- lunedì 01 Dicembre 2025
HomeAttualitàNon è una tassa sui robot, ma un modo per rendere la...

Non è una tassa sui robot, ma un modo per rendere la tecnologia parte del patto sociale

Intervista a Stefano Bacchiocchi, ideatore del Contributo Automazione

Introduzione

Parliamoci chiaro: mentre il dibattito sulla robot tax si impantana tra slogan da talk show e provocazioni da social, c’è un sistema pensionistico che fa acqua da tutte le parti. E no, non è colpa dei giovani che “non vogliono lavorare” o degli anziani che “rubano il futuro”. È che il mondo è cambiato, e noi continuiamo a tassare come se fossimo ancora nell’era delle fabbriche fordiste.

Oggi la ricchezza la producono anche – e sempre più – macchine e algoritmi. Ma il fisco? Continua a guardare solo le buste paga. Risultato: ogni volta che un’azienda sostituisce dieci persone con un software, lo Stato perde contributori. Meno lavoratori significa meno contributi, meno risorse per pensioni e welfare. Un cortocircuito che secondo alcuni studiosi, ci ostiniamo a ignorare.

Il Contributo Automazione – proposta elaborata da Stefano Bacchiocchi – prova a uscire da questo vicolo cieco. Non tassa i robot (qualunque cosa significhi), ma intercetta il vantaggio economico che nasce quando l’automazione rimpiazza esseri umani. L’idea di fondo è semplice quanto dirompente: se le macchine generano profitti al posto delle persone, almeno una parte di quei profitti dovrebbe contribuire al sistema che quelle persone dovrebbero sostenere.

Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: quello delle imprese, soprattutto piccole e medie, già schiacciate da un carico fiscale e burocratico tra i più alti d’Europa. Per molte di loro, investire in automazione non è una scorciatoia per licenziare, ma l’unico modo per reggere la concorrenza, mantenere i livelli occupazionali residui e continuare a produrre in Italia. In questo contesto, un nuovo contributo, per quanto equo sul piano teorico, rischia di essere percepito come l’ennesimo freno a chi crea valore reale.

Gli abbiamo chiesto di spiegarci come funzionerebbe nella pratica, chi pagherebbe davvero, e soprattutto: è una proposta realizzabile o l’ennesima utopia da convegno?

Intervista a Stefano Bacchiocchi

  • La sua proposta parte da un presupposto forte: oggi la ricchezza non è più prodotta solo dal lavoro umano. È questa la frattura che vuole sanare?
    Questo è il nodo centrale.
    La ricchezza, oggi, è sempre più generata da sistemi automatici. Eppure il nostro impianto pensionistico e fiscale resta ancorato a un presupposto ormai superato: che il lavoro umano costituisca la fonte primaria della capacità contributiva.
    Da questa frattura nasce un evidente squilibrio, che si traduce in iniquità e in uno scollamento tra i principi su cui si fonda l’attuale sistema e la realtà produttiva contemporanea, caratterizzata da processi digitali e automatizzati.
    Nella mia visione, quando una macchina o un algoritmo sostituisce l’attività di una persona, il valore così generato deve concorrere al finanziamento dei costi sociali che, fino a ieri, gravavano esclusivamente sul lavoro umano.
    Il Contributo Automazione rappresenta la risposta normativa e fiscale capace di riallineare la logica della contribuzione con la struttura economica del presente e del futuro.
  • In molti temono che tassare l’automazione significhi ostacolare il progresso. Lei invece dice che serve per accompagnarlo: come?
    Il timore che un intervento fiscale possa frenare il progresso tecnologico è, dati alla mano, privo di fondamento.
    L’automazione non avanza perché poco tassata, ma perché intrinsecamente più efficiente: non conosce interruzioni per ferie o malattia, riduce drasticamente il fabbisogno di manodopera e garantisce livelli di produttività che il lavoro umano, da solo, non può eguagliare.
    È una tendenza irreversibile, radicata nella logica economica e competitiva delle imprese, e non un fenomeno contingente che possa essere condizionato da un’imposta.
    Le grandi rivoluzioni tecnologiche della storia – dalla meccanizzazione industriale all’informatizzazione – non sono mai state arrestate da vincoli normativi o fiscali.
    L’obiettivo, dunque, non è ostacolare l’innovazione, ma governarla.
    Ciò significa riconoscere che l’automazione genera una nuova forma di capacità contributiva, oggi del tutto ignorata, e che questa deve essere valorizzata per sostenere la coesione sociale.
    Non si tratta di punire la tecnologia, bensì di integrare i suoi benefici in un sistema di equità collettiva.
  • Ci spiega in parole semplici come si calcola questo contributo?
    Il principio è chiaro e lineare: non si tassa la macchina in quanto tale, ma soltanto il reddito che l’impresa realizza quando sostituisce il lavoro umano con l’automazione.
    In altre parole, l’imposta non colpisce la tecnologia, bensì il guadagno che deriva direttamente dal rimpiazzo delle persone.
    Il meccanismo di calcolo si basa sui dati già comunicati dalle imprese – ricavi, costi del personale, indicatori di settore – senza introdurre nuovi adempimenti.
    Lo Stato definisce un “Costo del Personale Atteso” per ogni settore: se un’impresa spende meno della media per personale a parità di ricavi, la differenza è considerata vantaggio economico attribuibile all’automazione.
    Solo su questa quota si applica l’imposta, secondo aliquote progressive.
    In assenza di sostituzione del lavoro umano, non vi è alcun prelievo.
  • Perché ha scelto di non tassare le macchine, ma il vantaggio economico che producono?
    La scelta non è casuale, ma di principio.
    Tassare direttamente la macchina significherebbe entrare in un terreno scivoloso: cos’è esattamente un robot? Quali tecnologie rientrano nella definizione e quali no?
    Il Contributo Automazione adotta una logica diversa: non guarda allo strumento, ma al risultato economico che esso genera.
    L’imposta colpisce solo il reddito aggiuntivo derivante dall’automazione quando questa sostituisce il lavoro umano.
    In questo modo si supera ogni ambiguità tecnica e si concentra l’attenzione sull’effetto concreto e verificabile.
    Finché la tecnologia affianca e supporta l’attività umana, non vi è imposizione.
    Diventa invece rilevante solo quando svolge attività produttive che rimpiazzano la prestazione delle persone.
    In sintesi: il Contributo Automazione non è una tassa contro le macchine, ma uno strumento per riallineare il patto fiscale con la realtà produttiva contemporanea, trasformando uno squilibrio in un’occasione di giustizia redistributiva.
  • Chi controllerebbe che le aziende dichiarino correttamente i dati?
    La verifica è affidata a professionisti iscritti ad albi, con assicurazione obbligatoria e vigilanza ministeriale.
    I controlli si basano su dati già presenti nei bilanci e nelle dichiarazioni fiscali, garantendo trasparenza, efficienza e responsabilità giuridica.
  • È già possibile stimare un gettito annuo potenziale?
    Non esiste ancora una cifra definitiva, ma una stima di massima – a regime – parla di
    circa 8 miliardi di euro annui.
    Una fase pilota, applicata ai settori più automatizzati, servirà a calibrare gli indicatori e verificare l’efficacia del sistema.
  • Le risorse andrebbero a un fondo vincolato: come garantirne la trasparenza?
    Il contributo è concepito come tributo di scopo.
    Le risorse confluiscono in un fondo autonomo, separato e tracciabile, gestito da una governance multilaterale composta da istituzioni pubbliche, parti sociali, esperti indipendenti e imprese.
    Lo scopo è chiaro: reinvestire i proventi dell’automazione in formazione, riqualificazione, politiche attive per il lavoro e previdenza sociale, così che l’automazione diventi una leva di progresso condiviso e non un fattore di esclusione.
  • E concretamente, che tipo di interventi potrebbero essere finanziati?
    Programmi di formazione e riqualificazione professionale, integrazione del reddito, rafforzamento previdenziale e politiche attive per l’impiego.
    Un meccanismo di equità dinamica: le imprese che beneficiano della produttività tecnologica contribuiscono a sostenere i lavoratori che ne sono stati sostituiti.
  • Cosa direbbe a un imprenditore che teme un nuovo onere fiscale?
    Direi che questa proposta non è una nuova tassa generalizzata, ma un meccanismo mirato alle imprese di maggiori dimensioni e ad alta automazione.
    Si basa su dati già disponibili, non introduce burocrazia aggiuntiva, e prevede esenzioni per microimprese, start-up, settori in crisi e ambiti sensibili come la sanità.
    Il messaggio è chiaro: il Contributo Automazione non frena l’innovazione, ma la accompagna, garantendo che i benefici della tecnologia siano redistribuiti in modo equo.
  • Molti dicono che il lavoro umano è destinato a scomparire. Lei crede che l’automazione lo stia sostituendo o trasformando?
    Non credo che il lavoro umano scomparirà, ma si sta trasformando.
    La differenza è che questa volta la velocità del cambiamento è senza precedenti.
    Settori come logistica, contabilità e sportelli saranno profondamente automatizzati, ma anche professioni “intoccabili” – come avvocati, giornalisti, attori o notai – stanno cambiando radicalmente. Il rischio per l’Italia è non riuscire a contenere le tensioni sociali che derivano da questa trasformazione.
  • In fondo la domanda è: se le macchine lavorano al posto nostro, chi pagherà le pensioni?
    Il nodo è strutturale: meno lavoro umano significa meno contributi e meno imposte.
    Il Contributo Automazione nasce per rispondere a questo paradosso, garantendo risorse stabili per la sostenibilità del welfare.
    Non è una tassa contro la tecnologia, ma un meccanismo di riequilibrio: trasforma la sfida dell’automazione in un fattore di coesione sociale e giustizia redistributiva.
  • “Non è una tassa sui robot, ma un modo per rendere la tecnologia parte del patto sociale.” Le piace questa definizione?
    È una definizione efficace. Sia dal punto di vista tecnico, che da quello pratico.

Chiusa editoriale

Il Contributo Automazione non è una tassa sul futuro, ma un tentativo di renderlo abitabile. Rimettere in equilibrio un sistema che continua a chiedere tutto al lavoro umano mentre la produttività si sposta verso le macchine significa riconoscere una verità scomoda: la tecnologia non è neutra, e senza regole redistributive può amplificare le disuguaglianze invece di ridurle.

La proposta di Bacchiocchi riporta l’attenzione sul nodo essenziale: la giustizia fiscale nell’era dell’automazione. E lo fa con un linguaggio tecnico ma politicamente carico. Perché la vera domanda, oggi, non è se l’innovazione andrà avanti – lo farà comunque – ma chi ne raccoglierà i frutti e chi ne pagherà il prezzo sociale.

Ma una proposta del genere non può reggere se ignora la realtà produttiva italiana: un tessuto fatto di piccole e medie imprese già schiacciate da una pressione fiscale tra le più alte d’Europa, dove automatizzare non è un lusso ma spesso l’unica via di sopravvivenza. Il rischio è che un meccanismo nato per riequilibrare il sistema finisca per essere percepito come l’ennesimo onere da chi tiene in piedi il sistema stesso.

La sfida vera, allora, è trovare un punto di equilibrio: garantire che l’automazione contribuisca al welfare senza soffocare chi produce, trasformare un potenziale conflitto in un patto condiviso. Se il Contributo Automazione riuscisse a diventare uno strumento di riequilibrio e non un nuovo balzello, potrebbe davvero essere la risposta che cerchiamo.

Quando il legislatore troverà il coraggio di affrontare questo nodo? Quanto dovremo attendere prima che la produttività automatizzata contribuisca, almeno in parte, al benessere collettivo invece di concentrarsi interamente nei margini di profitto? L’idea è sul tavolo, insieme alle nostre scelte. I numeri ci sono, gli strumenti anche. Manca solo la volontà politica di riconoscere che un sistema previdenziale nato nell’Ottocento non può reggere il peso del XXI secolo.

Se l’automazione diventa parte del patto sociale, il progresso smette di essere un privilegio per pochi e torna a essere un bene comune. Ma se continueremo a fingere che il problema non esista, sarà la realtà, non la politica, a presentarci il conto.

Chi è Stefano Bacchiocchi 

Stefano Bacchiocchi  è un dottore commercialista iscritto all’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Brescia, con studio a Gottolengo (via Garibaldi 31, 25023 – BS). Da anni affianca imprese ed enti nella consulenza aziendale: contabilità e bilancio, pianificazione finanziaria, controllo e gestione del rischio.
In ambito pubblico e privato ricopre anche incarichi di Data Protection Officer (DPO). Accanto alla professione svolge attività accademica come professore a contratto all’Università degli Studi di Brescia, presso la Facoltà di Ingegneria, dove tiene il corso di Economia e Gestione Aziendale.
È l’ideatore del “Contributo Automazione”, proposta fiscale presentata al Senato della Repubblica il 25 settembre 2025, pensata per riallineare il finanziamento di welfare e previdenza in un’economia sempre più automatizzata.

Approfondimenti su Eywa

Per chi desidera approfondire il contesto tecnologico e ambientale dell’automazione, Eywa ha dedicato due analisi complementari: una sul funzionamento dei sistemi di machine learning, che rendono possibile la nuova economia automatizzata, e un’altra sui costi energetici e ambientali dell’intelligenza artificiale.

EYWA DIVULGAZIONEMachine learning: come funziona davvero (e perché ci riguarda tutti)
https://eywadivulgazione.it/machine-learning-come-funziona-davvero

EYWA DIVULGAZIONEQuanta energia divora l’intelligenza artificiale?
https://eywadivulgazione.it/quanta-energia-divora-lintelligenza-artificiale

Ti possono interessare

Più letti