Non bastano i salari bassi, c’è un ingranaggio nascosto
Temu lo dice chiaramente nel suo slogan ufficiale: “Buy like a millionaire”, compra come un miliardario. “Prezzi impossibili? uguale: lavoro pagato niente.” È la frase che apre tutti i dibattiti. E una parte è vera: nelle filiere globali lo sfruttamento esiste eccome, ed è giusto che l’Europa lo metta sotto i riflettori. Ma la matematica non torna se ci fermiamo lì. Anche spremendo i salari fino all’assurdo, non arrivi a spedire dall’altra parte del pianeta un completo da jogging a sette euro, o un set di pennelli a tre. Il cuore del differenziale sta altrove: in una filiera tagliata come una lama, le spedizioni vengono vendute in perdita, perché per l’azienda valgono più come pubblicità che come costo, e in regole doganali scritte quando l’e-commerce ancora non esisteva, sfruttate con chirurgica spregiudicatezza.
La disintermediazione è il primo pezzo del puzzle: produttore-consumatore quasi senza passaggi nel mezzo. Niente agenti commerciali, niente show-room, niente rete retail, quasi niente scorte. Poi c’è la logistica resa artificialmente “leggera”: per anni, miliardi di pacchi di piccolo valore hanno superato i confini senza pagare dazi grazie alle soglie di esenzione. Infine, le consegne. Quando diciamo “spedizioni sotto-costo” intendiamo proprio questo: una parte del costo la copre l’azienda, perché conviene considerarla pubblicità.
Questo non assolve nessuno sulle condizioni di lavoro. Anzi, ci obbliga a tenere due pensieri in testa insieme. Da un lato, servono norme e verifiche serie sulle filiere; dall’altro, se vogliamo capire perché i prezzi crollano così in basso, dobbiamo guardare alle leve sistemiche che amplificano ogni centesimo risparmiato. E ora che Stati Uniti ed Europa stanno chiudendo quelle scappatoie, l’equazione comincia a cambiare: i prezzi iniziano già a risalire, e la festa rischia di finire.
C2M: la filiera ridotta all’osso
Per capire perché questa macchina gira, serve una parola chiave: C2M, Consumer-to-Manufacturer. Tradotto: il consumatore “dialoga” direttamente con la fabbrica, e la piattaforma fa da interprete onnisciente. Ogni clic, ogni ricerca, ogni recensione è un frammento di domanda che l’algoritmo ricompone in istruzioni di produzione: colore preciso della cover, variante della giacca, piccola funzione del gadget.
Ma il dietro le quinte è tutt’altro che romantico: una macchina di efficienza. Migliaia di fornitori cinesi si sfidano in aste al ribasso, limando i prezzi di centesimo in centesimo. L’ordine non pesa quasi mai sui magazzini della piattaforma: le fabbriche spediscono a hub di raccolta, da lì i lotti sono incastrati al millimetro per il trasporto intercontinentale, e alla fine il pacco arriva a casa tua con una precisione che, vista dall’esterno, sembra quasi magia.
Non significa prodotti migliori; significa prodotti più vicini a quello che in quel momento il mercato clicca. È una fabbrica che si muove al ritmo del feed. E quando la domanda impazza, il sistema accelera; quando cala, rallenta, senza rimanere impigliato in magazzini pieni di invenduto. Il risultato è un prezzo che sembra miracoloso perché non porta sulle spalle i costi della distribuzione tradizionale.
Comprare utenti col sangue degli investitori: la magia dei prezzi scritta nei bilanci in rosso
C’è un dettaglio che raramente finisce nei titoli ma che racconta meglio di mille slogan cos’è Temu: ogni volta che clicchi “compra”, la piattaforma perde soldi. Fino a 30 dollari per ordine, secondo le stime degli analisti. Un modello che definire “a debito” è quasi riduttivo: più che vendere prodotti, Temu sta comprando clienti.
Il trucco è semplice e spietato: invece di puntare a margini subito, si bruciano miliardi in perdite operative per conquistare velocemente quote di mercato. I numeri di PDD Holdings raccontano bene la scommessa: nell’ultimo anno i ricavi sono saliti del 10%, ma nello stesso tempo gli utili operativi sono precipitati di quasi il 40%. In altre parole, l’azienda incassa di più ma guadagna molto meno: la corsa a conquistare il mercato sta costando carissimo. È il prezzo della strategia: aprire il rubinetto del marketing, regalare spedizioni andando in perdita, inondare i social di coupon e link premio.
Immagina un bar che ti regala il cocktail e ti paga pure il taxi per venirlo a bere. Non è business, è colonizzazione del mercato. Funziona finché hai soldi da bruciare e investitori convinti che, prima o poi, arriverà il raccolto. Ma ogni trimestre di bilanci in rosso rende più urgente la domanda: quanto può durare un fuoco che si alimenta solo di benzina finanziaria?
Pubblicità lo-fi che funziona: perché il brutto vince
Chi ha visto uno spot di Temu sa di cosa parlo: video sgranati, voci robotiche, slogan urlati con la grazia di un volantino anni Novanta. Sembrano fatti con PowerPoint, e in un certo senso lo sono. Temu non punta a spot premium, ma a volume puro: nel 2023 ha speso circa 2 miliardi di dollari solo su Meta, per centinaia di migliaia di micro-video cheap, diventando uno dei maggiori inserzionisti al mondo.
La logica è brutale e geniale insieme: non conta la qualità dello spot, conta il CPA (costo per acquisizione). Se fai mille versioni di un video e lasci all’algoritmo il compito di capire quale porta più clic, l’algoritmo troverà sempre la variante giusta. Che sia un jingle ridicolo o una voce sintetica generata dall’intelligenza artificiale, non importa: se converte, vince.
Ed è qui che il “brutto” diventa strategia. Nei feed di TikTok o Instagram, un video un po’ grezzo, che sembra girato da un utente qualsiasi, passa per “contenuto nativo”. Non sembra pubblicità, sembra la storia di un amico. E i social questo lo premiano: un contenuto lo-fi ha più chance di catturare l’attenzione che uno spot troppo patinato.
Shopping o sala slot? La dipendenza secondo Temu
Entrare sull’app non è come aprire un negozio online. È più simile a infilarsi in una sala giochi digitale. Prima ancora di cercare quello che ti serve, vieni accolto da ruote della fortuna, check-in giornalieri, progress bar colorate. Non stai comprando: stai giocando. E intanto, senza accorgertene, stai spendendo.
Questo meccanismo si chiama gamification, ed è l’arte di prendere logiche da videogame e piazzarle in contesti che non hanno nulla di ludico. Funziona come una serie di piccole scariche di dopamina: ogni piccolo premio ti dà la gratificazione di aver “vinto qualcosa”, spingendoti a tornare e a comprare anche ciò che non avevi pianificato.
L’Unione Europea non ride: nel 2025 ha accusato Temu di design che crea dipendenza, cioè pensato per stimolare comportamenti compulsivi. Il confine è sottile: da una parte la creatività del marketing, dall’altra la manipolazione dei comportamenti. Ed è qui che Temu rischia più grosso: perché finché parliamo di sconti, il pubblico applaude. Ma quando lo shopping diventa slot machine, l’effetto-wow inizia a sembrare inquietante.
Prodotti non sicuri e dati in svendita
Nel luglio 2025 la Commissione Europea ha messo nero su bianco: su Temu esiste “un’alta probabilità di trovare prodotti illegali o pericolosi”. Non un sospetto: un verdetto. Giocattoli non conformi, piccoli dispositivi elettronici fuori norma, standard di sicurezza aggirati sistematicamente.
La multa potenziale fa tremare i conti: fino al 6% del fatturato globale, in base al Digital Services Act. E mentre Temu promette controlli più serrati e partnership con enti di certificazione, resta un interrogativo: può un’azienda che basa la sua crescita su acquisti compulsivi e vive di margini inesistenti permettersi il lusso della sicurezza e della privacy?
Perché anche qui i nodi non mancano: accesso a fotocamera, contatti, geolocalizzazione. Negli USA sono partite cause collettive, in Europa le autorità di controllo parlano di raccolta “invasiva”. Temu smette di essere una favola di sconti, perché non è più solo shopping online: è un banco di prova per i diritti dei consumatori e per la capacità dei governi di regolare i giganti digitali.
Amazon risponde: quando anche Bezos scende nell’arena
Per anni Amazon è stato il colosso intoccabile. Poi è arrivata Temu, e improvvisamente il gigante ha dovuto cambiare pelle. Nel 2025 ha lanciato Amazon Haul, una sezione interamente dedicata al low cost: prodotti no-brand, spediti direttamente dalla Cina, prezzi massimi di 20 dollari, consegne più lente ma con la garanzia del servizio clienti e dei resi sicuri.
È il segnale che Temu non è solo un concorrente, ma una minaccia esistenziale. Se convince milioni di utenti che il “buono abbastanza” a basso prezzo basta, Amazon rischia di perdere la sua aura premium, di negozio affidabile e di qualità. E allora eccola lì, pronta a copiare la formula. Non capita spesso che un gigante da mille miliardi di dollari scenda al livello del discount digitale. Ma stavolta Amazon non poteva ignorare la sfida.
I rischi futuri e la sostenibilità del modello
Il 29 agosto 2025 segna uno spartiacque: con la fine della regola de minimis negli Stati Uniti, anche i pacchi sotto gli 800 dollari dovranno pagare tasse e dazi. È come togliere a Temu la corsia preferenziale che le permetteva di correre a velocità doppia rispetto ai concorrenti. Se anche l’Europa seguirà, il miracolo dei prezzi shock rischia di dissolversi.
Poi ci sono le multe potenziali dell’UE, le pressioni sulla trasparenza dei dati, i dubbi sulla qualità. Ogni fattore può minare la fiducia degli utenti. Ma il vero tallone d’Achille è la finanza: Temu cresce a debito, bruciando miliardi in marketing e spedizioni sotto-costo. Finché gli investitori credono, la giostra gira. Ma basta un rallentamento per trasformare il fenomeno in un castello di carte.
Gli analisti prevedono il primo vero utile solo nel 2026, stimato in 775 milioni: una cifra che sembra enorme, ma che impallidisce davanti ai miliardi già bruciati. Oggi però Temu resta un’azienda che compra tempo a suon di perdite. E quando il tempo finisce, anche i miracoli commerciali si sgonfiano.
Cosa ci insegna Temu
Temu ha dimostrato che si può conquistare il mondo anche senza guadagnarci un centesimo, basta bruciare miliardi e spacciarlo per “shopping a prezzi da sogno”. Ha mostrato che pubblicità grezze possono battere gli spot patinati, e che i nostri clic valgono più dei prodotti che compriamo.
Ma ora il gioco cambia: senza dogane facili, senza spedizioni a margine negativo e con i regolatori europei che bussano alla porta, il modello traballa. Temu continuerà a crescere? Probabile. Diventerà profittevole? Questa è tutta un’altra storia.
La vera domanda è un’altra: vogliamo davvero che il futuro dell’e-commerce sia un casinò digitale dove il premio è un set di pennelli da trucco a tre euro? O preferiamo rimettere al centro la qualità, la sicurezza, la trasparenza?
Temu non è solo un fenomeno commerciale: è un test di resistenza per consumatori e regolatori. E ci riguarda tutti, perché ci mostra quanto siamo disposti a scambiare la nostra attenzione, i nostri dati e perfino le nostre scelte per l’illusione di “comprare come miliardari”.
P.S. Nelle guerre tra giganti a rimetterci rischiano i piccoli. La corsa a regolamentare l’e-commerce sta portando alla rimozione della de minimis: una misura pensata per agevolare i flussi minimi che, se eliminata senza correttivi, finisce per colpire artigiani, micro-importatori e consumatori con ordini più piccoli. Ne parleremo nel prossimo articolo: chi paga davvero il conto quando i colossi si scontrano?

