumore dei droni. Che capisca che una pace vera non si costruisce solo fermando le bombe, ma anche aprendo spazi di democrazia. Una presenza dei caschi blu potrebbe garantire protezione umanitaria e temporanea, ma senza un disegno politico chiaro sarebbe solo un cerotto. Serve una pressione globale che tenga ben presente il quadro complessivo: due aguzzini, una vittima. Perché pensare che il solo problema sia Israele, ignorando la repressione interna di Hamas, significa comunque abbandonare i palestinesi alla spirale dei soprusi. Significa lasciarli soli nella trappola in cui Hamas li ha bloccati e che Israele ha poi trasformato in un’escalation vendicativa. Netanyahu, guidato da un’opportunistica strategia di autoconservazione, ha fatto della violenza un parafulmine per i suoi processi e il suo declino politico. Ma nulla si risolverà senza una vera discontinuità su entrambi i fronti.

Fino a quando non accadrà, la guerra continuerà ad autoalimentarsi. Perché conviene. Conviene alle élite che si arricchiscono con i contratti militari, con i finanziamenti esteri, con la paura. Ma non conviene ai bambini di Gaza che non conoscono il silenzio. Non conviene ai ragazzi di Tel Aviv che hanno visto troppi coetanei partire e non tornare. Non conviene a chi crede ancora che esista un’alternativa.

Il Medio Oriente non è destinato alla guerra. Non lo è né per cultura, né per religione. È stato trasformato in un campo di battaglia da chi ha interesse a mantenerlo tale: governi, milizie, industrie belliche, alleati silenziosi. Ma la Storia non è immobile. Può ancora cambiare. E cambierà solo se, finalmente, la pace tornerà ad avere più valore della paura.

 

Fonti principali: Associated Press, Freedom House, The Guardian, Al Jazeera, JStreet, OCHA (ONU), Arab Center for Research and Policy Studies, JCPA (Jerusalem Center for Public Affairs), FDD (Foundation for Defense of Democracies), Wikipedia (per contesti generali).

Alice Salvatore
Alice Salvatore
Alice Salvatore, è una politica “scollocata”, il concetto di scollocamento è un atto di volontaria autodeterminazione. Significa abbandonare un lavoro sicuro e redditizio, per seguire le proprie aspirazioni e rimanere coerente e fedele al proprio spirito. Alice Salvatore si è dunque scollocata, rinunciando a posti di prestigio, profumatamente remunerati, per non piegare il capo a logiche contrarie al suo senso etico e alla sua coerenza. Con spirito indomito, Alice continua a fare divulgazione responsabile, con un consistente bagaglio esperienziale nel campo della politica, dell’ambiente, della salute, della società e dell’urbanistica. La nostra società sta cambiando, e, o cambia nella direzione giusta o la cultura occidentale arriverà presto al TIME OUT. Alice è linguista, specializzata in inglese e francese, ha fatto un PhD in Letterature comparate Euro-americane, e macina politica ed etica come respira.
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