Nelle società occidentali il benessere viene spesso misurato in termini di consumo, crescita economica e successo individuale. Esiste però un’idea di benessere profondamente diversa, non basata sull’accumulazione materiale ma sull’equilibrio tra persone, natura e dimensione spirituale. Questa visione olistica del “vivere bene” è al centro del paradigma del buen vivir, espressione che in spagnolo significa appunto vivere bene nel senso più ampio e relazionale del termine. In tale prospettiva, “vivere bene” non riguarda semplicemente la prosperità individuale, ma implica vivere in armonia con sé stessi, con la comunità e con l’ambiente naturale circostante.
Origini andine
L’idea del buen vivir trae origine dalle cosmovisioni indigene andine, in particolare da quelle delle popolazioni originarie che abitano gli altipiani di Ecuador, Bolivia e Perù. In lingua kichwa, parlata in Ecuador e Colombia, viene chiamato sumak kawsay (letteralmente “vivere bene” o “esistenza bella”); in lingua aymara, diffusa tra Bolivia, Perù e Cile, si parla di suma qamaña (traducibile come “vita degna” o “anima buona”). Entrambe queste espressioni evocano un’esistenza piena e armoniosa, in cui ogni essere vivente è parte integrante di un tutto sacro: la Pachamama, la Madre Terra. Nella visione del mondo andina, la Terra non è una proprietà da sfruttare, ma una madre generosa con cui gli esseri umani intrattengono un rapporto di rispetto reciproco. Il buen vivir nasce quindi in questo contesto culturale, come concetto polisemico che riassume valori di reciprocità, comunità e rispetto della natura consolidati da secoli nelle pratiche di vita quotidiana dei popoli andini.
Costituzionalizzazione in Ecuador e Bolivia
L’idea del buen vivir, da elemento culturale locale, è entrata anche nelle istituzioni politiche. In Ecuador, nel 2008, essa è stata ufficialmente incorporata nella nuova Costituzione approvata da un ampio e partecipato processo costituente. Come ricorda il preambolo della carta fondamentale ecuadoriana, l’obiettivo dichiarato è di costruire «una nuova forma di convivenza pubblica, nella diversità e in armonia con la natura, per raggiungere il buen vivir» (Repubblica dell’Ecuador, 2008).
Il concetto di buen vivir pervade l’intero testo costituzionale – dal Preambolo, ai diritti fondamentali, fino ai principi di organizzazione economica e sociale – diventando un principio guida per le politiche dello Stato. Ad esempio, l’articolo 3, comma 5 della Costituzione stabilisce che è dovere dello Stato «pianificare lo sviluppo nazionale, eliminare la povertà e promuovere lo sviluppo sostenibile e la ridistribuzione equa delle risorse e della ricchezza per rendere possibile il buen vivir» (Repubblica dell’Ecuador, 2008).
In altre parole, la Costituzione ecuadoriana vincola esplicitamente l’azione pubblica al perseguimento del benessere collettivo in armonia con l’ambiente. La riforma costituzionale in Ecuador si inserisce in un più ampio movimento politico e culturale latinoamericano emerso negli ultimi decenni, trainato dai movimenti indigeni. Anche la Bolivia, nel 2009, ha adottato una nuova Costituzione che include il concetto di vivir bien, direttamente ispirato alle cosmologie andine (Stato Plurinazionale di Bolivia, 2009).
Questi sviluppi indicano come i saperi e i valori delle popolazioni native siano entrati nel dibattito istituzionale, proponendo alternative ai modelli di sviluppo tradizionali. Sulla scia di queste innovazioni costituzionali, le Nazioni Unite hanno proclamato nel 2010 la Giornata Internazionale della Madre Terra (United Nations General Assembly, 2009), riconoscendo formalmente l’importanza di un approccio armonioso nei confronti del pianeta. L’anno seguente, la Bolivia ha compiuto un passo ancora più radicale adottando una legge storica che riconosce alla natura lo status di soggetto giuridico, permettendo così di difendere legalmente i diritti degli ecosistemi (Stato Plurinazionale di Bolivia, 2010).
Si tratta di un cambiamento di paradigma rivoluzionario: queste riforme istituzionali inaugurano un approccio allo sviluppo che dà priorità all’equilibrio ecologico piuttosto che alla crescita economica sfrenata, promuovendo modelli alternativi e solidali, profondamente radicati nei territori locali. Il buen vivir da principio culturale è divenuto anche un principio giuridico e politico, segnando la direzione verso una concezione biocentrica dello sviluppo e del benessere collettivo.
Pratiche comunitarie contemporanee
Benché nato in contesti indigeni specifici, il buen vivir propone valori universali che possono trovare applicazione pratica in molti contesti. Nella prospettiva andina, il benessere non è mai una condizione puramente individuale e isolata, ma il risultato di relazioni armoniose: con gli altri esseri umani, con la natura, con il tempo e con la spiritualità.
Questa idea rompe nettamente con l’antropocentrismo tipico della modernità occidentale e con la rigida separazione tra umano e non-umano, tra economia e ambiente, tra materia e spirito. Per molte culture indigene andine, la salute e la prosperità di una persona dipendono anche dalla salute del territorio in cui vive, dall’equilibrio del clima locale, dalla fertilità della terra e dalla coesione della comunità di appartenenza. Non esiste una gerarchia fissa tra i diversi esseri viventi: ogni elemento – sia esso umano, animale, vegetale o persino minerale – possiede un ruolo e una dignità intrinseca nel mantenimento dell’armonia collettiva. La natura non viene idealizzata come uno sfondo immutabile né ridotta a semplice risorsa da sfruttare, bensì è concepita come una rete viva di relazioni, in cui ogni azione genera conseguenze reciproche.
Da questa visione scaturisce un’etica della responsabilità condivisa, fondata su valori come la complementarità, la cura, il riconoscimento dei limiti e il rispetto per tutti gli esseri. Coerentemente con questi principi, il buen vivir non è un’utopia astratta ma si traduce in pratiche concrete e quotidiane nelle comunità che a esso si ispirano. Ad esempio, in molte società indigene andine le risorse naturali fondamentali – come l’acqua e la terra coltivabile – vengono gestite collettivamente, attraverso meccanismi comunitari che ne regolano l’uso equo e sostenibile. La giustizia tende ad assumere forme comunitarie e riparative: i conflitti vengono risolti tramite consigli di anziani o assemblee pubbliche, privilegiando la ricomposizione dell’armonia sociale rispetto alla punizione individuale.
In agricoltura, si adottano pratiche agroecologiche tradizionali che conservano la fertilità del suolo e la biodiversità, in contrasto con il modello industriale intensivo. Inoltre, momenti di spiritualità collettiva – come le cerimonie rituali in onore della Pachamama – scandiscono il calendario comunitario, rafforzando il legame tra la comunità umana e gli elementi naturali. In tutte queste pratiche si riflette l’idea che il buen vivir si costruisce insieme: attraverso la cooperazione, la reciprocità e un rapporto di cura verso il prossimo e verso l’ambiente. Tali esperienze contemporanee dimostrano come antichi saperi e consuetudini indigene possano offrire modelli di vita sociale più equilibrati e sostenibili, opponendosi alle tendenze individualistiche e insostenibili del mondo globalizzato.
Conoscenze tradizionali, sostenibilità e giustizia sociale
L’emergere del concetto di buen vivir nel dibattito internazionale ha avuto il merito di mettere in discussione le metriche tradizionali con cui misuriamo il progresso e il benessere. Indicatori economici quantitativi come il PIL (Prodotto Interno Lordo), centrati esclusivamente sulla crescita economica, risultano infatti inadeguati a rappresentare il benessere reale delle persone e delle comunità.
Dal punto di vista del buen vivir, la prosperità non coincide con l’accumulo di ricchezza materiale, bensì con la qualità della vita in senso integrale. Il benessere viene misurato in termini di relazioni sane, giustizia sociale, equilibrio ecologico, accesso equo alle risorse fondamentali (terra, acqua, cibo), diritto alla salute e all’educazione. È dunque un’idea di prosperità fondata su valori collettivi e sulla consapevolezza dell’interdipendenza fra tutti i membri della comunità e tra la comunità umana e l’ambiente naturale, piuttosto che sull’individualismo e sull’accumulazione illimitata (IPBES, 2019).
In quest’ottica, i saperi tradizionali e i modi di vita dei popoli indigeni offrono indicatori alternativi di benessere, più vicini all’esperienza concreta della vita quotidiana e maggiormente attenti alla dignità delle persone e degli ecosistemi. Il buen vivir, lungi dall’essere una curiosità locale confinata al Sud del mondo, si presenta oggi come una proposta critica e trasformativa per ripensare il futuro delle società contemporanee a livello globale. In molti contesti diversi, infatti, stanno prendendo forma movimenti, iniziative e riflessioni che mettono in dubbio il modello di sviluppo dominante, riecheggiando principi simili.
Si pensi, ad esempio, ai movimenti per l’economia del dono, che valorizzano lo scambio gratuito e la mutualità; alle iniziative per la tutela dei commons (beni comuni) e la gestione partecipativa delle risorse condivise; alle pratiche di agroecologia contadina e di sovranità alimentare; o ancora al movimento per la decrescita, che invita a ridurre i consumi superflui e a ridefinire il progresso in termini qualitativi piuttosto che quantitativi.
In questo panorama, le visioni del mondo elaborate dalle culture indigene – fondate su reciprocità, interconnessione e rispetto per la Terra – offrono non solo una memoria storica di resistenza alle logiche di sfruttamento, ma anche un repertorio vivo di soluzioni concrete per abitare il pianeta in modo più giusto e sostenibile. Tali prospettive valorizzano la sostenibilità ambientale e la giustizia sociale come pilastri inscindibili del benessere collettivo, ricordandoci che il futuro richiede un cambio di paradigma ispirato ai principi dell’armonia e della reciprocità.
Dialogo con la scienza e le politiche globali
L’interesse verso il buen vivir e, più in generale, verso le conoscenze indigene non è solo di tipo antropologico o politico: oggi esso rappresenta una risorsa concreta per affrontare alcune delle grandi sfide globali del nostro tempo. Organismi internazionali come l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, il principale panel scientifico sul cambiamento climatico) e l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, piattaforma ONU sulla biodiversità) hanno riconosciuto esplicitamente che le popolazioni indigene custodiscono saperi ecologici complessi, affinati in secoli di convivenza con ecosistemi fragili e dinamici.
L’IPBES ha stimato, ad esempio, che circa l’80% della biodiversità residua del pianeta si trovi in territori abitati e gestiti da comunità indigene (IPBES, 2019). Queste conoscenze tradizionali riguardano aspetti pratici e spirituali al tempo stesso: la gestione sostenibile dell’acqua, la tutela delle foreste, l’agricoltura resiliente ai cambiamenti climatici, la previsione dei fenomeni meteorologici estremi. La scienza moderna sta iniziando a riconoscere il valore di tali saperi: come afferma il rapporto dell’IPCC del 2022, “Il riconoscimento e l’integrazione dei saperi indigeni e locali aumentano l’efficacia delle strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, rendendole più eque e durature” (IPCC, 2022). In altre parole, coinvolgere attivamente le comunità locali e i loro saperi può rendere le politiche ambientali e di sviluppo più efficaci e più eque nel lungo periodo. Per lungo tempo, i saperi tradizionali dei popoli indigeni sono stati ignorati o marginalizzati nei dibattiti scientifici e politici, in quanto trasmessi per via orale e privi della formalizzazione accademica tipica del sapere occidentale.
Oggi, tuttavia, cresce la consapevolezza che la scienza moderna non debba arrogarsi il ruolo di sostituta di questi saperi, ma piuttosto debba dialogare con essi su un piano di rispetto e complementarità. L’UNESCO, attraverso il programma LINKS (Local and Indigenous Knowledge Systems), sottolinea che il sapere tradizionale contribuisce alla comprensione della sostenibilità in modo complementare alla scienza occidentale, fornendo risposte adattive culturalmente pertinenti (UNESCO, 2022). In altre parole, le conoscenze indigene e quelle scientifiche possono essere integrate per arricchirsi a vicenda: ciascuna apporta prospettive e competenze uniche che, se combinate, permettono una comprensione più ampia e sfaccettata dei problemi e delle possibili soluzioni.
Questo dialogo tra saperi sta già avvenendo in diversi progetti innovativi nel mondo, segnando un passo importante nelle politiche globali di sostenibilità. In Canada, ad esempio, alcune comunità Inuit collaborano con glaciologi e climatologi per combinare le proprie osservazioni tradizionali sul ghiaccio marino con i dati raccolti dai satelliti: ne risultano modelli più accurati e localmente rilevanti per monitorare gli effetti del cambiamento climatico nell’Artico. In Amazzonia, popoli indigeni come i Kayapó e i Ticuna utilizzano tecnologie moderne (GPS, droni, telerilevamento) insieme ai ricercatori per mappare dettagliatamente le proprie terre ancestrali e denunciare la deforestazione illegale, unendo così sorveglianza tecnologica e conoscenza del territorio tramandata da generazioni.
In Africa australe, iniziative coordinate dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) coinvolgono leader tradizionali e agricoltori locali nella conservazione e scambio di semi autoctoni, una pratica cruciale per garantire la sicurezza alimentare e l’adattamento ai cambiamenti climatici. Queste esperienze dimostrano che tradizione e innovazione non sono affatto incompatibili: al contrario, possono rafforzarsi a vicenda, generando risposte più giuste, radicate e resilienti alle crisi ambientali e sociali in corso. L’integrazione dei saperi indigeni nelle politiche e nella ricerca scientifica globale offre dunque un esempio concreto di dialogo interculturale, capace di produrre soluzioni più efficaci di fronte a sfide come il riscaldamento globale, la perdita di biodiversità e le disuguaglianze sociali.
Altri paradigmi nel mondo
Il buen vivir andino non rappresenta un caso isolato. In molte altre parti del mondo, popoli e culture hanno sviluppato proprie visioni del “vivere bene”, basate su relazioni, reciprocità e armonia simili ai principi andini. Si tratta di modi diversi di rispondere a una stessa domanda universale: come si vive bene, insieme? Di seguito esamineremo alcuni concetti affini al buen vivir emersi in continenti e contesti culturali differenti, che pur nella loro diversità mostrano sorprendenti convergenze di valori.
Ubuntu: io sono perché noi siamo
In molte culture dell’Africa subsahariana, in particolare tra i popoli bantu di paesi come il Sudafrica, lo Zimbabwe, il Mozambico o l’Uganda, esiste un principio fondamentale espresso dalla parola Ubuntu. Nella lingua zulu si enuncia con il proverbio “Umuntu ngumuntu ngabantu”, che significa: “una persona è persona attraverso le altre persone”.
Questo aforisma racchiude una filosofia che pone al centro la comunità e la relazionalità come fondamento dell’identità individuale: in altre parole, io sono perché noi siamo. Secondo il principio di Ubuntu, l’essere umano realizza pienamente sé stesso solo all’interno della rete di relazioni con gli altri membri della comunità. Ubuntu non è un’idea astratta o teorica: è una filosofia vissuta nella quotidianità.
Si manifesta, ad esempio, nei metodi tradizionali di risoluzione dei conflitti, che privilegiano la riconciliazione e il reintegro del colpevole nella comunità piuttosto che la punizione retributiva. Traspare nel modo di educare i bambini, enfatizzando la cooperazione e il rispetto verso tutti; nel prendersi cura collettivamente degli anziani; nei processi decisionali comunitari, che tendono a basarsi sul consenso e sull’ascolto di ogni voce.
Non a caso, Ubuntu fu indicato come principio guida del processo di riconciliazione post-apartheid in Sudafrica: figure come Nelson Mandela e Desmond Tutu hanno spesso richiamato Ubuntu come “la nostra bussola morale”, a sottolineare l’importanza del perdono e della costruzione di una nuova comunità nazionale unita. Nella pratica, Ubuntu insegna che il benessere di ciascuno dipende dal benessere di tutti gli altri. Se un membro della comunità soffre, l’intera comunità ne risente; se una persona fiorisce, tutti ne traggono beneficio. Si tratta di un’idea potente, che sfida l’individualismo dominante e ricorda che l’umanità è, in ultima analisi, una rete interconnessa di relazioni.
Ngapartji Ngapartji: dare e ricevere insieme
Nel cuore dell’Australia centrale, presso le popolazioni aborigene Pitjantjatjara e Yankunytjatjara, troviamo un concetto affine espresso dalla formula Ngapartji Ngapartji, traducibile come “io do a te, tu dai a me”. A prima vista potrebbe sembrare la descrizione di uno scambio materiale, ma in realtà non si tratta di mera economia: Ngapartji Ngapartji incarna una forma di reciprocità sociale e culturale profonda, in cui ogni dono crea un legame e ogni relazione implica responsabilità reciproche.
È un principio che da secoli regola i rapporti interpersonali e inter-clanici, la trasmissione dei saperi tradizionali e la cura del territorio tra questi popoli aborigeni. Ogni atto di generosità o condivisione richiede di essere ricambiato, non come obbligo contabile, ma come modo per rinsaldare continuamente la coesione sociale. Nella pratica, Ngapartji Ngapartji definisce le dinamiche della vita comunitaria: gli anziani tramandano ai giovani le conoscenze sulla terra e le storie sacre, e questi ultimi restituiscono rispetto e apprendimento; i clan stringono alleanze rituali scambiandosi doni cerimoniali, danze e canti; l’ospitalità è sacra e chi riceve aiuto sa che dovrà a sua volta aiutare qualcun altro in futuro.
Questo concetto di reciprocità non si limita ai rapporti tra umani, ma comprende il rapporto con la Terra stessa: prendersi cura di un luogo sacro, di una fonte d’acqua o di un sentiero implica ricevere in cambio protezione e identità da quella terra. Ngapartji Ngapartji è così radicato nella cultura locale da aver dato nome anche a iniziative artistiche innovative: ad esempio uno spettacolo teatrale bilingue intitolato Ngapartji Ngapartji ha portato in scena, attraverso storie e canzoni in lingua aborigena, la tragica esperienza dei test nucleari condotti nel deserto australiano negli anni ’50, evidenziando come il principio di dare e ricevere sia stato violato da quelle vicende storiche. Ngapartji Ngapartji insegna una logica opposta alla competizione individualista: vede nel legame, nel rispetto e nel dono le fondamenta della convivenza, trasformando la reciprocità in una forza coesiva della comunità (e non in una debolezza da sfruttare).
Sawen na rani: la bellezza della cura
Nel contesto insulare delle Isole Figi, nel Pacifico sud-occidentale, la popolazione autoctona iTaukei coltiva una filosofia del benessere nota come Sawen na rani, espressione che si può tradurre come “la dolcezza dell’essere umano nel prendersi cura”. Questo concetto incarna un’etica della gentilezza e della presenza premurosa verso gli altri, una responsabilità condivisa nel provvedere al benessere altrui.
Per la visione sawen na rani, infatti, il benessere non consiste solo nell’avere ciò che serve materialmente, ma soprattutto nel sentirsi visti, riconosciuti e sostenuti dagli altri nella vita quotidiana. La cura reciproca – intesa come attenzione costante ai bisogni emotivi, sociali e materiali degli altri membri della comunità – diventa la misura della buona vita. Nelle comunità figiane iTaukei, questo principio di cura si manifesta in mille gesti quotidiani: la condivisione del cibo con chi ne ha bisogno, l’assistenza comunitaria agli anziani e ai malati, l’ascolto profondo e rispettoso durante le assemblee del villaggio. Attraverso questi piccoli atti, si costruiscono relazioni solide, capaci di resistere anche nei momenti di crisi.
La cura reciproca funge da tessuto invisibile che tiene insieme la società: è data per scontata e allo stesso tempo continuamente rafforzata dal comportamento di ognuno. Sawen na rani celebra dunque la bellezza della cura, considerandola non un peso ma il fulcro stesso dell’umanità. In opposizione ai modelli che esaltano l’individualismo, questa filosofia afferma che una comunità prospera solo se tutti i suoi membri si sentono accolti e sostenuti: l’atto di curare gli altri è ciò che conferisce dolcezza e significato all’essere umano.
Kapwa: non esiste “io” senza “noi”
Nelle Filippine, in particolare tra le popolazioni di lingua tagalog dell’isola di Luzon, troviamo un concetto profondo e di difficile traduzione diretta: Kapwa. Questa parola esprime la convinzione che l’“altro” non sia un estraneo, ma una parte di sé. In senso lato, kapwa significa vivere in una condizione di connessione costante con gli altri: non siamo individui separati, ma persone relazionali, immerse in un “noi” collettivo più ampio. Il termine Kapwa indica quindi la totale interdipendenza dell’io e del prossimo, e funge da principio etico basilare nella cultura filippina tradizionale.
Il concetto di Kapwa orienta molte pratiche sociali nelle comunità tagalog. Si manifesta, ad esempio, nella forte solidarietà tra vicini e parenti, dove chi è in difficoltà può contare sul sostegno spontaneo degli altri. È alla base dell’aiuto reciproco nelle emergenze: calamità naturali come tifoni o terremoti vedono le comunità mobilitarsi all’unisono per garantire la sopravvivenza di tutti, perché il dolore di uno è sentito come il dolore di tutti. Kapwa ispira anche il modo di accogliere gli ospiti – con estrema generosità e calore, come se fossero famiglia – e il modo di perdonare gli errori altrui, privilegiando l’armonia sociale rispetto al risentimento.
Questa filosofia quotidiana rifiuta l’egoismo come modello di comportamento: suggerisce che la vera forza e resilienza umana nascono dalla cooperazione e dal senso di appartenenza reciproca. In un contesto globalizzato che spesso esalta l’individualismo competitivo, Kapwa riafferma che non esiste un “io” senza un “noi”: l’identità personale si costruisce sempre entro e grazie a una rete comunitaria. Dai concetti descritti – buen vivir, Ubuntu, Ngapartji Ngapartji, Sawen na rani, Kapwa – emergono radici culturali diverse, lingue lontane e pratiche specifiche, ma anche un’intuizione comune e universale.
Tutte queste visioni affermano, ciascuna a suo modo, che il benessere autentico non può esistere senza relazione, senza cura reciproca, senza rispetto per ciò che ci circonda. In un mondo segnato da disuguaglianze crescenti, crisi ambientali e frammentazione sociale, tali prospettive non offrono ricette semplicistiche né soluzioni preconfezionate, ma indicano orizzonti alternativi verso cui tendere. Non si tratta di visioni nostalgiche di un passato idealizzato, bensì di prospettive radicalmente orientate al futuro: ci ricordano che un altro modo di vivere – più umano, più equo, più sostenibile – non solo è possibile, ma in molti luoghi è già realtà. Le lezioni che possiamo trarre da queste saggezze indigene rappresentano un patrimonio prezioso per ripensare le nostre società e affrontare le sfide globali con uno spirito di maggiore solidarietà e rispetto verso la Terra.
Cosa possiamo imparare
Dall’incontro con le visioni indigene del benessere emergono alcuni principi chiave che possono arricchire la prospettiva globale sul vivere bene. Queste lezioni, frutto di esperienze millenarie, offrono spunti per ripensare i nostri valori e modelli di sviluppo:
1) Il benessere è relazionale, non individuale. Non siamo isole separate: viviamo bene solo quando le nostre relazioni – con gli altri, con la terra, con il tempo – sono sane e armoniose. Il benessere personale è inseparabile da quello collettivo e ambientale, perché ogni individuo è parte di una rete di interdipendenze.
2) La reciprocità è una forza, non una debolezza. Aiutare, condividere, restituire non sono segni di arretratezza, ma costituiscono il tessuto connettivo di comunità resilienti e solidali. Nei modelli comunitari, la cooperazione non è opzionale: è fondamentale per la sopravvivenza e per la dignità di tutti.
3) La natura non è un semplice “ambiente” esterno, ma parte della comunità. Fiumi, alberi, montagne non andrebbero visti come oggetti o risorse passive, bensì come soggetti viventi con cui l’umanità convive. Ascoltare, rispettare e relazionarsi con la natura significa riconoscere che la nostra vita dipende da essa e che abbiamo responsabilità verso gli altri esseri viventi.
4) La cura è un principio organizzativo, non solo un gesto affettivo. Prendersi cura non è soltanto un atto privato o un’emozione individuale: dovrebbe diventare la base dei nostri sistemi economici, educativi e politici. Una società orientata alla cura – delle persone fragili, della comunità, dell’ambiente – è una società più giusta e sostenibile, in cui il progresso si misura anche dalla capacità di proteggere e includere tutti.
5) Il tempo non è solo produttività: è ascolto, rito, memoria. Le visioni indigene insegnano il valore di un rapporto diverso con il tempo: saper dare tempo alle decisioni importanti, celebrare i passaggi significativi della vita, ricordare chi è venuto prima di noi. Queste pratiche rafforzano i legami comunitari e ci ancorano a una dimensione più umana, contrastando l’ansia da prestazione e la frenesia tipiche della società contemporanea.
6) Scienza e saperi tradizionali possono dialogare. Non si tratta di scegliere tra razionalità scientifica e spiritualità ancestrale, come fossero inconciliabili: la sfida attuale è integrare diversi linguaggi e visioni del mondo per affrontare insieme le crisi del presente. La conoscenza tradizionale può rendere la scienza più consapevole dei contesti culturali e locali, mentre la scienza può offrire strumenti utili alle comunità indigene. Il dialogo paritario tra questi saperi arricchisce entrambi e aumenta le nostre chances di trovare soluzioni sostenibili.
Questi insegnamenti suggeriscono che, per costruire un futuro migliore, dobbiamo riscoprire il senso del noi e del nostro legame con la Terra. In una fase storica in cui le crisi globali – dai cambiamenti climatici alle pandemie, fino alle crescenti disuguaglianze – mettono in luce la vulnerabilità e l’interconnessione di tutti, le conoscenze indigene ci offrono orientamenti preziosi. Imparare dal buen vivir e dagli altri paradigmi tradizionali non significa idealizzare società lontane nel tempo o nello spazio, ma trarre ispirazione per trasformare in meglio le nostre comunità, ritrovando equilibri più armoniosi con gli altri e con la natura.
Le riflessioni sul buen vivir e sulle visioni indigene del mondo ci ricordano che esistono modi alternativi di concepire il progresso e la felicità collettiva. In ultima analisi, il filo conduttore che unisce queste prospettive è l’idea che il benessere sia una pratica comunitaria quotidiana, radicata nel territorio e nelle relazioni, anziché un traguardo esclusivamente individuale. Vivere bene richiede tempo, ascolto, rispetto reciproco e cura di ciò che ci sostiene – siano essi i legami sociali o gli ecosistemi naturali.
Incoraggiare un dialogo interculturale tra i saperi indigeni e la modernità non è soltanto un atto di giustizia verso popoli a lungo marginalizzati, ma rappresenta una strategia lungimirante per il bene di tutta l’umanità. Tessere insieme la saggezza ancestrale e la conoscenza scientifica ci permette di affrontare con maggiore efficacia le sfide epocali come il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità o le disuguaglianze sociali (IPCC, 2022).
Le società industrializzate hanno molto da imparare da chi ha coltivato per secoli un rapporto equilibrato con la natura e con la comunità: non per tornare indietro nel tempo, ma per andare avanti in una direzione più sostenibile e solidale. Dunque il paradigma olistico proposto dal buen vivir e dalle visioni indigene affini non è una curiosità esotica, ma una fonte di ispirazione concreta per ripensare il nostro rapporto con gli altri esseri umani e con il pianeta. In un’epoca di grandi transizioni, queste prospettive ci invitano a immaginare e costruire un futuro in cui il vivere bene significhi, anzitutto, vivere in equilibrio: con noi stessi, con gli altri e con la Terra che tutti ci ospita.
Fonti IPBES. (2019). Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services. Bonn: Piattaforma Intergovernativa Scienza-Politica sulla Biodiversità e gli Ecosistemi. IPCC. (2022). Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability (Sixth Assessment Report, Working Group II). Ginevra: Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico. Repubblica dell'Ecuador. (2008). Costituzione della Repubblica dell'Ecuador. Montecristi: Assemblea Costituente. Stato Plurinazionale di Bolivia. (2009). Costituzione Politica dello Stato. La Paz. Stato Plurinazionale di Bolivia. (2010). Ley de Derechos de la Madre Tierra (Ley n. 071, 21 dic. 2010). La Paz. UNESCO. (2022). Local and Indigenous Knowledge Systems (LINKS) Programme. Parigi: Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. United Nations General Assembly. (2009). Resolution adopted by the General Assembly on 22 April 2009 (A/RES/63/278): International Mother Earth Day. New York: United Nations.