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Referendum abrogativi 8–9 giugno 2025: guida ai cinque quesiti su lavoro e cittadinanza

L’8 e 9 giugno 2025 gli italiani sono chiamati a votare su cinque referendum abrogativi, quattro in materia di lavoro e uno sulla cittadinanza . Si tratta di referendum che propongono l’eliminazione totale o parziale di norme vigenti, dunque sulle schede si potrà scegliere Sì (per abrogare la norma indicata) o No (per mantenerla) . Per la validità della consultazione è necessario il raggiungimento del quorum, ovvero che si esprima il voto almeno il 50% più uno degli aventi diritto . Questo rende l’esito incerto, dato che il tasso di astensione elettorale in Italia è molto alto e i partiti di maggioranza hanno invitato a disertare le urne. Di contro, le principali forze di opposizione (Partito Democratico, Movimento 5 Stelle ed altri) sostengono la partecipazione e il voto per il Sì a tutti i quesiti. I referendum sono promossi da comitati formati da sindacati e associazioni civiche: la CGIL (il maggiore sindacato italiano) ha raccolto milioni di firme per i quattro quesiti sul lavoro, mentre varie organizzazioni per i diritti civili (come Italiani Senza Cittadinanza e partiti tra cui +Europa) hanno promosso il quesito sulla cittadinanza.

Quesito 1 – Reintegro e Jobs Act: licenziamenti illegittimi nelle grandi aziende

Voto

Contesto normativo e sociale

Il primo quesito (scheda verde) riguarda il contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act nel 2015. In Italia, dal 1970 lo Statuto dei Lavoratori (articolo 18) prevedeva per le aziende con più di 15 dipendenti la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (ingiusto o senza giusta causa). Questa forte tutela è stata modificata una prima volta dalla riforma Fornero del 2012 (governo Monti), che limitò i casi di reintegro obbligatorio. Successivamente, il Jobs Act (decreto legislativo 23/2015, governo Renzi) ha escluso quasi del tutto la reintegrazione per i nuovi assunti dal 7 marzo 2015 in poi, sostituendola con un indennizzo economico predeterminato. In pratica, oggi un lavoratore assunto dopo il 2015 in un’azienda medio-grande, se licenziato ingiustamente, non ha in genere diritto a riottenere il posto ma soltanto a un risarcimento calibrato in base all’anzianità di servizio. Il quesito propone di abrogare il decreto del 2015, ripristinando l’obbligo di reintegro del dipendente in tutti i casi di licenziamento illegittimo – come valeva prima del Jobs Act – per i lavoratori delle imprese con oltre 15 addetti. Va precisato che la norma del 2015 è già stata parzialmente mitigata da interventi dei tribunali: la Corte Costituzionale e la Cassazione hanno dichiarato illegittime alcune parti del Jobs Act sui licenziamenti, ampliando il potere discrezionale dei giudici nel determinare il risarcimento. Tuttavia, la reintegra integrale non è stata reinserita, salvo casi particolari (licenziamenti nulli per discriminazione, ad esempio). Il contesto sociale vede da un lato i sindacati e lavoratori preoccupati per la precarietà e il potere di ricatto dei datori di lavoro, dall’altro le aziende che rivendicano l’esigenza di una maggiore flessibilità nell’organizzazione del personale. Il tema è simbolicamente legato ad articolo 18: una conquista storica del movimento operaio per molti, ma giudicata da altri come un freno alle assunzioni e alla competitività delle imprese.

Le ragioni del Sì

Secondo i promotori, eliminare il Jobs Act nella parte sui licenziamenti illegittimi significa rafforzare le tutele dei lavoratori e riequilibrare i rapporti di forza in azienda. Con il ritorno della reintegra, il lavoratore ingiustamente allontanato potrebbe riottenere il posto oppure negoziare da una posizione più forte un indennizzo più alto. Ciò renderebbe i dipendenti meno “ricattabili” – ad esempio sarebbero meno riluttanti a segnalare condizioni di lavoro insicure o a far valere i propri diritti, perché il datore non potrebbe liberarsi di loro con la semplice prospettiva di pagare un’indennità predeterminata . Inoltre, il Sì eliminerebbe la disparità di trattamento creatasi tra lavoratori: oggi circa 3,5 milioni di dipendenti assunti dopo il 2015 hanno garanzie inferiori rispetto ai loro colleghi più anziani . Per i sindacati, ripristinare regole uniformi per tutti aumenterebbe la giustizia e la coesione nel mondo del lavoro. Infine, i sostenitori del Sì contestano l’idea che più tutele dissuadano gli investimenti o l’occupazione: non c’è prova diretta che l’abolizione dell’articolo 18 abbia portato benefici occupazionali significativi, quindi tornare a maggior protezione non dovrebbe di per sé causare disastri economici.

Le ragioni del No

Chi si oppone (governo, partiti di centro-destra, associazioni datoriali) ritiene invece che mantenere l’attuale sistema sia importante per garantire flessibilità e certezza giuridica alle imprese. La possibilità di limitarsi a un risarcimento economico, senza obbligo di riassunzione, viene vista come un giusto compromesso: l’azienda che sbaglia paga, ma può comunque scegliere il personale più adatto senza il timore di essere costretta a riprendere un dipendente con cui magari il rapporto fiduciario è logorato. Gli oppositori del Sì sostengono che reintrodurre la reintegra generalizzata (come nel vecchio art.18) rischierebbe di scoraggiare le assunzioni, soprattutto dei giovani, perché le imprese sarebbero più caute nel mettere a tempo indeterminato nuovi lavoratori sapendo di poter poi avere difficoltà a licenziare in caso di necessità o comportamenti scorretti. Inoltre, ricordano che già oggi – dopo gli interventi della Consulta – il giudice può modulare l’indennizzo e arrivare a riconoscere fino a 36 mensilità di stipendio nei casi più gravi, quindi la tutela risarcitoria non è così “irrisoria” come inizialmente prevista dal Jobs Act. Dal loro punto di vista, tornare al regime pre-2015 significherebbe anche riportare indietro l’orologio su una riforma che intendeva modernizzare il mercato del lavoro italiano, rendendolo più simile a quello di altri Paesi europei. In sintesi, il fronte del No considera il quesito 1 una battaglia ideologica della sinistra e dei sindacati, potenzialmente dannosa per il sistema economico.

Implicazioni in caso di vittoria del Sì o del No

Se vincesse il Sì (con quorum raggiunto), la norma del Jobs Act verrebbe abrogata e si tornerebbe al quadro precedente per i licenziamenti nelle aziende sopra i 15 dipendenti. In concreto, tutti i lavoratori di queste imprese – indipendentemente dalla data di assunzione – riacquisterebbero la possibilità di essere reintegrati dal giudice in caso di licenziamento illegittimo. Ciò comporterebbe un generale aumento delle tutele occupazionali nei grandi stabilimenti, con potenziali effetti positivi sulla stabilità del lavoro: i datori di lavoro sarebbero più incentivati a rispettare le procedure e ad evitare licenziamenti arbitrari, sapendo di poter essere costretti a riprendere il dipendente. Dal punto di vista politico, un’affermazione del Sì sarebbe letta come una vittoria dei sindacati e dell’opposizione, nonché un segnale di sfiducia popolare verso le politiche sul lavoro del governo in carica. Potrebbe dare slancio a ulteriori iniziative per espandere i diritti dei lavoratori e metterebbe pressione sul governo Meloni, forse costringendolo ad aprire un dialogo con le parti sociali su nuovi interventi legislativi in materia di lavoro.

Se invece prevalesse il No (o se il quorum non fosse raggiunto, annullando il risultato), lo status quo rimarrebbe invariato: i licenziamenti senza giusta causa nelle grandi aziende continuerebbero a comportare normalmente solo un indennizzo economico. In tal caso il governo e le associazioni imprenditoriali rivendicherebbero la tenuta della riforma Jobs Act, interpretando il mancato cambiamento come un sostegno implicito alla loro linea di flessibilità del lavoro. D’altro canto, i promotori del referendum vedrebbero sfumare un obiettivo importante: sarebbe una sconfitta per la CGIL e per la nuova segretaria del PD Elly Schlein (che si è spesa per i Sì), potenzialmente demoralizzando il fronte progressista. Su un piano sociale, i lavoratori assunti post-2015 continuerebbero ad avere meno garanzie rispetto ai colleghi anziani, il che potrebbe mantenere vivo il malcontento e la richiesta di future riforme.
Infine, un’astensione elevata o una vittoria del No alimenterebbero la riflessione sullo strumento referendario stesso: visto che molti referendum abrogativi recenti in Italia non raggiungono il quorum, un nuovo fallimento potrebbe essere letto come disaffezione verso il voto o come successo della strategia astensionista. In pratica, l’astensione finisce per aiutare il No: sommando i voti contrari e i non voti, si crea un blocco eterogeneo che, pur per ragioni diverse (opposizione consapevole o disinteresse), impedisce il raggiungimento del quorum e quindi l’abrogazione.
In pratica, il mancato cambiamento sancirebbe la sconfitta del referendum e rafforzerebbe momentaneamente lo status quo, ma non spegnerebbe del tutto il dibattito sulla tutela contro i licenziamenti illegittimi, che potrebbe riproporsi in altre forme (iniziative legislative, contrattazione collettiva, ecc.).

 

Quesito 2 – Indennità di licenziamento nelle piccole imprese: rimuovere il tetto massimo?

Referendum quesito 1

Contesto normativo e sociale

Il secondo quesito (scheda arancione) riguarda le tutele per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, cioè con meno di 15 dipendenti. In queste aziende lo Statuto dei Lavoratori non ha mai previsto la reintegrazione obbligatoria; fin dal 1966 la legge n.604 stabilisce che, se un licenziamento individuale è riconosciuto illegittimo, al lavoratore spetta un risarcimento monetario invece della riassunzione. Tale indennità tuttavia è limitata: la norma (aggiornata nel 1990) fissa un minimo di 2,5 mensilità e un massimo di 6 mensilità di stipendio come risarcimento. Questo tetto di sei mesi costituisce la tutela risarcitoria definitiva per chi lavora in aziende molto piccole. La riforma Jobs Act del 2015, pur intervenendo su molti aspetti dei contratti, non ha modificato tale regime per le PMI, per cui oggi rimane in vigore questo plafond risalente agli anni ‘60–‘90. La CGIL e gli altri promotori considerano insufficiente e iniqua questa protezione: a loro avviso, sapere che il datore di lavoro al massimo dovrà pagare sei mesi di stipendio rende i dipendenti delle piccole imprese più facilmente licenziabili e in una condizione di “forte soggezione” verso il titolare. Di contro, le associazioni di categoria delle PMI sottolineano che le piccole aziende hanno fragilità economiche maggiori e un rapporto più diretto con i dipendenti, per cui un limite ai risarcimenti era pensato per evitare che un contenzioso potesse addirittura mettere in ginocchio l’attività. In termini sociali, il quesito tocca circa 3,7 milioni di lavoratori (tanti sono i dipendenti nelle imprese sotto i 15 addetti, secondo la CGIL), spesso impiegati in settori artigianali, commercio e servizi di piccola scala.

Le ragioni del Sì

Il comitato promotore propone di abolire il massimale di 6 mensilità per i risarcimenti, cancellando le parole della legge che lo fissano. In tal modo, in caso di licenziamento illegittimo in una piccola impresa, il giudice del lavoro avrebbe libertà di stabilire un’indennità adeguata al caso concreto, senza un tetto predefinito. I sostenitori del Sì ritengono che questa misura innalzerebbe le tutele dei dipendenti delle PMI e renderebbe la sanzione per il datore proporzionata al danno: ad esempio, in situazioni molto gravi o di evidente malafede, il giudice potrebbe assegnare un indennizzo ben superiore a 6 mesi, che oggi invece costituiscono il massimo anche se il lavoratore perde anni di stipendio. Ciò avrebbe anche un effetto deterrente: eliminando la “tariffa fissa” relativamente bassa, il datore sarebbe meno incentivato a licenziare senza motivo, sapendo che potrebbe dover pagare molto di più. La maggiore equità di trattamento tra lavoratori di piccole e grandi aziende è un altro argomento: attualmente un dipendente di una micro-impresa ingiustamente licenziato riceve al massimo 6 mensilità, mentre in una grande azienda un collega può ottenere ben di più (fino a 36 mensilità circa dopo gli ultimi interventi). Eliminare il tetto renderebbe meno marcata questa disparità di giustizia. In sintesi, per il fronte del Sì si darebbe più dignità e sicurezza a milioni di lavoratori oggi considerati di “serie B” quanto a diritti, senza introdurre la reintegra (che nelle piccole imprese non è in discussione), ma solo rendendo più sostanzioso il loro indennizzo.

Le ragioni del No

I contrari al quesito numero 2 evidenziano invece i rischi di incertezza e onerosità eccessiva per le piccole imprese. Togliere qualunque limite potrebbe portare, in alcuni casi, a indennizzi molto elevati decisi dal giudice – potenzialmente più alti di quelli dovuti nelle grandi aziende – e questo, secondo loro, sarebbe iniquo e insostenibile per una realtà con magari 5 o 10 dipendenti. Ad esempio, oggi una grande azienda che licenzia senza giusta causa rischia fino a 24–36 mensilità di indennità, ma ha spalle più larghe; una piccola impresa rischierebbe, senza tetto, magari 12 o 24 mesi di risarcimento, che potrebbero equivalere a mandarla in rosso. La conseguenza temuta è che le PMI diventino riluttanti ad assumere: sapendo di non poter prevedere il costo di un eventuale licenziamento illegittimo, un piccolo imprenditore potrebbe preferire contratti precari, esternalizzazioni o evitare di ampliare l’organico per non esporsi a cause costose. Inoltre, il tetto vigente da decenni aveva una sua ratio: tutelare sì il lavoratore, ma anche non punire in modo troppo gravoso il datore di lavoro di piccole dimensioni, per il quale un errore può avere effetti economici sproporzionati. Rimuovere questo bilanciamento rischia di penalizzare le micro-aziende, che sono ossatura importante del tessuto produttivo italiano. Alcuni critici notano anche che la norma attuale potrebbe essere aggiornata aumentando magari il tetto (fermo a 6 mensilità dal 1966) invece di eliminarlo del tutto; ma un referendum abrogativo, per sua natura, può solo cancellare la previsione esistente, lasciando poi un vuoto normativo da colmare.

Implicazioni in caso di vittoria del Sì o del No

Con la vittoria del Sì, dal giorno successivo al referendum cadrebbe il limite alle indennità: in ogni causa di licenziamento illegittimo nelle aziende sotto i 15 dipendenti, il giudice potrebbe decidere il risarcimento senza alcun tetto predefinito. Questo significa che lavoratrici e lavoratori delle piccole imprese avrebbero la prospettiva di un indennizzo più congruo in relazione al danno subito. Sul piano sociale, si rafforzerebbe la posizione dei dipendenti nelle controversie di lavoro: la possibilità di ottenere più di 6 mensilità li renderebbe meno vulnerabili a licenziamenti arbitrari (il datore rischierebbe di pagare molto di più). È possibile che le aziende piccole, per prudenza, investano di più nella prevenzione dei contenziosi (ad esempio formalizzando meglio le procedure disciplinari, cercando accordi bonari) oppure, al contrario, che diventino più selettive nelle assunzioni. Politicamente, un esito favorevole sarebbe un successo per la CGIL e il fronte progressista, che vedrebbero riconosciuta la loro tesi della necessità di maggiori tutele “anche nei piccoli”. Potrebbe indurre il legislatore a rivedere complessivamente la normativa sui licenziamenti nelle PMI, magari introducendo nuovi criteri per quantificare i danni.

Se invece prevalesse il No o il referendum fallisse, resterebbe in vigore il regime attuale: risarcimento limitato a 6 mensilità al massimo. In tal caso, le piccole imprese tirerebbero un sospiro di sollievo, sapendo di poter far fronte a eventuali condanne senza rischiare esborsi illimitati. I lavoratori di queste aziende, però, rimarrebbero con una tutela ridotta rispetto ai colleghi di ditte più grandi. Questo esito verrebbe rivendicato dalle associazioni di categoria (come Confartigianato, Confcommercio, etc.) e dal governo come conferma che “non era il caso di penalizzare le PMI”: un segnale politico a favore della stabilità normativa e contro quella che avrebbero dipinto come un’iniziativa sindacale radicale. D’altro canto, il tema delle tutele nei licenziamenti potrebbe riproporsi in futuro – magari con proposte di legge per aggiornare le indennità minime e massime – visto che anche alcuni commentatori moderati riconoscono che sei mensilità sono ferme a parametri di molti decenni fa. In termini di clima sociale, un esito negativo del referendum potrebbe lasciare strascichi di delusione nel mondo del lavoro: i sindacati potrebbero intensificare la contrattazione collettiva per ottenere garanzie integrative nelle PMI, oppure spingere per altri strumenti di tutela (come assicurazioni contro la disoccupazione più generose). Complessivamente, la mancata abrogazione manterrebbe una differenza di diritti tra lavoratori a seconda della dimensione aziendale, questione che resta sensibile nel dibattito italiano sui diritti del lavoro.

Quesito 3 – Contratti a termine: causale obbligatoria e lotta al precariato

Quesito 3

Contesto normativo e sociale

Il terzo quesito (scheda grigia) si concentra sulla disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato e, in particolare, sull’obbligo di indicarne la motivazione (causale). Negli ultimi anni l’Italia ha alternato fasi di liberalizzazione e restrizione di questi contratti. Attualmente, grazie a norme del 2015 ancora in vigore, un’azienda può assumere a termine senza dover dichiarare una causale per contratti di durata fino a 12 mesi. Ciò significa che per il primo anno di un rapporto temporaneo non è richiesta una giustificazione specifica sul perché il contratto è a termine (ad esempio esigenze stagionali, sostituzione di personale assente, picco di attività, ecc.). Invece, se il contratto supera i 12 mesi o viene rinnovato oltre tale soglia, la legge attuale richiede di indicare una causale valida (come previsto dal cosiddetto Decreto Dignità del 2018, che ha parzialmente irrigidito le regole introdotte nel 2015). La ratio dell’obbligo di causale è evitare che il contratto a termine diventi la norma in assenza di ragioni temporanee oggettive, dato che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato è considerato la forma comune e preferibile (offrendo maggior stabilità e richiedendo un motivo per l’eventuale licenziamento). Nonostante questi limiti, il precariato rimane diffuso: molti giovani entrano nel mondo del lavoro attraverso una serie di contratti brevi, spesso senza prospettiva di stabilizzazione. Il quesito referendario punta proprio a limitare l’abuso dei contratti a termine, abrogando le norme che oggi consentono di evitare la causale per il primo anno. In pratica, se vincesse il Sì, il datore di lavoro dovrebbe sempre specificare un motivo conforme alla legge per assumere a tempo determinato, indipendentemente dalla durata iniziale del contratto. Questo ripristinerebbe un vincolo che esisteva in passato (in certe fasi era richiesta subito una giustificazione) e che i datori di lavoro hanno spesso criticato come burocratico. Il contesto sociale vede contrapposti, anche qui, due punti di vista: da un lato chi denuncia la “giungla dei contratti precari” in cui i lavoratori vivono nell’incertezza costante, dall’altro chi teme che regole troppo stringenti finiscano per ridurre ulteriormente le opportunità di lavoro, specialmente per i giovani e in settori con reale necessità di flessibilità.

Le ragioni del Sì

I sostenitori del Sì (sindacati, partiti di sinistra) affermano che obbligare a indicare la causale fin dall’inizio renderebbe il contratto a termine uno strumento da utilizzare solo quando davvero necessario. L’obiettivo dichiarato è ridurre il precariato, togliendo alle imprese la possibilità di assumere a termine “per prova” o per generica comodità senza impegnarsi in un contratto stabile. Con la causale sempre obbligatoria, un datore di lavoro che voglia offrire un contratto breve dovrà dichiarare una ragione precisa tra quelle ammesse (ad es. sostituzione di un dipendente in maternità, picco di produzione, progetto a termine) e rispettare i limiti previsti dai contratti collettivi. Ciò dovrebbe scoraggiare l’uso disinvolto di contratti a termine per posizioni lavorative che in realtà coprono esigenze permanenti. Secondo il comitato promotore, questa modifica aiuterebbe a riportare il tempo indeterminato al centro: le imprese, non potendo più evitare le causali, potrebbero preferire assumere direttamente a tempo stabile per ruoli continuativi, riservando i contratti brevi solo ai casi temporanei genuini. I lavoratori, dal canto loro, beneficerebbero di maggiore sicurezza: meno contratti “usa e getta” e più possibilità di essere assunti in modo stabile o comunque di avere chiarezza sul perché il contratto è a scadenza. Inoltre, argomentano i pro-Sì, l’Italia si riallineerebbe a una pratica di molti Paesi europei dove il ricorso ai contratti temporanei è giustificato da motivi specifici, contribuendo a combattere la precarietà cronica che affligge soprattutto le giovani generazioni.

Le ragioni del No

I critici del quesito 3 avvertono che eliminare la flessibilità del primo contratto senza causale potrebbe avere effetti negativi sull’occupazione. Oggi molte aziende offrono un contratto a tempo determinato breve per testare un nuovo assunto o per gestire esigenze immediate non certe nel lungo periodo; se dovessero fin da subito formalizzare una causale, alcune potrebbero rinunciare ad assumere, non avendo la sicurezza per dichiarare che dopo 6 o 12 mesi ci sarà ancora bisogno di quel lavoratore. In altre parole, il rischio è di irrigidire troppo il mercato del lavoro: per evitare vincoli, le imprese potrebbero ricorrere ad alternative meno tutelate (lavoro intermittente, partite IVA fittizie, appalti esterni) oppure semplicemente fare meno contratti a termine e quindi meno assunzioni complessive. Un altro argomento del fronte del No è l’aumento della burocrazia e del contenzioso: introdurre la causale in ogni caso significa che giudici e avvocati dovranno valutare la fondatezza di ogni motivo addotto, con possibili cause legali se il lavoratore sostiene che la causale era pretestuosa. Questo potrebbe intasare i tribunali del lavoro e creare incertezza tanto per il lavoratore (che nel frattempo resta precario) quanto per il datore (che teme cause). Gli oppositori sottolineano anche che il Decreto Dignità del 2018 ha già ristretto la durata massima dei contratti a termine e introdotto le causali per i rinnovi, quindi un equilibrio tra flessibilità e diritti è già stato in parte ripristinato rispetto alla liberalizzazione totale del 2015. Andare oltre, a loro dire, significherebbe tornare alla situazione precedente al 2014, quando la forte regolamentazione non aveva comunque risolto il problema della precarietà ma anzi in certi casi aveva spinto le aziende a non assumere affatto o a utilizzare stage e finte collaborazioni. Il No sostiene dunque che per combattere la precarietà servono incentivi e controlli, non divieti rigidi che potrebbero ridurre le occasioni per chi cerca lavoro.

Implicazioni in caso di vittoria del Sì o del No

Implicazioni in caso di vittoria del Sì o del No

Un successo del Sì comporterebbe che, una volta abrogate le norme attuali, per qualsiasi contratto a termine sarebbe necessario indicare subito una causale. Le imprese dovrebbero adeguarsi preparando motivazioni dettagliate per le assunzioni temporanee, il che inizialmente potrebbe creare qualche difficoltà organizzativa. Nel medio periodo, però, lo scenario potrebbe evolvere in diversi modi: alcune aziende potrebbero ridurre il numero di contratti brevi, riservandoli ai soli casi davvero temporanei, e magari stabilizzare più persone con contratti a tempo indeterminato per evitare la trafila delle causali; altre potrebbero trovare canali alternativi per flessibilizzare il lavoro (ad esempio ricorso più frequente ad agenzie interinali, consulenze esterne, ecc.). Dal punto di vista dei lavoratori, una vittoria del Sì manderebbe un messaggio importante contro la precarietà dilagante: lo Stato prenderebbe posizione a favore del lavoro stabile, e questo potrebbe influenzare anche le future politiche occupazionali (incentivi alle assunzioni stabili, contrasto alle forme di lavoro atipico). Politicamente, sarebbe un colpo alle politiche liberalizzatrici del passato decennio: il governo in carica (contrario ai referendum) subirebbe una pressione per adottare misure volte a tutelare maggiormente i giovani precari, e le opposizioni capitalizzerebbero il consenso su un tema popolare tra i lavoratori.

Se invece prevalesse il No (o l’affluenza risultasse insufficiente), le norme esistenti rimarrebbero in vigore: le aziende potrebbero continuare a stipulare contratti a termine fino a 12 mesi senza causale, e solo oltre tale soglia sarebbero obbligate a motivare il rinnovo. In questo scenario, i lavoratori precari – soprattutto giovani – resterebbero esposti a cicli di impiego breve e discontinuità, alimentando una condizione di instabilità strutturale. I sindacati temono che ciò perpetui un modello iniquo, e un fallimento del referendum li spingerebbe forse a intensificare altre battaglie su questo fronte (ad esempio chiedere di limitare il numero complessivo di contratti a termine attivabili, aumentare i contributi aggiuntivi a carico delle aziende per i contratti precari – il cosiddetto “ticket sui contratti a termine” – o sostenere proposte di legge in Parlamento per ridurre la durata massima dei rapporti a termine). Da un punto di vista politico, un esito negativo verrebbe rivendicato dalla maggioranza di centrodestra come prova che non c’è consenso verso posizioni troppo rigide sul lavoro, il che potrebbe spingerla ad evitare interventi restrittivi in futuro.

Tuttavia, la questione della precarietà resterebbe centrale nel dibattito pubblico, anche alla luce dei dati sull’alto tasso di contratti a termine in Italia e sulla fuga dei giovani talenti. Il mancato cambiamento tramite referendum rafforzerebbe lo status quo normativo, ma non metterebbe a tacere la domanda sociale di maggiore sicurezza lavorativa.

Quesito 4 – Sicurezza sul lavoro: responsabilità solidale negli appalti

Quesito 4

Contesto normativo e sociale

Il quarto quesito (scheda rosa) tocca il tema della sicurezza sul lavoro nelle attività in appalto. In Italia, la legge prevede in generale che il committente (l’azienda che affida un lavoro in appalto a terzi) e l’appaltatore (chi esegue il lavoro, eventualmente con subappaltatori) siano entrambi responsabili in solido per vari obblighi verso i lavoratori, inclusi i salari non pagati e i risarcimenti per infortuni non coperti dall’INAIL. Esiste però un’importante eccezione introdotta nell’art.26 del Testo Unico Sicurezza (d.lgs. 81/2008, comma modificato da leggi successive fino alla n.215/2021): se l’infortunio è dovuto a rischi specifici propri dell’attività dell’appaltatore o subappaltatore, il committente non ne risponde. In altre parole, la responsabilità solidale del committente viene esclusa quando l’incidente è inerente al tipo di lavoro svolto dall’impresa appaltatrice e non attiene all’attività del committente. Per fare un esempio pratico: se una ditta di abbigliamento appalta dei lavori edili per ristrutturare un proprio negozio, e un operaio edile si infortuna usando un macchinario, attualmente la ditta di abbigliamento (committente) non è considerata corresponsabile di quell’infortunio, perché rientra nei rischi specifici dell’attività edile dell’appaltatore. Questa clausola nasce dall’idea che il cliente non possa essere esperto di ogni mestiere e che l’appaltatore debba rispondere dei rischi tipici del proprio lavoro. Tuttavia, i sindacati e i sostenitori del referendum ritengono che tale eccezione indebolisca la tutela dei lavoratori: in molti casi pratici, infatti, è difficile delimitare cosa sia “rischio specifico” e l’effetto è che il committente viene sollevato da responsabilità, lasciando il lavoratore a rivalersi solo sull’appaltatore (che a volte è un’azienda piccola o perfino una ditta fittizia). Purtroppo non sono rari i casi di appalti dove, dopo un grave incidente, l’appaltatore risulta insolvente o scompare, e le famiglie delle vittime restano senza adeguati risarcimenti. Il dibattito si inserisce in un contesto più ampio di allarme sociale: in Italia si registrano ancora molti infortuni mortali sul lavoro, e uno dei fronti di intervento invocati è il rafforzamento delle responsabilità di tutte le imprese coinvolte nella filiera produttiva, per evitare scaricabarile.

Le ragioni del Sì

Il quesito 4 chiede di abrogare la norma che esclude la corresponsabilità del committente per i rischi specifici dell’appaltatore, eliminando dunque quel “pezzo” dell’articolo di legge che oggi solleva il cliente in quei casi. I fautori del Sì sostengono che così facendo si instaurerebbe una responsabilità solidale universale: ogni azienda che affida un lavoro in appalto rimarrebbe corresponsabile di qualunque infortunio accada ai lavoratori della ditta appaltatrice, senza zone franche. Il vantaggio, dal loro punto di vista, sarebbe duplice. Primo, si garantisce al lavoratore infortunato (o ai suoi familiari) un ventaglio più ampio di soggetti da cui ottenere giustizia e risarcimento: non solo l’appaltatore diretto, ma anche il committente, tipicamente più grande e solido economicamente, sul quale rivalersi se l’appaltatore non paga. Secondo, si darebbe una spinta a una maggiore vigilanza da parte dei committenti sulle condizioni di sicurezza: sapendo di poter essere chiamata in causa, l’azienda appaltante avrebbe tutto l’interesse a scegliere con cura ditte affidabili e a monitorare il rispetto delle norme di sicurezza nei cantieri o luoghi dove operano i subappaltatori. In questo senso, il Sì lo si può vedere come un incentivo a migliorare la prevenzione degli infortuni: verrebbe “scoraggiato il ricorso a imprese con lavoratori in nero o poco professionali”, perché il committente non potrebbe più lavarsene le mani. I sostenitori sottolineano che non si introduce alcuna “colpa automatica” a carico del committente, ma semplicemente la possibilità di chiamarlo in causa in sede civile come corresponsabile, lasciando al giudice di valutare caso per caso la ripartizione della responsabilità. Il messaggio del Sì è che la vita e la salute dei lavoratori devono venire prima di tutto, e tutte le imprese coinvolte nei processi produttivi devono risponderne insieme.

Le ragioni del No

Chi è contrario al referendum sulla sicurezza nei contratti d’appalto ritiene che la normativa attuale – pur perfettibile – mantenga un equilibrio ragionevole e che eliminarla rischierebbe di creare più problemi di quanti ne risolva. L’obiezione principale è che chiamare il committente a rispondere di rischi specifici di attività estranee al suo core business sia iniquo: un’azienda che appalta un servizio specializzato (es. lavori elettrici, costruzioni, pulizie industriali) non possiede le competenze tecniche per valutare e prevenire al 100% gli incidenti tipici di quel mestiere. Imputarle responsabilità piene significherebbe pretendere dal committente una sorta di “onniscienza” e controllo totale sull’attività altrui, cosa ritenuta irrealistica e vessatoria. Inoltre, i critici del Sì avvertono che questa misura potrebbe avere un effetto paralizzante sul sistema degli appalti: molte aziende, soprattutto di medie dimensioni, potrebbero decidere di non esternalizzare più alcune lavorazioni per non rischiare grane legali, oppure di farlo solo a ditte di grande affidabilità (magari più costose), tagliando fuori tante piccole imprese subappaltatrici. In settori come l’edilizia, ad esempio, il committente potrebbe limitare il ricorso ad artigiani o ditte minori, con impatto negativo su queste ultime. Il fronte del No sostiene che per migliorare la sicurezza servono più controlli e formazione, non solo più responsabilità a posteriori: la legge attuale già prevede che il committente si occupi di coordinare la sicurezza con l’appaltatore e valuti i Piani di Sicurezza (DUVRI), e se lo fa correttamente non dovrebbe temere di rispondere di eventi fuori dal suo controllo. L’abolizione dell’esenzione sui “rischi specifici” viene vista insomma come un onere eccessivo, che rischia di tradursi in duplice punizione per le aziende committenti: dovrebbero investire risorse per controllare lavori di cui non sono esperte e comunque potrebbero essere portate in tribunale anche se hanno rispettato tutte le procedure, solo perché il fatto è avvenuto. Infine, alcuni fanno notare che in caso di colpa grave del committente, i giudici già oggi trovano il modo di chiamarlo in causa, dunque il referendum sarebbe una risposta ridondante che però getta nell’incertezza tutte le imprese.

Implicazioni in caso di vittoria del Sì o del No

Se dovesse vincere il Sì, dal punto di vista normativo verrebbe eliminata l’attuale esenzione: il committente sarebbe sempre, in linea di principio, corresponsabile insieme all’appaltatore per gli infortuni occorsi nei lavori dati in appalto. In caso di incidente, quindi, il lavoratore (o i familiari) potrebbero citare in giudizio anche l’azienda committente per ottenere i danni. Ciò provocherebbe sicuramente una maggiore attenzione alla sicurezza da parte di tutti gli attori: le imprese appaltatrici sarebbero comunque le responsabili principali, ma i committenti avrebbero l’incentivo ulteriore a verificare che le ditte a cui si affidano rispettino rigorosamente le norme antinfortunistiche. Potremmo attenderci, ad esempio, che le grandi aziende introducano controlli più stringenti sui cantieri dei subappaltatori, richiedano certificazioni di qualità e formazione del personale, o inseriscano clausole contrattuali che penalizzano gli appaltatori in caso di violazioni. L’effetto auspicato dai promotori è una riduzione degli infortuni sul lavoro, specie nei cantieri complessi, grazie a questa responsabilizzazione collettiva. In settori come l’edilizia, c’è chi prevede un impatto significativo: le imprese general contractor (affidatarie principali) potrebbero ridurre il numero di subappalti a cascata e preferire partner affidabili, cambiando un po’ la struttura del mercato. Politicamente, una vittoria del Sì sarebbe percepita come un forte segnale di sensibilità sociale degli elettori sul tema delle morti sul lavoro. Il governo, che si era schierato per l’astensione, si troverebbe a dover rafforzare le politiche di sicurezza: potrebbe aumentare gli ispettori del lavoro, irrigidire le sanzioni o lanciare iniziative con le parti sociali per non apparire “dalla parte che minimizza” su un tema dove il popolo ha mostrato severità.

Se invece prevalesse il No (o il quorum non venisse raggiunto), resterebbe in vigore la situazione attuale: in caso di infortunio continuerà a valere l’esclusione di responsabilità per il committente quando l’evento è dovuto a rischi specifici dell’appaltatore. Ciò verrebbe accolto con sollievo dalle imprese, specialmente da quelle che fanno largo uso di appalti, e dalle organizzazioni imprenditoriali (Confindustria, CNA, ecc.), che hanno giudicato il referendum pericoloso per l’economia. Dal loro punto di vista, l’esito conservativo confermerebbe la necessità di non appesantire ulteriormente la normativa sulla sicurezza, ma piuttosto di far rispettare quelle esistenti. Il governo Meloni, da sempre molto vicino alle istanze delle imprese su questi temi, capitalizzerebbe il mancato cambiamento come un proprio successo tattico e probabilmente eviterà modifiche legislative per non riaprire la polemica.

I sindacati, incassato un eventuale No, potrebbero però rilanciare la battaglia su altri piani: cercando accordi contrattuali con le grandi aziende per introdurre clausole di tutela nei bandi di appalto (come obblighi di assicurazione o standard formativi), oppure facendo pressione sul Parlamento per norme più mirate. La sicurezza sul lavoro resterebbe comunque al centro del dibattito: ogni tragedia in appalto continuerebbe a sollevare interrogativi sull’efficacia della normativa e sull’opportunità mancata di una maggiore prevenzione.

Quesito 5 – Cittadinanza italiana: ridurre da 10 a 5 anni la residenza necessaria

Quesito 5

Contesto normativo e sociale

Il quinto quesito (scheda gialla) riguarda le regole per ottenere la cittadinanza italiana per gli stranieri. Attualmente, la legge n.91/1992 prevede che uno straniero non appartenente all’Unione Europea, una volta divenuto maggiorenne, possa richiedere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo 10 anni di residenza legale continuativa in Italia (per i cittadini UE il requisito è 4 anni, per i rifugiati e apolidi 5 anni, ma il referendum si focalizza sul caso generale dei non comunitari). La proposta referendaria è di abrogare la parte della legge che fissa in dieci anni tale periodo, portandolo a 5 anni, cioè dimezzandolo. In pratica, se il Sì passa, gli stranieri extracomunitari dopo 5 anni di residenza regolare potrebbero fare domanda di cittadinanza. Tutti gli altri requisiti attuali rimarranno invariati: ad esempio occorre comunque non avere precedenti penali rilevanti e dimostrare una conoscenza adeguata della lingua italiana (livello B1), introdotta per legge nel 2018, così come restano il requisito di un reddito minimo e il giuramento alla Repubblica. Il contesto sociale di questo quesito è quello dell’integrazione degli immigrati di prima e seconda generazione. L’Italia, pur non avendo ius soli (diritto alla cittadinanza per nascita sul territorio) se non in casi molto limitati, ospita da decenni comunità straniere stabili: oltre 5 milioni di residenti stranieri risiedono nel Paese, e tra questi più di 1 milione sono minori o giovani nati o cresciuti in Italia senza esserne cittadini. Spesso ci si riferisce a loro come “italiani di fatto”: persone che parlano italiano, studiano e lavorano fianco a fianco con gli italiani, e “di fatto” fanno parte del tessuto nazionale, ma per la legge sono ancora stranieri, con diritti civili limitati (niente diritto di voto, ad esempio). Negli ultimi anni c’è stato un acceso dibattito su riforme come lo ius culturae o ius scholae (cittadinanza ai ragazzi che completano un ciclo di studi in Italia) , ma le iniziative parlamentari in tal senso non sono andate in porto, anche a causa dell’opposizione del centro-destra. Il referendum nasce per volontà di un fronte politico e civico progressista – Radicali, +Europa, associazioni come Italiani Senza Cittadinanza – con l’intento di almeno ridurre l’attesa per la naturalizzazione degli adulti, ritenendo i 10 anni attuali un periodo eccessivo e penalizzante.

Le ragioni del Sì

Chi promuove il Sì al quesito sulla cittadinanza sostiene che 10 anni sono troppi e non più adeguati alla realtà odierna. Dopo 5 anni di residenza regolare, argomentano, uno straniero ha avuto il tempo di integrarsi ampiamente: lavora e paga le tasse, spesso ha famiglia e figli nati in Italia, parla la lingua e partecipa alla vita della comunità. Non c’è motivo di tenerlo per altri cinque anni in una condizione di “seconda classe”, privo di diritti politici e di quel senso di appartenenza formale che la cittadinanza conferisce . Riducendo a 5 anni, si accelera l’integrazione: i nuovi italiani potranno votare, sentirsi pienamente parte attiva del Paese e questo rafforzerà la coesione sociale. I sostenitori notano che in molti Paesi europei il requisito di residenza per la naturalizzazione è inferiore a 10 anni – ad esempio in Francia sono 5 anni, in Germania 8 anni (che possono diventare 7 o 6 in casi particolari), in Spagna 10 anni ma 5 per rifugiati e 2 per cittadini latinoamericani, ecc. – quindi l’Italia con 10 anni è tra le più restrittive. Un dimezzamento porterebbe la normativa italiana in linea con standard più aperti e moderni nel contesto UE. Un altro elemento a favore è che la misura aiuterebbe in particolare tanti giovani cresciuti in Italia: attualmente, se un ragazzo straniero arriva in Italia da bambino o adolescente, magari a 10 anni, dovrà aspettare i 20 anni compiuti per averne 10 di residenza regolare e chiedere la cittadinanza; con 5 anni, a 15 anni di età sarebbe già eleggibile (anche se potrà formalmente giurare solo a 18 anni, l’iter potrebbe avviarsi prima). Ciò ridurrebbe quel periodo in cui molti “giovani italiani senza cittadinanza” vivono un paradosso: sono considerati italiani da chi li conosce, ma non dal punto di vista legale e burocratico, con tutte le frustrazioni che ne derivano. Sul piano economico e demografico, infine, il Sì viene visto come un’opportunità: l’Italia ha bisogno di nuova linfa giovane a causa del calo delle nascite, e facilitare la cittadinanza può attrarre immigrati qualificati e incentivare chi già è qui a restare e contribuire a lungo termine, sentendosi a casa propria.

Le ragioni del No

Il fronte del No (in cui si riconoscono i partiti di centrodestra al governo: Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia) sostiene che la cittadinanza non è un atto burocratico ma un passo fondamentale che va concesso con prudenza. A loro avviso, 10 anni di residenza non sono un’esagerazione, ma anzi un giusto lasso di tempo per valutare l’effettiva volontà di integrarsi di una persona e il suo attaccamento ai valori nazionali. Ridurre a 5 anni viene descritto come “regalare passaporti” con troppa facilità. La destra ha spesso collegato questa proposta alle battaglie sullo ius soli, evocando lo spettro di un’Italia dove “arriva chiunque e diventa cittadino” – timore infondato per i promotori, ma che ha presa su una parte dell’elettorato conservatore. Gli oppositori fanno leva anche su considerazioni di sicurezza e identità: dicono che servono controlli lunghi per essere sicuri che chi chiede la cittadinanza non abbia pendenze o legami pericolosi (terrorismo, criminalità) e per verificare che abbia davvero assimilato la cultura e le regole italiane. Un argomento tecnico sollevato dal No è che la riduzione del termine da sola non risolve tutti i problemi: ad esempio, restano lunghe le procedure burocratiche (oggi un decreto di cittadinanza può richiedere 2-3 anni di istruttoria amministrativa) e permane il requisito di reddito minimo, per cui qualcuno con 5 anni di residenza ma lavoro precario potrebbe comunque non ottenere la cittadinanza. Secondo chi è contrario, affrettare i tempi non equivale a migliorare l’integrazione, che invece andrebbe perseguita attraverso la scuola, il lavoro e l’adesione ai valori costituzionali; la cittadinanza dovrebbe coronare questo percorso, non anticiparlo.

Implicazioni in caso di vittoria del Sì o del No

Se dovesse passare il Sì, il requisito di residenza legale per la cittadinanza italiana scenderebbe formalmente a 5 anni, tornando a quanto previsto prima della legge del 1992 (la legislazione precedente fissava infatti cinque anni per gli stranieri residenti). Molte persone sarebbero immediatamente coinvolte: tutti gli immigrati non comunitari che già oggi risiedono da almeno 5 anni ma da meno di 10 – un numero considerevole stimato in diverse centinaia di migliaia – potrebbero presentare la domanda senza attendere oltre. Secondo alcune stime, oltre un milione di giovani e adulti “italiani di fatto” vedrebbero dimezzato il tempo per diventare cittadini. L’impatto pratico sarebbe graduale (poiché la concessione richiede comunque tempo e verifiche), ma nel giro di pochi anni l’Italia potrebbe aumentare sensibilmente il numero di nuovi cittadini. Ciò avrebbe riflessi sociali positivi per i promotori: più persone integrate con pieni diritti, partecipazione attiva alla vita pubblica (ad esempio questi nuovi cittadini potrebbero votare alle elezioni comunali, politiche ed europee, candidarsi, ecc.), senso di appartenenza rafforzato. Anche dal punto di vista internazionale, l’Italia darebbe un segnale di apertura e modernità sul fronte dei diritti civili, allineandosi a Paesi che facilitano la naturalizzazione. Naturalmente ci sarebbero anche sfide amministrative: le Prefetture e gli uffici competenti potrebbero essere sommersi da domande aggiuntive di cittadinanza, con necessità di potenziare il personale per evitare lungaggini; inoltre, andrebbero comunque mantenuti rigorosi i controlli sui requisiti (assenza di reati, integrazione linguistica) per garantire che la cittadinanza venga concessa a chi ha i titoli. Politicamente, la vittoria del Sì suonerebbe come una bocciatura per il governo Meloni su un tema identitario di grande rilievo. La maggioranza di destra dovrebbe incassare il cambiamento di una legge che considerava intoccabile e potrebbe reagire con toni duri, ma difficilmente potrebbe ostacolare l’applicazione del responso popolare. È possibile che in risposta tenti di enfatizzare altre misure restrittive in ambito migratorio (dove ha più margine di manovra) per rassicurare il proprio elettorato. Sul fronte opposto, le forze progressiste vedrebbero realizzata almeno in parte una storica battaglia per i diritti degli immigrati; ciò potrebbe dare loro slancio e consenso, e forse riaprire il discorso su riforme più ampie come quella per i minori (ius scholae). Da segnalare anche l’impatto sul tessuto democratico: nel medio-lungo termine, l’ingresso di nuovi cittadini-elettori potrebbe cambiare lievemente gli equilibri elettorali, soprattutto a livello locale in città con forte presenza di comunità immigrate.
Se invece prevalesse il No (o il referendum fosse nullo per mancato quorum), non cambierebbe nulla nella legge sulla cittadinanza: serviranno ancora 10 anni di residenza per poter presentare la domanda. Questo risultato sarebbe rivendicato con soddisfazione dal governo e dalle destre come una conferma che la maggioranza degli italiani non vuole facilità nella concessione della cittadinanza. Giorgia Meloni e i suoi alleati probabilmente lo percepirebbero come un mandato a proseguire sulla linea della cautela e severità in tema di immigrazione e integrazione. Potrebbero anche utilizzare l’esito per archiviare per un po’ la questione, sostenendo che “gli italiani hanno già deciso”. Sul piano sociale, però, per molti stranieri residenti e soprattutto per i giovani di seconda generazione sarebbe una forte delusione: resterebbero esclusi dal pieno riconoscimento giuridico e simbolico nella comunità nazionale, pur vivendo da anni in Italia. Se il referendum fallisse per bassa affluenza, il rischio sarebbe un aumento della disillusione e della distanza dalle istituzioni. Le associazioni che sostengono la riforma non si fermerebbero: potrebbero rilanciare iniziative parlamentari, chiedere semplificazioni amministrative o tornare a proporre forme alternative come lo ius scholae. La questione della cittadinanza, quindi, non si chiuderebbe: in una società sempre più composita, il tema del riconoscimento civico ed elettorale resterà al centro del dibattito pubblico. Una vittoria del No lascerebbe intatto l’impianto normativo, ma non risolverebbe la tensione tra inclusione e conservazione. Ne deriverebbe anche una probabile polarizzazione politica: da una parte chi celebra l’esito come difesa dell’identità nazionale, dall’altra chi denuncia un’occasione persa e promette nuove battaglie. Un confronto destinato a ripresentarsi ciclicamente.

 

Referendum 2025: uno snodo normativo e sociale

Dopo aver attraversato i cinque quesiti uno per uno, emerge con chiarezza che questo referendum non è una semplice consultazione su norme settoriali, ma un passaggio che solleva interrogativi più ampi sul mondo del lavoro, sulla rappresentanza, sullo stato della cittadinanza e sulla qualità della partecipazione democratica.

I quesiti propongono l’abrogazione di norme in vigore e, in ogni caso – che prevalga il Sì, il No o che non venga raggiunto il quorum – gli esiti avranno riflessi sul dibattito politico e giuridico del Paese. Alcuni temi potrebbero tornare al centro dell’attenzione attraverso proposte legislative o contrattazioni collettive, mentre altri potrebbero sollecitare una riflessione più ampia su diritti sociali, strumenti di tutela e dinamiche di inclusione.

Il ruolo dell’informazione, in questa cornice, diventa centrale. Comprendere le norme, valutarne l’impatto e collocarle nel contesto attuale è il primo passo per orientarsi tra scelte che riguardano non solo singoli provvedimenti, ma anche i valori su cui si fonda una società.

 

Fonti istituzionali
  • Ministero dell’Interno – Elezioni e referendum: https://dait.interno.gov.it/elezioni
    
    
  • Regione Emilia-Romagna – Referendum abrogativi 8-9 giugno 2025: https://www.regione.emilia-romagna.it/elezioni
    
    
  • Comune di Torino – Guida al voto: https://www.mentelocale.it/torino/...
    
    
Fonti giornalistiche
  • Corriere della Sera, 4 maggio 2025 – Confindustria: “I referendum sul lavoro un ritorno al passato”: link
    
    
  • Internazionale, 14 maggio 2025 – Breve guida ai referendum dell’8 e 9 giugno: link
    
    
  • Domani, 10 maggio 2025 – Chi ha paura dei nuovi cittadini: https://www.editorialedomani.it/...
    
    
Fonti sindacali e promotrici
Fonti giuridiche e normative
Fonti informative generiche
Alice Salvatore
Alice Salvatore
Alice Salvatore, è una politica “scollocata”, il concetto di scollocamento è un atto di volontaria autodeterminazione. Significa abbandonare un lavoro sicuro e redditizio, per seguire le proprie aspirazioni e rimanere coerente e fedele al proprio spirito. Alice Salvatore si è dunque scollocata, rinunciando a posti di prestigio, profumatamente remunerati, per non piegare il capo a logiche contrarie al suo senso etico e alla sua coerenza. Con spirito indomito, Alice continua a fare divulgazione responsabile, con un consistente bagaglio esperienziale nel campo della politica, dell’ambiente, della salute, della società e dell’urbanistica. La nostra società sta cambiando, e, o cambia nella direzione giusta o la cultura occidentale arriverà presto al TIME OUT. Alice è linguista, specializzata in inglese e francese, ha fatto un PhD in Letterature comparate Euro-americane, e macina politica ed etica come respira.
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