Ogni anno il mondo produce oltre 410 milioni di tonnellate di plastica (dato 2023 preliminare). Una montagna che cresce senza sosta e che, troppo spesso, finisce bruciata o dispersa. In mezzo a questo scenario, la pirolisi viene raccontata come una sorta di macchina del tempo capace di riportare indietro i rifiuti plastici, trasformandoli di nuovo in risorsa. Ma cos’è davvero? E soprattutto: quando possiamo parlare di riciclo e quando, invece, si tratta solo di recupero energetico?
La pirolisi è un trattamento termico in assenza di ossigeno. In pratica, la plastica viene scaldata a temperature elevate – di solito tra i 450 e i 600 gradi – in un ambiente privo d’aria, spesso saturato di azoto per evitare che il materiale prenda fuoco. Il calore spezza le lunghe catene molecolari della plastica, generando tre prodotti: un olio liquido, un gas che può essere riutilizzato per alimentare il processo e un residuo solido chiamato char.
Le quantità di olio che si ottengono non sono fisse. Con le poliolefine (polietilene PE, polipropilene PP) o con il polistirene (PS) si può arrivare al 60–80% di olio quando il processo è ben ottimizzato. Con altri polimeri, però, il discorso cambia. Il PET delle bottiglie tende a produrre oli meno pregiati e conviene trattarlo con depolimerizzazione. Il PVC, invece, è problematico: contiene cloro e, se pirolizzato senza trattamenti specifici, rilascia acido cloridrico.
L’olio di pirolisi è una miscela complessa di idrocarburi. Può essere ulteriormente lavorato per ottenere frazioni simili a benzina, nafta o diesel, oppure usato come materia prima per produrre nuova plastica. Ma definirlo “carburante pulito” è fuorviante: può contenere IPA e cloro, che richiedono un idrotrattamento per essere eliminati. Solo dopo questa fase alcune miscele raggiungono le specifiche europee per i carburanti, come la EN 590 per il diesel.
Qui entra in gioco la questione della circolarità. Se l’olio di pirolisi viene bruciato, stiamo parlando di recupero energetico. Perché possa essere considerato riciclo secondo gli standard europei, deve invece rientrare nel ciclo produttivo come materia prima per nuovi polimeri.
Sul fronte climatico, niente slogan facili: il bilancio dipende dal tipo di plastica trattata e dall’uso dell’olio. Gli studi del Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea (JRC) stimano riduzioni di emissioni variabili: da poche decine a qualche centinaio di chili di CO₂ per tonnellata con le plastiche miste, fino a tre tonnellate di CO₂ risparmiate per tonnellata di PET con depolimerizzazione.
E il char? Non è biochar agricolo: in Europa quel termine è riservato al materiale da biomassa vegetale. Il char della plastica trova invece impiego industriale, ad esempio come nero di carbonio.
In pratica, il successo della pirolisi dipende da alcuni fattori chiave: la selezione del materiale di partenza, la destinazione d’uso dell’olio e la qualità del prodotto finale. Se torna materia prima, chiude il cerchio; se finisce in un serbatoio, resta un combustibile fossile.
La pirolisi, quindi, non è una bacchetta magica, ma può essere un tassello serio della transizione se applicata dove ha senso: per la plastica non riciclabile meccanicamente, per ottenere olio di qualità sufficiente a tornare materia prima e per garantire benefici climatici misurabili. Chiamarla “plastica che diventa benzina” fa colpo, ma rischia di oscurare l’obiettivo: ridurre la produzione a monte, riciclare meccanicamente quando possibile e riservare il riciclo chimico ai casi in cui chiude davvero il cerchio.

