Nel Regno Unito hanno deciso che un animale non è un pacco.
Non si spedisce, non si trascina, non si sfrutta “perché si è sempre fatto così”.
Con l’Animal Welfare Bill hanno detto basta: stop ai cuccioli venduti piccolissimi, alle madri gravide spedite come merce, agli animali mutilati per moda (coda, orecchie nei cani, estrazione delle unghie nei gatti ecc).
Il testo vieta anche di importare animali con tagli alle orecchie o alla coda, e altre mutilazioni; limita il numero di esemplari trasportabili per veicolo e impone che il proprietario viaggi con loro.
Una legge semplice, chiara, che non lascia spazio ai “ma”.
Riconosce finalmente l’animale come essere senziente, non come bene di consumo.
E chi traffica, maltratta o vende illegalmente, oggi in UK rischia fino a cinque anni di carcere.
Mentre oltremanica le regole diventano realtà, da noi invece restano chiacchiere istituzionali.
I cani possono ancora essere tenuti alla catena “per motivi sanitari o di sicurezza”.
Negli allevamenti italiani le gabbie non hanno misure minime: basta che l’animale “possa muoversi agevolmente”. Tradotto: basta che respiri.
Bovini e ovini possono viaggiare per ventotto ore di fila sotto il sole dentro camion chiusi.
Nel Regno Unito hanno deciso che la sofferenza ha un limite.
In Italia, basta chiamarla “tradizione”.
La differenza si vede anche nelle leggi.
Londra approva una legge quadro che cambia davvero le cose, rafforzando i controlli sugli allevamenti, i trasporti e le importazioni.
A Roma, purtroppo, si aggiustano solo le virgole.
La legge Brambilla, approvata a giugno, aveva promesso un divieto di legare i cani alla catena, ma ha lasciato aperte le solite eccezioni: “motivi sanitari” o “temporanee esigenze di sicurezza”.
L’ultima proposta per vietarla del tutto, firmata da Susanna Cherchi (M5S), prova ora a correggere quella falla, rendendo il divieto finalmente assoluto.
Un piccolo passo avanti, che è però solo ritocco, non una rivoluzione come nel Regno Unito.
Da noi ogni divieto nasce già col freno a mano.
Ogni legge, ha la sua scappatoia già scritta.
Negli allevamenti, la storia resta sempre la stessa.
Il decreto legislativo 122/2011 permette di tenere le scrofe chiuse per un mese dopo la fecondazione.
Un mese in gabbie tanto strette che “potersi muovere” significa letteralmente solo poter respirare. Ed è sufficiente, per essere in regola.
L’anno scorso ad Ancona, trenta cani provenienti dalla Turchia viaggiavano stipati in un furgone, senza acqua e senza documenti. Un sequestro che vale più di mille convegni: quando la legge è vaga, la crudeltà diventa routine.
Nel campo dei diritti degli animali, l’Unione Europea fissa solo standard minimi.
La Svezia li ha superati vietando del tutto le gabbie di gestazione.
Il Regno Unito ha scelto di alzare gli standard, considerando il benessere animale parte della salute pubblica, non una questione di sensibilità individuale.
L’Italia, come sempre, si ferma dove comincia il coraggio.
Ci piace dire che “amiamo gli animali”.
Poi li lasciamo legati, chiusi, trasportati per giorni, maltrattati. Non serve amarli se poi li lasciamo soffrire “secondo norma”.
Servono leggi vere, senza scuse, senza deroga, senza “si è sempre fatto così”.
Perché gli animali non chiedono privilegi. Ma meritano dignità.
E la dignità, quando non viene protetta, svanisce.
E con la loro dignità, perdiamo anche un pezzo della nostra.
Altrove si può. Perché qui no?

